
Ingebjørg Berg Holm (Traduzione di Andrea Romanzi)
La rabbia dell'orsa
Menzione
di merito Narrativa edita XXXIX
edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" – anno 2023
Descrizione
Njål e Nina sono scienziati del clima, ricercatori al Centro sui
Cambiamenti Climatici di Bergen. La loro relazione è naufragata miseramente in
un vortice di incomprensioni impossibili da ricucire, ma hanno una figlia,
Lotta, ed entrambi sono disposti a tutto per ottenere la sua custodia. Anche a
tornare insieme e a trasferirsi sulle
Isole Svalbard, nell’Artico, per una spedizione scientifica. Ma qualcuno, da lontano, li spia. È Sol,
l’ex moglie di Njål, che segue le sue prede come un orso rabbioso, decisa a riprendersi
ciò che le spetta: il marito e una figlia mancata. Laggiù, nelle terre più
remote delle Svalbard, una distesa di neve ricopre un cadavere dimenticato, che riemergerà solo col disgelo, in
primavera, il tempo in cui antichi segreti torneranno a galla... Nella migliore
tradizione letteraria nordica, sulle orme di bestseller come Il senso di Smilla per la neve e
di grandi autrici come Camilla Läckberg,
La rabbia dell’orsa è un
ecothriller psicologico oscuro e potente, che indaga le perversioni
dell’animo umano e le conseguenze devastanti dell’incuria verso la natura.
L'Autrice
Nata nel 1980 nella
cittadina norvegese di Larvik, Ingebjørg Berg Holm è considerata tra le
voci più interessanti nel panorama del thriller scandinavo. Laureata in Belle
Arti, lavora come architetta di interni a Bergen. Nel 2015 esordisce nella
narrativa con Stars Over, Darkness Below, bestseller pluripremiato in patria, a
cui fa seguito il mystery a sfondo storico Barefoot over the Ice. La rabbia
dell’orsa, uscito nel 2021, è il suo nuovo romanzo, in cui Berg Holm indaga le
perversioni dell’animo umano e le conseguenze devastanti dell’in-curia verso la
natura.
Leggi l'incipit
La
neve che si è posata sulla schiena viene spazzata via dal vento lungo
la pianura. Con un soffio viene sollevata contro il fianco della montagna e si trasforma in polvere
che si sparge in nuvole di bri- na. Per un
attimo i cristalli rimangono sospesi nell’aria, finché una nuova raffica li spazza via, di nuovo giù, lungo la vallata.
Rasoterra il corpo blocca le folate più leggere e la
neve si posa lungo la gamba destra, accumulandosi in un vortice nel cavallo dei
pantaloni. La gamba sinistra è piegata e la coscia forma una sorta di
parabrezza che impedisce alla neve di accumularsi sul torso. Sul lato esposto
della tuta da motoslitta, la neve forma piccoli cumuli che si diradano quando
il vento soffia più forte nell’incavo tra il
braccio e il corpo.
La neve ricopre
lentamente il cadavere. Di tanto in tanto, improvvise folate ne scoprono alcune
parti, che la neve torna presto a ricoprire. Alla fine, rimane visibile
soltanto la schiena, un isolotto levigato di stoffa blu in un mare di bianco.
La tempesta si è placata e la neve cade fitta e lenta sulla macchia scura, si
raccoglie nelle pieghe e nelle increspature, si distacca provocando piccole e
morbide valanghe per poi accumularsi di nuovo. Tra poco il cadavere sarà
completamente ricoperto: una dolce collinetta. Se l’orso polare fiu- tasse la
carogna, le membra verrebbero sparpagliate in giro, prima trascinate, poi
nascoste, poi sciolte dagli acidi dello stomaco e infine espulse come
escrementi. Ma se il corpo, ricoperto dalla neve, si con- gelasse, allora
l’odore sparirebbe e il cadavere resterebbe nascosto ai predatori per tutto
l’inverno. Nessuno riuscirebbe a trovarlo: una minuscola collinetta su
un’enorme montagna.
Se il cadavere dovesse conservarsi fino all’estate, riaffiorerà
dal manto nevoso sempre più sottile e, lentamente, si scongelerà al sole. Gli
insetti, attirati dall’odore, non riusciranno a entrare nei vestiti per
costruire il loro nido nelle cavità. Protetti dalla plastica impermeabile della
tuta da motoslitta, i tessuti molli si disintegreranno diventando un tutt’uno
con gli indumenti di lana.
La testa e le mani attireranno le volpi curiose e
gli avidi gabbiani d’avorio, che rimuoveranno i guanti e il cappello. Strapperanno
via pezzi di carne e li porteranno con sé, li digeriranno e li spargeranno come fertilizzante sul
terreno in un ampio cerchio attorno al cadavere. I resti di pelle e carne
esposti sprofonderanno lentamente nel suolo e diventeranno cibo per i muschi e
i licheni. Quelle piante resistenti appassiranno fino a morire, annegando nel
troppo nutrimento.
Il corpo rimarrà così disteso, con un fazzoletto di terra nuda e
sterile attorno al cranio rosicchiato. E quando sarà completamente decomposto e
perfino le ossa saranno consumate, resteranno soltanto gli abiti in nylon. Un
guscio di plastica fossilizzato a forma di esse- re umano, coronato da
un’aureola di piante, laddove tutto ciò che componeva il cranio sarà ormai
diventato terra.
BERGEN, OTTO MESI PRIMA PRIMAVERA 2019
APRILE
Nina
Il sonno mi abbandona,
ma non riesco ad aprire gli occhi. Ho la nausea, e soltanto quando mi
accorgo di avere le mutande bagnate
capisco da dove proviene quella sensazione. Del sogno non rimane che qualcosa di sfocato, dentro di me scivolano frammenti
di immagini e resti di sensazioni. Il corpo pesante e la pelle calda di Njål,
dentro la mia testa, dentro di me.
Nella
mia vita non sono mai stata tanto eccitata come quell’anno in cui io e Njål facevamo
tutto tranne che scopare. Ogni volta che ci incontravamo era come se mi
caricasse di desiderio: bastava che si avvicinasse e io già mi sentivo gonfia- re.
Il suo odore mi provocava una sensazione quasi sinestetica. Quando ci
salutavamo, rapidamente, per non fare nulla di cui poi ci saremmo pentiti, ero talmente eccitata che correvo a
casa a toccarmi.
Farlo
davvero non fu la stessa cosa. Non sono una donna morigerata, sono sex positive e aperta, ma preferisco
farlo a modo mio. Dritta al sodo, mentre ci si guarda negli occhi. Incontrandosi,
faccia a faccia, come persone nel bel mezzo degli istinti animali. Njål era
completamente diverso da me. Mi toccava ovunque, rumoroso come un gourmand, le dita e la lingua da tutte
le parti. E, preferibilmente, voleva farlo all’aperto, ne era quasi
ossessionato. Non in modo esibizionista: preferiva luoghi che fossero il più
lontano possibile dalla civiltà. Dentro un sacco a pelo matrimoniale, in
montagna, sotto un cielo sconfinato.
Oppure nei boschi
sulle montagne attorno a Bergen, dopo che i turisti erano risaliti sulle navi
da crociera. Lo assecondavo, ma così
non mi è mai piaciuto. Lui che ansimava sopra di me, con la barba ruvida e le
unghie lunghe, e poi i ramoscelli che mi graffiavano
ovunque e le punture degli insetti: era davvero troppo.
No. Non devo pensare a Njål, non voglio farlo entrare nel mio nuovo letto vuoto. Apro gli occhi e mi
alzo. Sono quasi le dieci e ormai non avrebbe alcun senso
andare in ufficio. E comunque lavoro
meglio da casa, dove posso continuare indi- sturbata
fino a sera, quando Lotta è da Njål. L’appartamento
è immerso nel silenzio della mattina, tutto il condominio sembra senza vita, come lo ricordo durante la
maternità. Un silenzio persistente e vuoto. Prima e dopo l’orario
di lavoro, il palazzo è pieno di rumori. Suoni umani che si
propagano attraverso il cemento e i condotti d’aria dell’edificio.
Passi sulle scale, porte che si aprono e si chiudono, un pianoforte
che suona durante il pomeriggio, e rimbombanti rumori di una
festa che prosegue fi- no
all’alba. Da qualche parte, ogni mattina qualcuno starnutisce tre volte in bagno. Dal mio bagno lo sento chiaramente, sembra quasi che quella persona si trovi accanto a
me, ma non so chi sia. L’anonima
intimità dei suoni umani all’interno della palazzina fa parte
dell’appartamento, proprio come la carta da parati e la vernice sui muri. Come le cose di Njål, prima che andasse via. Al coro, adesso, manca una coppia che
litiga, le canzonette al cambio del
pannolino non si infilano più nei bagni altrui
attraverso la ventola dell’aria, non c’è quasi mai una bambina che colpisce il pavimento con un martello
Brio e una fastidiosa mancanza di
ritmo. Ovunque, intorno a me, ci sono persone che non sentono più questi rumori, ma non sanno
che è proprio da
qui che sono andati via.
Mi alzo e vado in
cucina. Fuori c’è il sole e contemporaneamente piove, e io sobbalzo ancora
quando vedo i serpenti velenosi sul tetto dell’edificio di fronte. Il mio
cervello rettile reagisce istintivamente ai serpenti, prima ancora che la
coscienza possa dirmi che sono fatti di plastica. Stranamente, quel genere di
spaventapasseri non funziona con i piccioni, nonostante siano molto più vicini ai dinosauri di quanto lo sia io. Bevo il
caffè mentre ne osservo due che si
accoppiano su un cobra reale. I piccioni
sembrano quasi degli automi, si accoppiano furiosamente
senza nemmeno sapere perché. Sono privi dell’autocoscienza che rende unici gli esseri umani. Riti
funebri, guerre e bisogno di vendetta:
tutto deriva dalla nostra capacità di riflettere sulla nostra esistenza.
I
ricercatori hanno scoperto un modo per testare l’autocoscienza. Chi si
riconosce in uno specchio possiede una percezione di sé. Questa è la teoria.
Tra gli uccelli, soltanto le cornacchie superano il test dello specchio, mentre
il parrocchetto ondulato trova compagnia nell’immagine riflessa perché crede
che sia un altro uccello. Il test consiste nel dipingere un puntino sulla fronte
dell’uccello e osservare se l’animale prova a toccarlo mentre guarda il proprio
riflesso. È un esperimento che si basa soltanto sui parametri
dell’autocoscienza degli esseri umani, poiché non prende in considerazione
quegli animali che si lasciano guidare dall’olfatto anziché dalla vista e, pur
vedendo il puntino, non provano alcun interesse.
Quando i piccioni
avranno finito di accoppiarsi, deporranno le uova
sul tetto. Il guardiano dovrà salire e romperle, e forse toglierà di
mezzo anche quei ridicoli serpenti, già che c’è. Verso il caffè rimasto nel thermos e lo porto con me in salotto. Sposto un mucchio di fogli e faccio posto
alla tazza e al thermos accanto al grande schermo sul tavolo; apro il
portatile, e senza sedermi muovo un pochino il mouse e risveglio la macchina
dal letargo, digito il codice e apro il modello dei dati. Mentre il programma solleva lentamente il
ghiacciaio virtuale verso di me, mi guardo intorno alla ricerca delle ciabatte.
Una si trova accanto alla porta- finestra che dà sul balcone; la
infilo, e poi zoppico pesantemente in giro per il salotto in cerca dell’altra.
Inciampo in una sedia sollevando una valanga di fogli di carta: è la tesi di Amalie, che si riversa tutta sul pavimento.
Infastidita, raccolgo i fogli senza preoccuparmi di controllare l’ordinedelle pagine, poi vedo l’altra ciabatta sotto il divanoe mi allungo. Prendendola, riaffioraanche un giocattolo di plastica ricoperto di pappa e pieno di polvere.
Il
salotto si riempie sempre di piccoli impicci, nonostante io tenti di limitarne il numero. Massimo
cinque giochi, questa è la mia regola.
Lavoro in salotto, dissi a Njål porgendogli una busta con gli animali di
peluche e la robaccia di plastica che si era accumulata
da me. Non si può lavorare in una stanza dei giochi. È strano pensare che un essere umano così piccolo possa occupare
così tanto spazio. Mi ricordo di averci riflettuto quando io e Njål comprammo il passeggino. Un
veicolo che prende un metro quadro di
marciapiede per trasportare una creatura grande quanto un gatto. I bambini occidentali occupano troppo spazio. A dire il vero, io non avrei mai dovuto
avere figli. Non era né una scelta né
una presa di posizione, ma una cosa che avevo sempre saputo. Autocoscienza,
pensavo. Arrivata a quasi trent’anni senza
aver cambiato idea, mi ero informata per la sterilizzazione. Ma la lista d’attesa era lunga e, prima che
arrivasse il mio turno,
rimasi incinta.
Mi
infilo la ciabatta e faccio per andare in cucina a gettare la spazzatura,
quando avverto qualcosa di molle che mi tocca l’alluce.
Istintivamente sferro un calcio e la ciabatta vola via colpendo la parete del salotto.Il calzino è bagnato e, quando lo tolgo, vedo attaccati i resti di una poltiglia
grigio-marrone: fiocchi d’avena o pane
masticato. Sento la rabbia montarmi dentro. Goffamente porto in cucina i fogli,
il giocattolo e il resto della robaccia. Quando
mi piego per gettare tutto nel secchio dell’immondizia, quell’oggetto di
plastica mi scivola dalla mano e rimbalza sul pavimento. Lo raccolgo e lo
scaglio nella pattumiera, lego il sacco e lo mollo davanti alla porta d’ingresso.
Tornata in salotto, mi siedo
davanti al computer. La grande finestra alle mie spalle mi succhia via il
calore dal corpo e percepisco ancora quell’odore nel naso, pane misto a saliva.
O forse lo immagino soltanto. Rimango a fissare lo schermo incorniciato da una serie di post-it con
varie annotazioni. Njål aveva l’abitudine di lasciare messaggi tra i miei
post-it: cuori e allusioni che soltanto
noi due capivamo. Il mio nome scritto con le rune all’interno di un cuore, quel post-it
l’ho conservato a lungo. Me lo
scrisse prima che cominciassimo a frequentarci seriamente, mentre Sol era
ancora ricoverata e Njål non voleva tradirla, così tornavamo ognuno nel proprio
appartamento vuoto e ci pensavamo a vicenda mentre ci sfregavamo e ci toccavamo
fino a venire. In questo momento, Njål e Amalie sono nel nostro ufficio, una
stanza con tre scrivanie, mentre io lavoro quasi sempre da casa. Non riesco a
smettere di pensare a loro due, schiena contro schiena nel piccolo locale. Al
poco spazio che c’è tra di loro.
C’è qualcosa di strano
in Njål ultimamente, è fin troppo af- fabile. Forse è per le sedute di terapia
familiare, è evidente che voglia
vincere a ogni appuntamento e quindi si mostra esagera- tamente
comprensivo e collaborativo. Oppure c’entra qualcosa il progetto puls, o
forse l’articolo che dobbiamo pubblicare. Non può aver saputo l’ordine dei co-autori che
ho indicato per la pubblicazione, altrimenti non sarebbe così
affettatamente gentile. O magari è
proprio questo che vuole farmi credere? Forse
invece Jessica gli ha spifferato tutto, e adesso lui se la sta lavorando
per sfilarmi l’articolo. Il primo passo per farmi fuori dal progetto. Lo so che farebbe di tutto pur di
andare alle Svalbard. Ha in mente
qualcosa, c’è qualcosa che non vuole che io
sappia. Quel pensiero mi fa venire
così tanta ansia che sento la nausea salire
dal bassoventre. Può farlo, può
prendersi Lotta e partire, se dovesse
riuscire a manipolare Jessica e convincerla ad assegnare a lui il
soggiorno di ricerca. Non posso
impedirgli di andarsene finché Lotta
risulta residente a casa sua, questo Njål non me l’ha spiegato quando mi ha portato i documenti. E io ho firmato sotto
la dicitura ‘diritto di visita standard’. Stavo talmente male che
avrei firmato qualunque cosa, non chiesi nulla. ‘Diritto di visita standard’ significa una notte a
settimana e un fine settima- na ogni due. Una formula piuttosto comune per un
uomo, mai sentita invece per una donna. Per una madre.
Non capii immediatamente il significato di ‘residenza fissa’, ossia che Njål avrebbe ottenuto la
custodia. Il genitore che ha la custodia
può prendere decisioni sui trasferimenti domestici, e le Svalbard si trovano
all’interno dei confini nazionali. Le isole Svalbard, oppure la casa in
campagna dei suoi genitori sulla co- sta occidentale: Njål può portare Lotta
con sé dovunque voglia e non c’è
nulla che io possa fare per impedirglielo. A meno che non chieda la custodia condivisa.
Sullo
schermo di fronte a me c’è il nostro ghiacciaio, levigato e stilizzato nella
sua griglia. Ho impostato il modello
in base a come ritengo che il
ghiacciaio si muoverà, a quanto velocemente
raggiungerà l’oceano e finirà in acqua, e alla quantità di ghiaccio che
si scioglierà. A quanto tempo ci vorrà prima che l’intero ghiacciaio scompaia. Spero solo che non cominci a
muoversi pri- ma di essere riusciti
a posizionare i sensori, in primavera. Ormai accade tutto troppo velocemente.
Non
ho più paura, è così che funziona la terapia dell’esposi- zione. Proprio come
quando si tiene un ragno nel palmo della mano finché il corpo non riesce più a
stare in tensione. È interessante: ipotetici scenari futuri che vengono
confermati mentre siamo ancora vivi. Siamo la prima generazione di glaciologi
che può osservare il mondo sciogliersi in tempo reale.
Apro
il programma di scrittura, ma non riesco ad accedere all’articolo. È aperto sul
computer di un altro utente, probabilmente Amalie, oppure Njål. Cazzo. Chiudo
il computer e vado in bagno per farmi una doccia.
Quando
abbasso gli slip mi annuso, e le immagini del sogno scivolano nei miei
pensieri. La pelle e il peso, una sensazione che non riesco a identificare.
Devo fare attenzione a Njål.
Multimedia
Rassegna stampa
https://convenzionali.wordpress.com/2021/10/21/la-rabbia-dellorsa/
https://carbonioeditore.it/rassegna-stampa/ingebjorg-berg-holm-il-turbamento-del-ghiaccio/
https://www.thrillercafe.it/la-rabbia-dellorsa-ingebjorg-berg-holm/
https://www.sololibri.net/La-rabbia-dell-orsa-Berg-Holm.html
http://thrillernord.it/la-rabbia-dellorsa/
https://www.youtube.com/watch?v=lNXwrBFSVPk (Bookmania, 16/12/2021)
https://www.thrillercafe.it/intervista-a-ingebjorg-berg-holm/
https://www.milanonera.com/la-rabbia-dellorsa-jngebjorg-berg-holm/
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