Le forme dell'amore

Mariella Sellitti

Le forme dell'amore

Premiato con Targa alla XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018

Descrizione

Elsa, Carlo e Giuliana amano, e amando danno scandalo. Siamo nell’estate del 1967 a Positano. Non è né il tempo né il luogo giusto per la loro “forma d’amore”. Presto una ventata rivoluzionaria scuoterà le fondamenta del perbenismo borghese e spalancherà le porte a un altro modo di concepire la vita e l’amore, ma fino ad allora loro non sono liberi di amare. L’estate del 1967 è l’estate delle scelte che cambiano il corso di una vita. E Miriam è il risultato di quelle scelte. Ha una figlia adolescente, è separata e ha una relazione con un uomo di cui non è innamorata perché, forse, ama ancora suo marito. Siamo ai giorni nostri e tutto è più o meno lecito in amore. Gli scandali quasi non esistono più e lei è libera di fare ciò che vuole. Eppure amare è complicato anche quando si è liberi, forse perché, in fondo, non lo si è mai del tutto.Due estati a Positano: quella del 1967 e quella appena trascorsa. Passato e presente che, in alcuni momenti, non solo si alternano, ma convivono. Dalla terrazza di una vecchia villa a picco sul golfo, in tempi diversi e con spirito diverso, Elsa, Carlo, Giuliana e Miriam guardano il mare cercando in esso una risposta ai dubbi che stringono il cuore e l’anima. Non esiste, però, un’unica risposta quando la domanda riguarda l’amore.

Mariella Sellitti ambienta nell’incantevole Positano il racconto di un complesso e complicato intreccio sentimentale nel quale si esprimono le diverse ‘forme dell’amore’.

L'autrice

Le forme dell'amore

Laureatasi nel 1996 in Scienze Politiche (indirizzo internazionale) alla Luiss Guido Carli con una tesi sul procedimento per direttissima a mezzo stampa e radiotelevisione, segue all’Università La Sapienza di Roma il corso di perfezionamento in “Tutela internazionale dei diritti umani fondamentali” con la Prof.ssa Maria Rita Saulle (giudice della Corte Costituzionale),
Dal 1996 al 1998 frequenta alla NUCT (Nuova Università del Cinema e della Televisione) il corso di sceneggiatura tenuto dal premio Oscar Ugo Pirro. Negli stessi anni segue le lezioni di regia tenute da Carlo Lizzani e Giuseppe De Santis e quelle di fotografia tenute da Beppe Lanci.
Negli anni successivi segue a Londra il seminario di sceneggiatura di Robert McKee (GenreSeminars) relativo alla scrittura dei generi cinematografici: Commedia, Thriller e Love Story.
Nel 2006 è finalista al Premio Solinas (Sezione Commedia. Premio Leo Benvenuti) con la sceneggiatura per lungometraggio “Agenzia San Valentino”.
Dal 1999 lavora come soggettista e sceneggiatrice per il cinema e la televisione.
Nel 1999 lavora come soggettista e sceneggiatrice per la serie “Baldini&Simoni” prodotta dalla Pixel.
Nel 2000 lavora come soggettista e sceneggiatrice per la serie a cartoni animati “Gennarino il Mastino”, da un’idea di Marisa Laurito, per la Sole production.
Dal 2001 al 2015 soggettista e sceneggiatrice della serie televisiva “Don Matteo” con Terence Hill prodotta dalla LuxVide e andata in onda su Rai 1.
Per il cinema è autrice del documentario “Soltanto un nome nei titoli di testa” con Franco Nero, Massimo Ghini e Ottavia Piccolo presentato al Festival del Cinema Venezia nella sezione Orizzonti nel 2008.
Nel 2020 scrive e dirige il corto documentario “Che resti in famiglia” su un antico frantoio oleario in Puglia.
Sempre nel 2020 il progetto del film “A pranzo la domenica” è tra i selezionati per il Meditalents (Forum di coproduzione dei paesi del Mediterraneo) a Marsiglia come rappresentante per l’Italia.
Ha collaborato per lungo tempo come redattrice con la rivista on line di scrittura cinematografica “Celluloide” diretta da Ugo Pirro.
E’ presidente dell’Associazione culturale Parlamentaria – il Parlamento delle idee con sede a Roma. Associazione che ha come obiettivo il dialogo e dibattito su vari temi di attualità e di interesse generale, in campo sociale, artistico e culturale con particolare attenzione all’universo femminile.
Il suo primo romanzo “La seduta è sospesa” è stato pubblicato dalla Alter Ego edizioni Viterbo e vede la prefazione del giornalista Andrea Purgatori.
Il suo secondo romanzo “Le forme dell’amore”, pubblicato da Le Piccole Pagine – Piacenza è stato finalista al Premio Città di Castello sezione narrativa inedita edizione 2015, nel 2017 ha vinto il terzo premio (sezione narrativa edita) alla XIII edizione del concorso internazionale Premio Alfonso Grassi – Città di Salerno e nel 2018 il riconoscimento Campania d’autore nell’ambito della XXXV edizione del Premio Letterario Città di Cava de’ Tirreni.

Leggi il primo capitolo

L’odore di chiuso l’assalì non appena aprì la porta. Mentalmente rimproverò Andreina, le aveva raccomandato tante volte di aprire le finestre almeno un paio di giorni prima del loro arrivo, ma lei faceva orecchie da mercante. Le case sono fatte così, se non le fai respirare ti accolgono male, con quell’odore che non è proprio puzza ma neanche un vero profumo. Un misto acre di umidità, polvere e legno vecchio abitato dai tarli. Soprattutto lì, a due passi dal mare.
Miriam lasciò scivolare sul pavimento il borsone che aveva in spalla, carico al solito di libri, riviste e prodotti per il mare. Il resto dei vestiti li aveva nel piccolo trolley color rosa Barbie che la seguiva in tutti i suoi viaggi come un cagnolino ubbidiente. Si guardò intorno nella penombra rischiarata dalla luce che filtrava dalle vecchie tapparelle che non si chiudevano mai bene del tutto. Non lo vide. Avanzò così oltre il doppio arco che portava nel salotto su cui si affacciavano le porte della cucina da una parte e del corridoio che portava alle camere da letto dall’altra. Non aveva, però, l’aria pesante e ingessata di un vero e proprio salotto, forse anche per merito del pavimento di ceramica vietrese che dava un che di freschezza all’ambiente. Del salotto aveva invece le comodità: un grande divano azzurro coi cuscini con ricamate delle conchiglie. Un divano a tre posti con braccioli così larghi che ti ci potevi sedere; due poltrone dello stesso stile ma con la tappezzeria a contrasto (il tessuto era ricamato a conchiglie e i cuscini invece azzurri) e un mobile buffet di fine Ottocento con dentro il servizio buono: porcellana di Limoges e bicchieri di baccarat che non venivano usati da tempo immemore. In qualche cassetto doveva esserci anche
un servizio di posate d’argento con il manico all’inglese che risaliva a qualche antenato di cui si era persa ogni memoria.
La prima cosa che vide furono i piedi, magri, ossuti tanto che le vene verde-blu erano in rilievo come certe colline che si stagliano all’orizzonte quando prendi l’autostrada e vai da Napoli a Roma. Allungati stancamente sugli arabeschi turchesi delle mattonelle vieresi, calzavano dei mocassini scamosciati color cuoio. Mocassini da barca che non erano mai saliti su nessuna barca. Una contraddizione in termini. Suo padre dormiva. Un sonno dettato dall’età più che dalla stanchezza. Un sonno silenzioso di quelli che lasciano perplessi e intimoriti qualche istante, il tempo necessario a vedere che il ventre si solleva, anche se in maniera quasi impercettibile, prima di realizzare che nel corpo alberga ancora un po’ di vita.
 Miriam si avvicinò piano, ma non abbastanza perché l’addormentato con un sussulto non si svegliasse. Sorrise a occhi ancora chiusi, intuendo la presenza familiare che incombeva su di lui e si aggiustò gli occhiali senza montatura che si erano leggermente inclinati mentre dormiva. Miriam gli diede un bacio leggero sulla guancia che sapeva, come sempre, di Hermes. Una colonia agrumata ma pungente che suo padre usava da sempre e che per lei era, per l’appunto, non il profumo ma l’odore stesso di suo padre. Se c’era qualcosa che suo padre non trascurava erano proprio certi dettagli. Come la camicia di lino azzurra ben stirata, con le piccole cifre ricamate in basso. Suo padre in questo era decisamente napoletano. «Un vero signore si veste a Napoli», gli sentiva ripetere da bambina. Non aveva mai verificato se fosse vero il contrario. Glielo diceva suo padre e questo le bastava. Dava sempre fiducia a tutto quello che le diceva suo padre.
«Hai fatto presto... Hai corso.» C’era una leggera nota di rimprovero in fondo alla frase.
Miriam scosse leggermente la testa. È vero aveva corso, ma non voleva che suo padre se ne preoccupasse, anche se ora che era già arrivata avrebbe potuto ammetterlo. Valeva, però, per il futuro. Se suo padre avesse pensato che lei guidava troppo veloce, se ne sarebbe angosciato tanto che ogni volta che avesse fatto tardi l’avrebbe immaginata vittima di un qualche incidente, intrappolata nell’auto ormai accartocciata, mentre un pompiere tentava invano di liberarla dall’ammasso di lamiere. Era meglio così. Era meglio mentire. Lasciò scivolare su una poltrona la pashmina di lino che aveva al collo e andò dritta verso la vetrata per tirar su le tapparelle. Erano ancora quelle di legno che si
usavano una volta. Pesantissime. Tanto più che queste erano lunghe quanto tutta la vetrata. Considerato che ognuna delle due vetrate era un paio di metri, ecco che alzarle rappresentava un esercizio ginnico notevole. Motivo per cui le tapparelle in quella casa si tiravano su il primo giorno di vacanza e – salvo casi eccezionali – si abbassavano solo al momento di andar via. E anche quello non era compito loro ma di Andreina, che chiudeva tutto dopo aver dato una bella pulita alla casa. Solitamente accadeva a metà settembre. Un anno era addirittura successo che restassero lì fino a ottobre. Ma quella era stata un’estate particolare. Stavano aggiustando la casa a Napoli – lavori importanti tra cui anche il rifacimento del solaio – ed erano dovuti restare lì al mare finché gli operai non avevano terminato. Avevano promesso che i lavori sarebbero finiti per l’ultima settimana di agosto, ma ovviamente le cose non erano andate così. Le promesse dei muratori sono come quelle dei marinai, destinate a essere deluse. Sempre.
«Andreina non è venuta» si lamentò Miriam mentre tirava su la tapparella della seconda vetrata. Il sole stava entrando di prepotenza. Un fiume di luce che dilaga dopo che la diga è stata aperta.
«Lasciala stare la povera Andreina. Suo fratello è stato ricoverato in ospedale. Mi ha telefonato. Era mortificata.»
       
 Miriam fece una smorfia poco convinta. Era affezionata ad Andreina che si occupava della casa al mare da quasi vent’anni, ma pensava che negli ultimi tempi si stesse un po’ approfittando della gentilezza di suo padre per fare sempre meno il suo dovere e sempre più i suoi comodi.
«È ’na brava femmna» chiosò suo padre quasi leggendole nel pensiero.
Conosceva bene i meccanismi mentali della figlia. Generosa come poche, ma altrettanto polemica. Le piaceva discutere anche se affermava il contrario. La verità era che la discussione la rendeva viva. Era una donna di guerra come sua madre, al contrario di lui che era decisamente un uomo di pace.
Con un cigolio che ricordava da sempre, Miriam aprì la vetrata scorrevole e uscì in terrazza. Il mare era lì proprio sotto di loro. Azzurro. Meraviglioso. Prepotente. L’odore salmastro salì fin lassù e arrivò potente alle narici, una zaffata violenta di puro piacere come quello del ragù quando si solleva il coperchio della pentola. Era così vicino, il mare, che sembrava lo si potesse toccare solo allungando la mano. Stare su quella terrazza era un po’ come stare sul ponte di una
nave. Ti faceva dimenticare di appartenere alla terra ferma. Eri solo tu, il cielo e ovviamente il mare. Prepotente e meraviglioso come un uomo da cui si tenta invano di fuggire, sapendo che non se ne sarà mai capaci perché si è destinati a tornare da lui. Sempre.
A passo lento il padre si tolse i mocassini e raggiunse la figlia sul- la terrazza. Spalla a spalla
restarono a fissare il mare per un tempo imprecisato. Vicinissimi tanto da sfiorarsi, nonostante la balconata a strapiombo sulla baia fosse così lunga che venendo da Sorrento la si vedeva dalla barca appena si oltrepassava la roccia. La loro era la terrazza più bella di Positano. Lo dicevano tutti. Girava torno torno la villa, così che da un angolo ti affacciavi direttamente sulla chiesa e dall’angolo opposto, invece, sulla torretta che chiudeva la piccola baia di Positano dal lato verso la costiera Sorrentina. La terrazza, unica nel suo genere, rendeva ancora più unica la villa, che era una vecchia costruzione a due piani attaccata al dorso della montagna come una cozza allo scoglio, con le finestre alte decorate da stucchi e un piccolo roseto che l’abbracciava di fianco e che era una vera rarità per quella costa. Il fatto poi che fosse dipinta con un denso color cremisi faceva sì che spiccasse da lontano fra tutte le altre costruzioni per lo più tinteggiate di bianco.
Andreina chiamò per dire che sarebbe passata a preparare la cena prima di andare dal fratello in ospedale. L’ingegnere la doveva scusare, ma era un’emergenza. Suo fratello e sua cognata si stavano separando e non ci poteva andare nessuno a fare la notte. L’ingegnere, come pre- vedibile, le disse di non preoccuparsi. Non c’era bisogno che andasse da loro. Pensasse a suo fratello. L’aspettava per il giorno seguente. Per quella sera lui e la figlia si sarebbero arrangiati.
E infatti si arrangiarono. Insalata di pomodori, mozzarella di bufala e fichi. Non poteva pensare a una cena migliore. Miriam non riuscì a trattenere un sorriso mentre di sottecchi guardava suo padre che faceva la scarpetta nell’olio sul fondo del piatto dove prima c’erano i pomodori in insalata. I pomodori di Sorrento. Quelli quasi rosa. Ognuno così grosso da sembrare un melone più che un pomodoro, ma dalla forma irregolare con un insieme di anse rotonde come i fianchi di una donna.
 
 Era elegante, suo padre, anche quando faceva la scarpetta. Lo era sempre stato anche da giovane, ma con gli anni, se è possibile, lo era diventato ancora di più. Forse era merito della sua magrezza. Un dono di natura che, da giovane, gli aveva permesso di mangiare di tutto
senza aumentare di un etto, nonostante non fosse mai stato amante degli sport, e da vecchio gli permetteva di indossare ancora le camicie e i pantaloni di vent’anni prima. Solo le giacche non gli stavano più bene. Le spalle con l’età si erano rimpicciolite e nelle giacche di un tempo, tagliate su misura da un sarto che stava al Vomero e che era morto da poco lasciando il laboratorio a un figlio volenteroso ma non dotato della stessa abilità, ora quasi ci navigava e lo facevano sentire tanto un robot.
Aveva settant’anni suo padre. Li avrebbe compiuti tra poco più di una settimana ma se ne sentiva addosso molti di più, come aveva confessato l’ultima volta a Don Ciro. Non era stata una vera e propria confessione: quella in chiesa, con l’assoluzione eccetera, non la faceva da anni, per non dire decenni. No, quella con Don Ciro era stata più che altro una chiacchierata. Una chiacchierata che negli ultimi tempi – da quando aveva smesso di viaggiare – si ripeteva ogni mese e si svolgeva di solito al Gran Caffè davanti a un gelato alla nocciola per Don Ciro, e al cioccolato con panna per lui. Era sempre stato goloso di cioccolata.
Mentre suo padre si preparava ad “attaccare” i fichi che gli aveva lasciato sul tappetino davanti al portoncino d’ingresso Luigino, il nipote della signorina Giulia, l’ex tabaccaia che ora era andata in pensione lasciando il negozio a una giovane coppia polacca gentilissima e “molto perbene”, Miriam ne approfittò per fare una telefonata, o almeno ci provò. Il primo numero risultò infatti irraggiungibile, cosa che la urtò alquanto. Il secondo non le diede molta soddisfazione in più perché, dopo qualche squillo a vuoto, si attaccò la segreteria. Infastidita, Miriam lasciò un messaggio: «Ciao. È da ieri che provo a chiamarvi. Dì a Maggie di chiamarmi... Ciao». Poche parole e poi letteralmente lanciò il telefonino in borsa. Frustrata. Seccata. E pure un po’ a disagio. Non si era piaciuta. Si era sentita impacciata. Non aveva mai difficoltà a lasciare messaggi in segreteria. Solo con Robert era diverso. Lo era sempre stato.
«Hai parlato con la bambina?» le chiese suo padre quando Miriam tornò a sedersi di fronte a lui al tavolo di ferro battuto che occupava la parte della terrazza affacciata verso la chiesa, quella meno ventilata.
Miriam rispose alla domanda scuotendo la testa, un gesto inutile visto che suo padre non poteva notarlo perché aveva gli occhi fissi sui fichi. Anche Miriam d’istinto guardò il cestino e contò i frutti rimasti. Prima che si alzasse per andare a telefonare ce n’erano dieci, ora solo
quattro. Se la matematica non era un’opinione suo padre ne aveva già mangiati cinque e si apprestava ad addentare il sesto. Stava per dirgli di non esagerare, ma non voleva rovinargli il primo giorno di vacanza, si limitò a spostare il cestino dal tavolo al carrello dietro di lui.
«Ha il telefonino spento. E Robert, tanto per cambiare, non ri- sponde. Figuriamoci.»
   
Quel “figuriamoci” conteneva anni di discussioni sull’uso diverso che Miriam e Robert facevano del telefono. Lei non riusciva a farne a meno, per lui era invece “un male necessario” da usare il meno possibile. Lei al telefono riusciva a dire qualsiasi cosa, anche a far l’amore; lui si limitava a poche parole spesso insoddisfacenti per lei. Lei avrebbe voluto sentirlo più volte al giorno; a lui bastava una volta la sera o al mattino e anche quell’unica gli pesava. Il telefono lo metteva in imbarazzo, al contrario di Miriam, che lo padroneggiava come una cantante il microfono. Persino i suoi messaggi in segreteria erano simpatici, spiritosi, glielo dicevano spesso gli amici a cui erano diretti. Soltanto i messaggi indirizzati a lui, a Robert, erano terribili, come quello che gli aveva appena lasciato, ma tanto lui non ci avrebbe fatto caso. Non badava a certe cose, Robert. Come non badava se aveva reggiseno e mutandine spaiate o se si lavava i capelli a casa piuttosto che andare dal parrucchiere. Forse dipendeva dal fatto che era inglese, anche se solo per metà. Pensò che Maggie, per fortuna, era inglese solo per un quarto. Non che a Miriam non piacessero gli inglesi, ma sentiva che in fatto di sentimenti la vedevano in modo troppo diverso. Anche se Robert le aveva sempre detto che tra loro non era stata una questione di sentimenti, nonostante quello che pensava lei.
D’un tratto una nuova angoscia l’assalì. E se Maggie avesse deciso di trasferirsi a Londra da subito? Che ci andasse a diciott’anni era una cosa ormai concordata. L’università l’avrebbe fatta in Inghilterra, non c’era neanche da discuterne. Era un fatto acquisito. E se invece, dopo quest’estate, avesse pensato di andarci da subito? Aveva quattordici anni. Londra doveva esercitare un certo fascino su una quattordi- cenne, lo esercitava ancora su di lei che ne aveva quasi quarantacin- que figuriamoci su sua figlia con trenta e passa in meno. Miriam avrebbe voluto odiare Londra, ma non ci riusciva. Anzi, ogni volta che vi tornava, anche se per brevi periodi, le piaceva sempre di più e questo la irritava. Allo stesso modo Miriam avrebbe voluto, se non proprio odiare il suo ex marito, almeno disprezzarlo un po’, ma non ci riusciva. E proprio come accadeva per Londra, ogni volta che lo
incontrava, anche se solo per un caffè, le piaceva sempre di più e questo la irritava. Per fortuna sia lui che Londra erano abbastanza lontani. Miriam non riusciva a resistere alle tentazioni, proprio come i suoi genitori. Allungò una mano verso il cestino e afferrò uno dei fichi superstiti. Lo addentò, senza sbucciarlo, guardando la luna crescente che si rifletteva nel mare.

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