
Gianluca Pirozzi
Come un delfino
Premiato con
Targa nella XXXVII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" –
anno 2021
Descrizione
Come un delfino scandaglia nel profondo la vita intima di Vanni e dei suoi affetti.
Vanni fugge dalle proprie origini, dalle complicate dinamiche familiari e dalle perdite strazianti che segnano la propria infanzia nella Napoli degli anni Settanta. Riesce così faticosamente a costruirsi una nuova dimensione esistenziale. A Roma, la ricerca della propria identità e dell’amore lo legano a Tiago, col quale matura il sogno di costituire una famiglia. Col tempo questo desiderio prende forma grazie all’amicizia con Amandine. Tuttavia, una nuova scossa minerà l’assetto della vita di Vanni, mettendolo di fronte a una scelta cruciale per il proprio futuro.
Attraverso le pagine, anche quelle più difficili, dell’esistenza di Vanni e dei suoi cari, emerge il suo inesauribile amore per la vita. La felicità diviene così un traguardo, raggiungibile solo accettando il proprio dolore.
Gianluca Pirozzi, con uno stile incisivo, scandaglia nel profondo la vita intima di tutti i personaggi, mostrando come anche le fragilità possano rivelarsi una risorsa.
L'Autore
Gianluca Pirozzi è nato a Napoli e ha vissuto in Italia e all’estero. I suoi racconti sono stati più volte premiati nell’ambito di rassegne letterarie nazionali e pubblicati in antologie e raccolte narrative.
Gianluca Pirozzi è nato a Napoli e ha vissuto in Italia e all’estero. I suoi racconti sono stati più volte premiati nell’ambito di rassegne letterarie nazionali e pubblicati in antologie e raccolte narrative.
Ha pubblicato: Storie liquide (2010), Nell’altro (2012), Nomi di donna (2016) - quest’ultimo tradotto in spagnolo e pubblicato all'estero col titolo Nombres de mujer (2018) - e Come un delfino (2019) - romanzo vincitore del Premio Emilio Lussu 2020, del Premio Argentario 2020, del Premio Città di Lugnano In Teverina 2020 e selezione speciale del Premio Città di Como 2020 e, più recentemente, premiato al XXXVII Premio Città di Cava dei Tirreni.
Leggi il primo capitolo
Prologo
Una giacca, in misto cotone e lino, di color turchese, che hai indossato nei giorni di festa.
Un televisore bianco diventato icona del design internazionale.
Un enorme terrazzo pieno di vasi, disposti lungo tutte le ringhiere, traboccanti di gerani che Iole – la tua nonna ma- terna – s’è portata dietro come fosse una dote da Venezia a Lione e, poi, a Torino e, infine, a Napoli, dove s’è trasferita anche lei per stare insieme a Laura, sua figlia, che ha scelto Ettore, un partenopeo, come coniuge e padre dei suoi figli.
Una cartella per la scuola in finta pelle color bordò con intarsi di pelo in cavallino in cui per alcuni anni prima di cederla a tuo fratello Tommaso – anzi, Maso come tu l’hai chiamato da subito – hai trasportato il libro di scuola, i quaderni, le matite e le merende preparate da Iole.
Una specchiera con un vetro unidirezionale, acquistata al mercato delle pulci da tua madre quando eri bambino e che lei ha fatto piazzare tra la sala da pranzo e la cameretta, cosìcché, in disparte e nella comodità del proprio letto, tu e tuo fratello poteste godere della vista di quelle cene affollate che duravano fino a tardi. Tante volte ti sei addormentato con- fondendo realtà e immaginazione, perdendoti dietro volti fa- miliari e gesti inspiegabili dietro quella specchiera.
E, ancora, un Maggiolino Volkswagen color aragosta coi sedili sempre sporchi di polvere di gesso, una polvere così sottile da entrarti nelle narici e imbrattarti oltre le mani an- che i vestiti. Malgrado tuo padre abbia sempre tentato di ripulirti dopo aver accostato davanti al cancello, è stata quella polvere sul grembiule di scuola ad attirare l’ilarità dei tuoi compagni di scuola, soprattutto di uno di loro, quello alto di cui ora non ricordi più il nome. Ti ha preso in giro per primo e, dopo di lui, anche tutti gli altri hanno cominciato a chiamarti “Sfilatino” perché sembravi il figlio di un panettiere con addosso tutte quelle macchie bianche. Invece, tuo padre
– lo stesso di cui da sempre conosci le grida scagliate all’improvviso contro tua madre, tua nonna e, in successione, an- che contro di te e Maso – fa lo scultore.
Più di una volta, glielo hai spiegato ai tuoi compagni che non sei il figlio di un panettiere, ma non è mai servito gran- ché, e allora ci hai rinunciato e il nomignolo ti è rimasto ad- dosso fino alla terza elementare.
Un corridoio lungo come un serpente della foresta amazzonica, che si snoda in quei duecentotrenta metri quadri che è casa tua, attraversandola dall’ingresso fino ai due bagni padronali e alle camere da letto sistemate all’estremità opposta. E, lungo tutto quel passaggio, una libreria con ripiani stracolmi di volumi alternati a qualche oggetto e a quadri che, in- vece, non danno tregua neanche sugli stipiti del salone, della cucina e delle altre stanze.
Un tavolino pieghevole di legno color verde per te, uno cobalto per Maso e, più tardi, un altro rosso per far disegnare tua sorella Martina, mentre tu e Maso fate i compiti di scuola e dove, prima di quelle occupazioni, tu vuoi che s’apparecchi la tavola, perché è sul terrazzo – e non in camera tua – che hai deciso di trascorrere il tuo tempo quando non sei giù, nel parco, a giocare con gli altri bambini.
E poi: un ascensore in cui montare in segreto fino al terzo piano, tanto Don Salvatore – il portiere – non può vederti mentre infrangi il divieto imposto ai minori non accompagnati. «Chi sono i minori?» hai domandato un giorno a tua madre, e non deve esserti piaciuta la spiegazione che lei ti ha dato perché quel veto ti è sembrato un’ingiustizia nei con- fronti tuoi e di tutti gli altri bambini costretti all’uso delle scale o, in alternativa, a una scontata dipendenza dagli adulti. Perciò, quando puoi e sei certo che non ti vedano, tu e Maso avete preso da soli l’ascensore.
Un salone con un tavolo di legno al quale possono sedere fino a dodici commensali, tre poltrone e due divani di velluto verde all’altro capo di quella stanza. In quel salone tua nonna Iole si è trattenuta spesso per scegliere stoffe e selezionare i modelli per i suoi vestiti. Lì (e non nella sua stanza da letto) hai osservato tua nonna mentre provava giacche, gonne e abiti, ancora pieni di spilli e fili pendenti, e l’hai ascoltata raccontare alla signorina Giselda – la sarta – della sua vita, del- l’infanzia e della giovinezza a Venezia, del trasferimento a soli sedici anni a Lione dove ha incontrato e sposato Luigi, tuo nonno, e, poco più tardi, a Torino, dove è nata Laura e, in- fine, a Napoli dove sua figlia si è trasferita e dove lei l’ha voluta seguire, dei concerti al San Carlo o alla Reggia di Capodimonte e, ancora, di tuo nonno volato via troppo presto e di te, che sei bello come lui e che hai persino il suo stesso carattere.
Una figura di una donna nuda. L’ha realizzata tuo padre modellandola a grandezza naturale e tu sai che è stata esposta alla Biennale di Venezia quando lui aveva appena trent’anni. È una donna giovane, è seduta su una sedia con le gambe accavallate e pare guardare lontano. Ha il capo appoggiato su entrambe le mani e tu quella testa immobile l’hai accarezzata qualche volta di nascosto, provando ogni volta una strana sorpresa per il freddo di quella materia. Ritratti mentre siete seduti ai piedi di quella scultura, ci siete tu e Maso in una fotografia scattata da tuo padre, è venuta in parte sfocata per- ché, probabilmente, lui non è riuscito a farvi smettere di ridere e di muovervi.
Un Alano nero che si è fatto docilmente amare e, talvolta, maltrattare. In groppa a lui tu hai addirittura giocato a essere un cow-boy e, quando lui non c’è stato più, sei tu che hai voluto un altro cane, ma quel cucciolo di Cocker Spaniel, pure lui nero come un corvo e bello come un pupazzo, già a due anni ha mostrato i segni di una malattia fino ad allora sconosciuta, per la quale divertimento e coccole hanno cominciato ad alternarsi a improvvise manifestazioni aggressive nei con- fronti di estranei.
Adesso che ripensi a tutto questo, e lo fai chiedendoti per- ché proprio queste cose precise e non altre hai trattenuto nel- la rete di un mare di ricordi che ti restano della tua primissima infanzia, sai senz’altro che ce ne sono altre ma, probabilmente, tu ti ostini a provare ad imbrigliare nelle maglie della memoria solo quelle immagini. Ma se ci pensi bene, insieme a queste, affiora subito il ricordo di uno schiaffo di tuo padre volato all’improvviso, quello di un tuo disegno che lui ha appallottolato con veemenza, di un piatto di gnocchi lasciato cadere per terra da tua nonna e poi di frequenti strilla di tuo padre o di rumore di porte sbattute con fragore e di silenzi trattenuti a forza.
Sebbene tu ancora oggi voglia fare una selezione dividendo ciò che è stato bello e ciò che lo ha rovinato, provando a mettere pian piano in fila ogni singolo ricordo, mostrandoti sincero a te stesso e libero da ogni rancore e da qualsiasi paura, alla fine ti ritrovi sempre allo stesso punto di partenza e non puoi fare altro che ammettere che, di quei primi anni di vita, ti è soprattutto rimasta dentro una grande energia, una forza esplosiva, un turbine improvviso, che a volte è divenuto per te terribile e a cui non hai resistito.
A volte, ti chiedi ancora perché tu sia il solo ad aver scelto di allontanarti da tutto ciò ma anche la risposta a questa domanda è sempre la stessa: sei solo tu, Vanni, ad aver sentito questo bisogno di cambiare rotta e non ne ha avuto il tempo Maso, ma senz’altro non ne ha avuto più la forza Martina. Tu, invece, ti sei subito determinato nell’idea che fosse possibile – anzi, necessario – star lontano da quella spirale. E con questo credo che sei diventato adulto e sei andato avanti finora.
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