Ciò che non si può dire

Pino Loperfido

Ciò che non si può dire

Il racconto del Cermis

Premiato con Targa nella XXXVIII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" – anno 2022


Descrizione

Francesco ha due grandi passioni: i film di Paul Newman e il mare. Ma vive in montagna e “guida” una funivia. La vita per lui è una continua lotta con l’insoddisfazione, combattuta in costante equilibrio tra piccole gioie ed enormi, inevitabili delusioni. Un viaggio accidentato alla continua ricerca di se stesso che si interrompe bruscamente il 3 febbraio 1998, quando un aereo partito dalla base militare U.S.A. di Aviano trancia i cavi della funivia del Cermìs, in Trentino. Una cabina precipita nel vuoto causando la morte delle venti persone a bordo. Dall’altra cabina, solitario, Francesco assiste impotente e qualche tempo dopo decide di mettersi a scrivere.
È un racconto, il suo, ricco di coincidenze, premonizioni e ricordi che parte da un’infanzia segnata da un’altra tragedia e giunge ad una maturità segnata dalla piena consapevolezza del proprio stare al mondo.
A fare da spartiacque, lo scellerato volo di quel martedì di febbraio, "danno collaterale" di un'ingiustificata prevaricazione militare, emblema di ogni abuso di potere, quasi sempre posto in essere a danno della gente comune.
Ma per Francesco quella tragedia non è solo un fatto politico, o la conseguenza della stupidità umana. Perché è convinto che accanto a questo mondo, tangibile, limitato e oscuro ve ne sia un altro inconosciuto, luminoso e infinito, forse legato a quella che Kant definì "metafisica della natura”.
Ecco allora emergere nel romanzo i mondi invisibili, quelli che per il protagonista di questa storia vibrano misteriosi tutt’attorno, offrendo segni e dando corpo alle ombre, specie nella solitudine e nella semplicità d’animo tipiche delle genti di montagna. Racconti tramandati di generazione in generazione che non forniscono prove, ma sanno maledettamente di autentico.
Pino Loperfido propone un testo completamente nuovo in cui, accanto ad una ricostruzione quasi giornalistica dei fatti dona al lettore le avventure di un’anima curiosa. Di un uomo destinato a scoprire che l’unica attività o passione che non delude mai è proprio la ricerca delle ragioni per cui tutto sembra destinato, ogni volta, a deludere. L'ingiustizia può anche piantare il suo vessillo nero, ma misteriose presenze vagano dall'eternità di fianco al viandante. Delle volte basta solo sintonizzarsi con fiducia per riuscire a coglierne le frequenze.

L'Autore

Ciò che non si può dire

Pino Loperfido (Milano, 1968) è autore di teatro e di narrativa e giornalista. Il suo ultimo libro è La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri (Curcu Genovese, 2020, Premio “De Cia Bellati” per la narrativa). È direttore della rivista TM – TrentinoMese. Gestisce il blog letterario Bandiera Bianca. Ha ideato e diretto il Trentino Book Festival dal 2011 al 2019.

Leggi l'incipit

Volevo fare l’attore. 

Certo, a quel tempo, mi pareva che i compagni di classe e tutti gli altri bambini del mondo avessero sogni un po’ diversi. Quelli della componente maschile ruotavano generalmente attorno a un pallone: l’idea era quella di rincorrerlo, un giorno, davanti a migliaia di tifosi festanti. Per le femminucce si trattava di favoleggiare principi azzurri, idilliache visioni matrimoniali e pargoli infagottati.

Io invece mi ero messo in testa di recitare. No, non alla filodrammatica, ma direttamente a Hollywood. Certo, mi prendevano tutti un po’ in giro per questo. Papà per primo. In camera mia sostava preoccupato davanti al ritaglio con il volto di Paul Newman, in bella vista sulla parete dietro il letto. Era la pagina di una rivista, uno dei coloratissimi giornali che Gino il barbiere teneva ammonticchiati sul tavolino, tra le poltroncine d’attesa. Era lì, mentre attendevo il mio turno, che dovevo essermi messo in testa questa cosa del cinema. Quelle riviste patinate mostravano persone belle, sorridenti e di successo. Era in quella fauna luccicante che avevo scoperto Paul. Avevo visto diversi suoi film, di alcune scene conoscevo perfino le battute a memoria. Ne imitavo i gesti e le espressioni, passando lunghi minuti davanti allo specchio a cercare un indizio, uno straccio di somiglianza con quell’americano dagli occhi azzurri. Facevo smorfie spaventose, ripetendo improbabili dialoghi in italiano alternato a un inglese di mia invenzione. In effetti non gli assomigliavo molto, ma avevo scoperto che al problema forse avrei potuto porre rimedio. La fossetta sul mento, per esempio. Per ricrearla, ogni sera, prima di dormire, stringevo la pelle in una molletta da bucato, cercando di modellarla in qualche modo. Papà tornava dai boschi, mi vedeva in quello stato e scuoteva il capo. Io allora puntandogli indice e pollice, tutto contento, gli urlavo frasi da copioni inesistenti: “Arrenditi, maledetto!” oppure “Sei fregato, amico!”. Lui alcune rarissime volte stava al gioco e si buttava per terra fingendosi colpito a morte, ma quasi sempre non diceva una parola e, molto più orso e mesto del solito, si sedeva a tavola. Non capivo perché le mie scenette lo intristissero così tanto. In fondo stavo solo cercando di imparare un mestiere. Pensavo al mio futuro, insomma. Non era forse questo che volevano i grandi da noi?

Un giorno, papà era entrato in camera, chiudendosi subito la porta alle spalle. Era rimasto un intero minuto in silenzio, guardandosi attorno, come se si trovasse lì per la prima volta. Sembrava un astronauta che esplora un asteroide sconosciuto, distante migliaia di anni luce dalla Terra. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quel ritaglio. Sapevo benissimo a cosa stava pensando. Avrebbe preferito che sui muri di quella stanza ci stessero appese ben altre sembianze. Femminili. La crisi petrolifera, il terrorismo, i soldi che non bastavano mai non lo angosciavano così tanto quanto la possibilità che il suo unico figlio fosse omosessuale. A quei tempi era un vero tabù. Già si vedeva, infatti, esposto al pubblico ludibrio, quando in paese si sarebbe sparsa la voce. Così quel giorno, con una destrezza che non avrei mai sospettato, aveva staccato la pagina dal muro, strappandola in quattro parti che mi consegnò subito. Analizzai i cadaverini cartacei e mi stupii della precisione di quel gesto: i quattro pezzi erano praticamente uguali. Nemmeno con forbici e righello avrebbe potuto fare di meglio. Il viso di Paul così quadripartito mi provocò un’infinita tristezza, ma papà aveva adesso un’aria talmente sollevata… Non nutriva alcun dubbio riguardo l’efficacia di quella sua boscaiola pedagogia pratica.

Ehi! Bocia! Sì, digo a tì. Cos’elo che te voi far da grant?

Il cucciolo di uomo scrutava l’uomo che aveva di fronte, così come si scruta chi abbia appena fatto una domanda stupida. La più scontata che possa esistere.

“Io? Cosa voglio fare da grande?”

Lo so, pensavo ogni volta, è una domanda a trabocchetto. Papà conosceva benissimo la risposta, ma voleva lo stesso sentirsela dire per poter partire con la consueta reprimenda. Ma cosa potevo rispondergli, allora? Il contadino? L’operaio? Certo, concetti un po’ astrusi per un bambino. L’inventore, l’astronauta, lo scienziato: ecco, dai, uno di questi, forse. In quei momenti desideravo solo uscire il più velocemente possibile dall’impasse: la tensione cresceva, lo capivo da come papà stringeva i pugni. La situazione poteva degenerare da un momento all’altro.

“Il pilota di Formula Uno”.

Lo sapeva che mentivo spudoratamente, ma rilasciava lo stesso i pugni. A volte pur di non dover fare troppo presto i conti con la realtà, ci si accontenta di una piccola bugia.

Avrei fatto l’attore, a tutti i costi. Qualche sorriso davanti a una telecamera, un bacio alla bellona di turno e giù miliardi. Gli attori sapevano sempre cosa dire, come muoversi, non conoscevano i tempi morti, le ansie della vita quotidiana, i fastidi, la noia. In una parola, incarnavano il segreto della felicità. Sì, desideravo essere proprio così: e in più, ricco, famoso e bello. Volevo essere Paul Newman, ne ero certo. A dire la verità, riguardo alla bellezza partivo un po’ svantaggiato, ma con la fossetta ero già a buon punto, mi pare. E poi, scusate, ma a Hollywood non c’erano i migliori truccatori del mondo? La bellezza non era tutto. Altri elementi erano richiesti dallo status di attore: il fascino, il carisma. Si trattava solo di scovarli da qualche parte dentro di me, prima o poi. Semplice, no?

Sa te piaseràlo de quel lì? No te sarai miga ’n recion?!

Ecco, alla fine aveva trovato il coraggio per domandarmelo. Ormai da tempo la natura dei suoi sospetti era fin troppo chiara. Faceva le sue incursioni in camera, lanciava un’occhiata ai poster – che nel frattempo continuavo ad accumulare – e scuoteva il capo. C’era qualcosa che non andava in me: ne era oramai certo. Ci fossero stati Roberto Bettega, Francesco Moser o Gustav Thöni, su quel muro, non avrebbe fatto una piega papà. Eppure sempre di maschi si trattava.

Sa te piaseràlo de quel lì…”

Già, cosa mi piaceva, esattamente, di Paul Newman? Beh, non lo so. Ma mi aveva colpito Intrigo a Stoccolma, il film in cui interpretava uno scrittore, amante dell’alcol nonché impenitente donnaiolo, che vinceva il premio Nobel per la letteratura. Un abbinamento che solo un grande attore poteva rendere credibile: il fascino della trasgressione e quello della cultura amalgamati in un unico essere umano.

“Arrenditi, maledetto!” ecco di nuovo l’indice puntato dritto sulla pancia di papà.

Lui mugugnava, si grattava la testa e se ne tornava di sotto, in cucina. Non si capacitava di quel curioso atteggiamento. Al di là del mio possibile orientamento sessuale, a non dargli pace era una domanda soprattutto: il posto che mi era stato assegnato nel mondo. Perché, come tutti i miei coetanei, non me lo facevo bastare? Perché volevo per forza vivere la vita di qualcun altro?

Oggi lo so: non aveva poi tutti i torti. Erano le normalissime preoccupazioni di un padre nel mezzo degli anni Settanta del Novecento, in una periferica valle di montagna. Ma era più forte di me. Aveva forse un’idea quell’uomo di quante ragazzine, presto o tardi, avrebbero cominciato a ronzarmi attorno? Sì, femmine: erano loro a piacermi, ma ero talmente timido e imbranato. Forse fare l’attore avrebbe spazzato via anche l’impaccio che mi ingessava davanti alle compagne di classe. Il cinema era una magia, una potentissima magia nera. Avrei potuto godere degli stessi oscuri e misteriosi poteri che rendevano invincibili Superman e Capitan America, o qualcosa del genere. Ecco cosa pensavo. Ma ero solo un bambino che faceva sogni di gloria grandi così.

Ciò nondimeno, caro lettore, mettiamo da parte il cinema, adesso.

Hollywood, addio! 

 

 

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