Contrappunto a quattro voci

Annalisa Giuliani

Contrappunto a quattro voci

Menzione di merito nella XXXVIII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" – anno 2022

Descrizione

Quattro esistenze sono legate tra loro da un filo invisibile che attraversa il tempo. Emiliano, 16 anni, a dieci assiste alla violenza del padre nei confronti della madre e sceglie di confinarsi nell’invisibilità della sua camera perfetta; Viola nasconde i segni dietro occhiali scuri e sotto maniche lunghe anche d’estate; Ester è la protagonista di un ritratto ed Edoardo l’uomo delle convenzioni. Quattro voci lontane e solitarie si sovrappongono e si intrecciano, rincorrendosi in un contrappunto di giorni, di mancanze, di vuoti, di fughe e nascondimenti.

Sarà proprio Emiliano, il ragazzo senza sogni nel cassetto, l’inconsapevole artefice di una ritrovata armonia.

 

“In quel borgo lontano e isolato, ebbero la certezza che il tempo è solo un’invenzione, una dittatura decretata dagli orologi che non ha forma di linea ma quella di cerchio. Gli orologi si inceppano. I granelli di sabbia della clessidra si mescolano, la meridiana perde la luce e passato, presente e futuro si confondono. Il tempo non è altro che una grandezza incerta.”

L'Autrice

Contrappunto a quattro voci

Annalisa Giuliani nasce nel 1968 ad Atessa (CH), dove vive e lavora come avvocato e insegnante. Vincitrice di concorsi per racconti brevi, tra cui la menzione speciale (2013) e il primo premio della giuria tecnica (con Sogni nella casa di bouganville, 2015) del “Premio John Fante”.  Il suo romanzo d’esordio, L’amore coniugato, ha ricevuto numerose recensioni e il consenso dalla critica. A gennaio 2021 ha pubblicato il suo secondo romanzo: Contrappunto a quattro voci.


Recensioni 

https://www.ilcentro.it/cultura-e-spettacoli/l-abruzzese-giuliani-racconta-quattro-vite-abitate-dalla-solitudine-1.2583461

https://www.ilgiornaledichieti.it/news-il-giornale-di-chieti/al-convitto-g-b-vico-la-presentazione-del-libro-contrappunto-a-quattro-voci/

http://www.atuttovolumelibri.it/recensioni/contrappunto-a-quattro-voci.php

https://alphabetcity.it/2021/03/10/contrappunto-a-quattro-voci-intervista-esclusiva-a-annalisa-giuliani/

https://lalettriceassorta.wordpress.com/2021/04/02/contrappunto-a-quattro-voci-di-annalisa-giuliani/

http://www.lalettriceerrante.com/2021/03/in-vetrina-contrappunto-quattro-voci-la.html

https://www.wordnews.it/le-parole-sembrano-vuote-ma-sono-come-le-conchiglie-dentro-ci-si-puo-sentire-e-trovare-il-mare

https://www.histonium.net/notizie/cultura/61477/un-occasione-per-riflettere-sulla-violenza-contro-le-donne-e-la-violenza-assistita

https://www.ilcentro.it/chieti/romanzo-di-giuliani-a-roccamontepiano-1.2736814

http://lnx.acciaiuoli-einaudi.it/2021/05/

https://www.womenews.net/2022/05/19/contrappunto-a-quattro-voci/

https://www.youtube.com/watch?v=iThnHDbKVJA

Leggi l'incipit

PARTE PRIMA

Il prima
Ognuno ha il suo prima.
Un tempo lasciato indietro e mai del tutto archiviato. 

Ognuno ha una mancanza, uno spazio vuoto
io ho lacrime che non scendono che rimangono chiuse,
chiuse come le pagine di un libro buttato in un angolo a caso
(Sophia Flocco, III A) 

Emiliano

Mancanze

Non è facile essere figli, non si sceglie di essere figli. Il momento del concepimento non è così importante: si può nascere per un atto d’amore ma anche per sbaglio. Ciò che conta è il dopo, come si vive dopo, dove si vive dopo. Del dove, Emiliano poteva tracciare una mappa precisa: dieci metri quadrati, pareti azzurre, letto, scrivania, armadio, comodino, libreria, tappeto, lampada, libri, portatile, una finestra sul giardino. Non mancava nulla. Del come era meglio tacere dal momento che si traduceva in un elenco infinito di mancanze. Sedici anni di mancanze. Meglio stare zitti, tapparsi le orecchie e non farsi vedere.

Confinato nella sua camera perfetta, Emiliano era diventato immateriale, incorporeo, inesistente. Non aveva chiesto lui di nascere, sarebbe stato meglio non venire al mondo.

Ester

La strada era semideserta. L’orologio segnava le quattordici, un’ora indolente anche per la città che, dimenticata la frenesia, se ne stava in pausa pranzo. Ester era seduta sotto la pensilina della fermata dell’autobus. Dal suo angolo di osservazione, la città si mostrava in tutta la sua verticalità: un agglomerato di torri d’avorio chiuse e impenetrabili, abitate da persone incapaci di connettersi con la vita che scorreva orizzontale sulla strada.

Alla finestra di fronte, i panni oscillavano stanchi. Al di sopra del caseggiato grigio si intravedeva appena l’azzurro del cielo. La strada sembrava un mare in bonaccia, trasformata com’era in un’unica striscia grigia. Tutto era fermo. Persino la stoffa leggera del suo vestito verde, un prato punteggiato di papaveri rossi. Un costume di scena sbagliato, con quei fiori a germogliare in un mondo fermo in cui i passanti erano come comparse sul proscenio, inutili fantasmi. E lei, seduta alla fermata, come una cosa gettata via, abbandonata dietro le quinte della pensilina.

In ospedale avevano fatto in fretta. Routine. Una cartella clinica da compilare e archiviare dopo la cantilena di farmaci e prescrizioni, parole affilate come un bisturi sulla carne.

Aveva letto il referto medico, un foglio di carta stampata con segni asettici, la cui unica pietà umana era condensata in due numeri separati da una virgola.  

Due virgola cinque centimetri. La misura della vita, quella che avrebbe potuto essere e che non sarebbe mai stata.

Interruzione spontanea di gravidanza. Un’ espressione che rendeva meno ostile quell’altra parola che, al solo pensarla, le procurava una contrazione: “aborto”. Spesso, quando una parola non le piaceva, evitava di pronunciarla, la faceva diventare materia da esaminare, scomporre, smontare in una specie di vivisezione, fino a salvarne almeno una parte, una sillaba, un suono. La sua era una convinzione scaramantica. Pensava che se la sua lingua fosse stata popolata solo da parole belle anche la sua vita lo sarebbe stata. Lì, su quella panchina, non bastava però eliminare la particella privativa e lasciare solo il verbo. Poteva pronunciarlo all’infinito, orior, oriris, ortus sum, oriri, declinare il suo significato, aver inizio, sorgere, nascere. Ma ciò che in quel momento rimaneva e faceva male era quella particella, la prima lettera dell’alfabeto che le negava di essere madre.

Aborto spontaneo. Una sentenza di assoluzione pronunciata in contumacia. Eppure lei sentiva di essere colpevole, perché non era stata capace di custodire quella vita che aspettava da sempre.

Una colpevolezza alla quale si aggiungeva una circostanza aggravante: aveva accettato l’assenza e la distanza di chi avrebbe potuto essere padre e che al telefono, di fronte al suo dolore afono, aveva pronunciato parole senza senso e con quel cambio di tono nella voce che gli veniva quando si sentiva sollevato. Una leggera vibrazione, un’impercettibile nota stridula che non era passata inosservata alle sue frequenze.

Forse una parte dell’anestesia era ancora annidata nelle sue cellule e nel cuore che sembrava congelato. Ma lei pensava a un altro battito, quello della camera cardiaca che aveva visto agitarsi dentro il monitor, ricordando il rumore assordante che fa la vita quando comincia a pulsare, la meraviglia incontenibile nei suoi occhi, la convinzione che tutto quel girovagare tra medici e cure, analisi e controlli, non era stata vana. La gioia era durata il tempo dell’illusione.

In borsa, la cartella clinica la restituiva alla realtà, certificando diagnosi ed effetti collaterali: un ventre inospitale e un cuore bloccato.

Seduta e inerme, Ester intravide il suo volto riflesso nel vetro della fermata. Non si riconobbe. Era diventata estranea perfino a sé stessa. Si avvicinò per guardare meglio e scoprì una ruga che segnava un parallelo sulla geografia della sua fronte. Lo percorse con il dito in maniera leggera. Quasi dandosi una carezza.

“Si può invecchiare in solo giorno?” si chiese ed ebbe compassione di sé.

A volte è sufficiente un granello, un impercettibile granello di polvere per far inceppare il meccanismo. Il pulviscolo è invisibile eppure acceca. E nel buio in cui si sprofonda sopraggiunge la consapevolezza. Fu il suo riflesso confuso e indistinto sul vetro a far saltare il meccanismo.

Doveva andarsene, ricominciare da un’altra parte.

A casa ritrovò le sue cose nel loro ordine immutabile.

Quell’appartamento elegante, con vista sui tetti della città, non era mai stato spazio condiviso. Per lei era solo una scatola chiusa con regole precise e memorizzate. Per lui, sempre via, sempre impegnato, un porto sicuro dove attraccare. Seduta sul divano con il dolore che si risvegliava nella carne, sentì acuirsi la solitudine. Ripensò alle parole pronunciate al telefono: «Vedrai, ti riprenderai presto. Sei una donna forte. Appena torno, ce ne andiamo in vacanza».

Era stanca di essere una donna forte, non voleva andare in vacanza, voleva ascoltare altre parole e ritrovare il volto che aveva smarrito.

Lo sguardo si focalizzò sulla cornice al centro della parete, mettendo a fuoco tratti e sbavature di matita che si ricomposero nell’immagine di un volto, il suo. Il ritratto di un artista incontrato anni prima e del quale restavano la dissolvenza del ricordo e la resistenza di un nome nell’angolo del foglio: Edoardo.

Quel disegno apparteneva a un tempo così lontano da sembrare un sogno, una visione onirica confinata nella terra dell’immaginazione. Era la testimonianza del suo passato, quando, studentessa alla facoltà di Lettere, era arrivata nella città i cui tetti ora si stendevano sotto la sua finestra, con una borsa di studio che integrava con lavori diversi: baby-sitter il pomeriggio e modella all’Accademia delle Belle Arti al mattino. Sì, perché c’era stato un tempo in cui era stata bella.

Sulle tele e sui fogli degli studenti si distendeva una bellezza senza nessuna increspatura.

Il ritratto restituiva l’immagine della donna che era stata. Una bellezza antica e semplice con il mare tra i capelli. Ciocche intrecciate a pesci, coralli e conchiglie.

Edoardo

Pesci, coralli e conchiglie non avevano mai smesso di girare nella lampada sul comodino di Irene.

Edoardo l’aveva comprata in uno di quei negozi per bambini traboccanti di giochi e cianfrusaglie colorate. Era sempre stato attratto dal mare, dalla sua profondità e dalla sua leggerezza. Trovava davvero ingiusto che una bambina dovesse vivere in un posto chiuso da soli confini di terra che ne limitavano l’immaginazione. Per ridurre la lontananza dalle spiagge e dalla fantasia, ogni primavera, portava la figlia a guardare l’unica forma di mare possibile in quella terra dove il lavoro lo aveva portato. Era acqua ferma, racchiusa nei quadretti disegnati dalla geometria perfetta degli argini. Una scacchiera di specchi d’acqua dove non ci sono onde a rincorrersi ma semi di riso a germogliare. Forse all’inizio quelle passeggiate primaverili erano state dettate non solo dalla mancanza del mare ma anche dal vago presentimento di un’altra assenza che si sarebbe presto manifestata. Eppure divennero una piacevole abitudine che consolidava il legame tra padre e figlia, sostituendo via via il liquido amniotico che si era prosciugato per sempre.

La donna che aveva sposato, la madre di sua figlia, se ne era andata, e così un giorno, senza tanti giri di parole, lo aveva lasciato con la più banale delle motivazioni: si era innamorata del collega di lavoro, la storia durava da un anno. Lui, che credeva che il loro fosse un amore speciale, quel giorno scoprì un amore qualunque e un tradimento qualunque: un romanzo rosa tra le cui pagine non c’era più posto né per lui né per Irene, che aveva appena due anni. Quando chiuse la porta dietro di sé, la bambina dormiva nel suo lettino. La stanza era illuminata dalla lampada che proiettava pesci e cavalli marini. Immobile e svuotato, rimase a guardare quel sonno ignaro. Non sentiva niente. Non chiese spiegazioni, non alzò la voce, non si oppose, né si lamentò. Non provava disprezzo per una madre che chiudeva la porta mentre il mare danzava ancora sulle pareti Con il tempo razionalizzò quella sensazione di vuoto che lo aveva invaso. Prese atto che gli amori finiscono e che ne cominciano altri, che la maternità non è una vocazione naturale ma una scelta. Non è un dovere, né un destino.

Nonostante le sue ansie di genitore solo, Irene cresceva serena, grazie anche alla sua naturale concretezza: era tarato per aggiustare le cose, riparare, trovare soluzioni. Era ciò che sapeva fare meglio. Una eredità trasmessagli dal padre nella cui officina era cresciuto imparando a praticare l’arte di addomesticare il ferro
 



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