
Roberta Bobbi
Trappola morale
Premiato con Targa nella XXXIX edizione del
"Premio Città di Cava de’ Tirreni" – anno 2023
Descrizione
Vuole
martellarmi la coscienza? Che ingenuo.
Non lo sa che me
la flagello già da sola. Poverino. Un altro che pensa di mettermi in
difficoltà trattandomi da stupida.
Eppure, è
proprio lo scherno dei tipi come lui, ad aumentare la mia autostima.»
Francesca Ausili, sessantenne ridotta a
lavorare come cartomante.
Elena Venanzi, ex-carabiniera
estromessa dall’Arma.
Monica Selloni, giovane masochista mai
sazia di maltrattamenti.
Tre donne irretite dai propri fallimenti.
In un susseguirsi di ore in cui gli eventi si
accaniscono su di loro e le conducono a intersecare i loro destini,
incappano in un tranello che le inchioda a una corresponsabilità che,
nonostante lo zelo con cui il Commissario De Sanctis cerca di
fiaccarle, negano con tutte le loro forze.
L'Autrice
Roberta
Bobbi nasce a Narni, in Umbria, nel 1964. Si trasferisce poi a Roma dove
intraprende studi di recitazione e di drammaturgia. Scrive dapprima alcuni
testi teatrali tra cui “Ustascia”, prodotto
e messo in scena dalla Compagnia Beat 72 e “La farina del diavolo”,
allestito dal Teatro Argentina.
Nel
2016 pubblica, insieme ad un’altra autrice, il romanzo “Da principio venne il
diavolo”, firmato Agatha Beta e pubblicato da Walkabout Agency. Nel 2018
pubblica il romanzo “Velia, amorevole estetista delle salme” con La Caravella
Editrice. Nel 2022 collabora con un suo racconto all’Antologia “Scritti per
gioco” edito da Ronchetti Editore. Sempre nel 2022, con un altro racconto
partecipa all’Antologia “Estate in cento parole” edito da Giulio Perrone.
Leggi l'incipit
Capitolo 1
Ci siamo quasi. Il segnale di fonia sta per convertirsi in impulso elettrico, è
in procinto di mettersi in cammino. Per ora è ancora lì, all’imbocco della rete
di accesso, immobile e pulsante come uno sciatore che in cima alla piattaforma
aspetta di saltare sulla pista di lancio, ma a breve sarà commutato e poi
instradato dentro i fasci dei cavi delle telecomunicazioni, nel caso provenga
da un apparecchio fisso o agganciato dalle onde e caricato su un ponte radio,
nel caso scaturisca invece da un apparecchio mobile. La lancetta dell’amperometro
schizzerà dunque verso l’alto e in un lampo la vibrazione acustica agiterà il
portatile poggiato sul tavolo facendolo squillare. Allora sarò costretta a
portarmelo all’orecchio, a stendere forzatamente le labbra in un sorriso
fasullo e rispondere: «Pronto, sono Loredana, in cosa posso esserti utile?»
Ridotta a un utensile, a donna di pubblica utilità, ma non di servizio. Questo
sono diventata. Ho a che fare con l’ottusità del genere umano, soprattutto con
quella femminile. Io lavoro per chi si vuole comprare un vaticinio favorevole,
per chi non sa oltrepassare le proprie misere passioni. Vendo chiacchiere, le
vendo al minuto, per pochi centesimi e pure in nero. I clienti più vantaggiosi
sono coloro i cui amici, stanchi di dare lo stesso consiglio per poi sentirsi
subito di nuovo interpellati e addirittura indotti a darne un altro più
gradito, hanno pensato bene di allontanarsi. E poi ci sono quelli che si
sentono troppo intelligenti per andare da uno strizzacervelli, oppure gli
altri, quelli che non chiamano tutti i giorni, ma solo una volta ogni tanto,
che preferiscono parlare con noi in anonima- to pur di evitare chi,
conoscendoli, potrebbe giudicarli e non benignamente. Nello stesso attimo che
le loro dita iniziano a comporre i numeri dei nostri otto-nove-nove, si sentono
tutti già consolati alla sola idea che di lì a poco qualcuno, in cambio di
pochi spiccioli, avrà finalmente comprensione e cheterà le loro ansie con un
responso favorevole ai loro desideri frustrati. Ed è questo che noi dovremmo
fare, che dovrei fare anch’io: offrire loro attenzione, regalare assenso a ogni
loro speranzosa certezza. Siamo pagati per avere pazienza, noi. Solo che io la
pazienza non la possiedo più, l’ho persa da un po’. Non li sopporto. Sono casi
umani fatti con lo stampino. Querule voci in affanno, portatrici delle medesime
domande a riguardo dei sentimenti degli amanti, delle mogli, dei mariti, dei
colleghi, dei parenti, degli amici e dei nemici. Gemiti di sofferenza en-
demica senza soluzione. Stolti individui imprigionati dentro bolle di
risentimento. Gente che ti costringe a mentire sapendo benissimo che è il tuo
mestiere che ti obbliga a farlo. Non tollero più prodigarmi in penose stesure
risolutive solamente perché bisogna pur campare. Una volta mi ci affezionavo ai
clienti, sputavo l’anima per cercare di aiutarli, mi profondevo a raffica, li
pensavo di continuo anche nelle ore libere. Adesso li detesto. Non è servito a
nulla saccheggiare le riserve di buon senso che ero riuscita a conservare, né
consumare fiato per pretendere realismo o invocare coraggio. Non c’è peggior
sordo di chi non vuol sentire. Quel loro continuo interrogativo: «È questo il
mio destino secondo le carte?» Tutti assolti dal destino si vogliono sentire!
In modo da poter placidamente incrociare le braccia e non fare niente, se non
aspettare che le carte annuncino quando quel loro destino d’infelicità avrà il
riscatto della ricompensa. Pen- sano che qualsiasi sforzo per cambiarlo sarebbe
fatica sprecata. Poverini! E lo dico a loro difesa e contro me stessa,
stavolta. Loro si affidano a te che ti spacci per cartomante e sensitiva perché
pensano che il destino sei capace a leggerlo, che le competenze per predirlo
onestamente le possiedi... e be’, non per scagionarmi, ma a dire il vero, la
notte prima che iniziassi a cimentarmi in questo lavoro l’ho davvero letto per
intero (no, non il destino di qualcuno) un manuale sui Tarocchi. E su ognuno
dei settantadue Arcani, a matita, ho scritto il suo significato e la simbologia
che lo contraddistingueva e a penna, su un quadernone, le innumerevoli
combinazioni predittive. Ho diligentemente frequentato il Corso di Tecniche di
approccio psicologico e quello di Interpretazione dei temi astrali organizzati
dall’azienda. Ho provato a mettere a frutto ogni gentile suggerimento dei
responsabili delle risorse umane. Insomma, ce l’ho messa tutta. Tant’è che il
primo mazzo di tarocchi mi è durato appena un mese. Durante il turno lo
mischiavo di continuo, ininterrottamente, fino a che un giorno mi si è
sbriciolato tra i polpastrelli. Anzi, sfarinato. Sono rimasta con un pugno di
polvere in mano e ho dovuto farmene prestare un altro da una collega. Ero
sempre in conversazione, i clienti avevano preso a ricercarmi, a fidarsi di me.
Guadagnavo abbastanza da potermi permettere di vivere in un appartamento con un
gran terrazzo adagiato su una vallata, ma poi ho cominciato a capire che era
spesso inutile interpretare le stesure perché quando erano sfavorevoli, pur di
far rimanere il cliente in linea, dovevo ingegnarmi in una serie di
contorcimenti sintattici e in un uso così spropositato di ossimori che la voce,
mentre la dignità andava spappolandosi, mi si alterava così tanto da risultare
stridula. E allora avvertivo sempre più spesso, alle spalle, la fastidiosa
presenza di qualche socio dello staff che sussurrando m’incitava a usare un
tono più rassicurante. E qualche volta si sedeva pure accanto per ascoltare
meglio come gestivo il cliente. Poi mi aspettava a fine turno per dirmi che
stavo scendendo di minutaggio, che la mia produttività era in calo, che dovevo
assolutamente ritornare a sfornare almeno cinquemila minuti ogni mese. Ci sono
riuscita per poco. Poi ho lasciato quella casa sulla valle di siepi selvatiche
dove ogni mattina una coppia di colibrì volteggiava per me davanti alla
finestra, perché non avevo più i soldi per pagare l’affitto. Ora lavoro a
domicilio, in un monolocale con il tetto bassissimo e un’unica finestra che dà
sul cortile interno di un caseggiato squallido, odoroso di muffa e infestato di
zanzare. Nessuno mi controlla, nessuno mi munge. Le uniche facce che ho
davanti, sullo schermo dell’Acer, sono le foto delle mie colleghe, o meglio, le
foto che la titolare ha scelto per presentarle. Quella che rappresenta me
mostra una donna dal sorriso bonario, una bionda tinta di bruno. Chissà chi è e
se lo sa che mi presta la faccia perché io mi vergogno di metterci la mia.
Sembra un volto dell’Est. Siamo in dieci e in questo momento parla solo
Clotilde, la più gettonata, il codice 143, quella che si reclamizza sostenendo
di essere in costante interlocuzione con gli angeli e tiene i clienti in attesa
mentre, lei dice, aspetta che l’angelo le guidi la mano e le faccia scrivere la
risposta al quesito. Che sfacciata. I clienti, nei commenti sul sito si
dichiarano estasiati e commossi dai suoi scritti. A forza di scrivere avrà di
certo una bella calligrafia. Con quelle punte dei capelli ossigenati che le
battono sulle spalline imbottite della giacca e si piegano all’insù, e con quel
sorriso da fatina cartonata sembra una di quelle professoresse di francese
leziose in maniera stomachevole. Ecco, adesso si è accesa la luce rossa sotto
il riquadro di Rosita: le è entrata una chiamata. Ho tanto l’impressione che la
faccia di Rosita sia proprio la sua, è troppo sgraziata per essere quella di
una modella. Convinta com’è del suo valore, ci avrà voluto mettere la propria,
lo avrà preteso. Si presenta addirittura come una coach-life, come colei che
riuscirà a far riemergere chiunque da qualsiasi periodo di buio pesto; come
colei che farà rivedere le stelle a ognuno. Nella foto, con un’espressione
sghemba, le labbra aperte su una chiostra di denti giallognoli e irregolari, indica
compiaciuta i mazzi di Sibille, di Tarocchi, di I King e di Rune di cui vanta
un’esperienza di lettura decennale. Sempre in pole position, sempre collegata.
Il grande oracolo! Clotilde ha già prodotto trenta minuti. Rosita è al suo
terzo minuto di conversazione. Anche Gilda, quella che dice di aver ricevuto il
dono della preveggenza da una mistica vicina di casa che le avrebbe trasferito
anche il dono della profezia, è entrata online. E ora la luce rossa si
accende pure per Venere, così pomposa con quel nome che si è scelto e quella
biondona cotonata e riccioluta che le hanno affibbiato come effigie. Di solito
lavora pochissimo, ha pure bruttissimi riscontri, dicono che durante il
consulto parla al cellulare con le sue amiche, che è distratta e poco professionale,
insomma. Perché ha squillato proprio a lei? Siamo in sette: tre online,
quattro con la lucetta verde, ovvero disponibili ma silenti. Le altre tredici
sono offline. Tre in conversazione. Quattro tra cui io, zitte. E sono
già passati quarantanove minuti da quando ho iniziato il turno. Non vorrei che
a qualcuno del quartiere si fos- se di nuovo guastata la linea. Ogni volta che
succede chiamano un tecnico che, appena arriva in zona, si mette a trafficare
alla colonnina grigia vicino al bar, dentro quell’armadietto della centralina
del quartiere di cui hanno le chiavi solo gli addetti. Stefano, il mio tecnico
di fiducia, l’ultima volta che sono stata costretta a chiamarlo mi ha riferito
che il filo collegato alla sede della mia utenza era tutto schiacciato, che non
c’era trasmissione e che era questo il motivo per cui non ricevevo chiamate. E
mi ha anche detto che succede spesso che, pur di aggiustare il filo di un
utente, venga manomesso quello di un altro aggiungendo che non lo si fa
apposta, ma che è inevitabile perché la matassa di spinotti e fibra è talmente
fitta che si deve per forza comprimere qualche filo per farcene entrare un
altro. Dopo il suo intervento, in effetti, per qualche giorno la linea ha
funzionato a meraviglia, obbligandomi a sorbire di nuovo i vari deliri di chi
vuole sapere perché su WhatsApp tizio o caia non ha fatto la doppia
spunta e dunque non ha letto il loro messaggio, o perché pur facendola, chiaro
segno di avvenuta lettura, non ha risposto; o le ossessioni di chi conta i
cuori, i pollici e i sorrisi altrui sul profilo di chi gli sfugge. Solo che
poi, improvvisamente, la linea ha ripreso a latitare e allora ho dovuto
richiamarlo, per mandarlo a controllare se alla centralina avessero di nuovo
manomesso la diramazione della mia connessione. «Quanti tecnici ci mettono le
mani in quella centralina?» gli ho chiesto poi, dandogli altri quaranta euro
con un presagio di sospetto.
Multimedia
L’imprevedibile destino di sentirsi in una “trappola morale”
Intervista a Roberta Bobbi
a cura di Luca Carbonara
Come accade
spesso a tanti attori e attrici che approdano al Cinema dopo pregnanti quanto
significative e prodromiche esperienze teatrali, lei approda alla narrativa
dopo aver scritto alcuni testi teatrali come Ustascia. In che
termini i suoi studi di drammaturgia e di recitazione influenzano, qualificano
e determinano la sua successiva formazione come scrittrice di romanzi?
In realtà,
studiando recitazione si fa innanzitutto analisi del testo che di solito è
prettamente dialogico, si approfondiscono i personaggi cercando di carpire
innanzitutto la loro psicologia per incarnarli poi meglio possibile, si cerca
di non tradire il messaggio che l’autore voleva trasmettere scrivendo l’opera.
E questo vale sia per i copioni di drammaturgia sia per le sceneggiature. Di
certo la mia esperienza di attrice mi ha fatto modulare ogni singola battuta,
me l’ha fatta assaporare nelle molteplici variazioni semantiche che lo
spostamento di un accento può dare. Quando poi ho iniziato a studiare anche
drammaturgia ho dovuto inevitabilmente tentare di scrivere per il
teatro, almeno per esercizio, e ci ho provato gusto, passione. Tanto da
scrivere “Ustascia” e riuscire anche a portarla in scena. Di seguito, ho
cominciato a seguire anche alcuni stage di sceneggiatura ed allora ho allargato
la scrittura iniziando a descrivere anche gli ambienti. Poi, un giorno, una mia
cara amica, attrice, regista e scrittrice di successo mi ha coinvolto nella
stesura di un giallo e grazie a lei ho desiderato cimentarmi poi nella
scrittura di un romanzo. Avevo l’esigenza di raccontare la storia di una
tanatoestetista ma l’argomento non si prestava a una rappresentazione teatrale,
l’idea di scrivere una sceneggiatura mi scoraggiava ed allora l’ho scritta in
prosa.
Trappola morale, il suo ultimo
romanzo di genere noir pubblicato quest’anno da Torre dei venti editrice, che
ha il valore aggiunto di essere declinato al femminile, se da un lato per
struttura e architettura ricorda una pièce teatrale dall’altro si rivela essere
un perfetto meccanismo a incastro in cui tutto ha un unico fine nel rispetto
della circolarità di un disegno in cui si intersecano con assoluta precisione
le vite come i destini delle protagoniste uniti in modo indissolubile e fatale.
Qual è la genesi di questo romanzo e quali sono stati i suoi principali motivi
di ispirazione?
“Trappola
morale” è nato da due urgenze propulsive. La prima era la volontà di cimentarmi
nel genere noir commisto a quello del thriller psicologico; la seconda, il
desiderio di dar voce e riscatto a degli esseri arresi ma non vinti. Per un
periodo, negli anni novanta, da inevitabile precaria del mondo delle
professioni artistiche, ho lavorato in un centro di cartomanzia. L’eco di
quell’esperienza mi era rimasta così attorcigliata nella memoria da ispirarmi
il personaggio di Francesca. Ho iniziato a scrivere il primo capitolo senza
nessuna scaletta. Poteva anche rimanere un monologo teatrale, ma non mi sarebbe
bastato. Così, ho cominciato a ragionare su altri personaggi ugualmenti
invischiati, affini ed allora Elena, una donna d’azione con le armi spuntate e
Monica, una giovane complessata convinta chel’unico modo per farsi amare sia
quello di prestarsi a delle sevizie, mi sono sembrate le figure giuste. Il
resto del disegno, del meccanismo circolare è stato costruito lentamente.
L’obiettivo più o meno raggiunto era quello di portare le tre figure al limite
della disistima di se stesse per poi farle riemergere anche se non
completamente.
Le tre donne
protagoniste di Trappola morale, la cartomante, la guardia giurata
ex carabiniera esautorata dall’Arma, la giovane masochista, tre espressioni,
tre declinazioni, tre variazioni sui temi dell’incomunicabilità e del disagio
esistenziale, sembrano essere, non a caso, tutte vittime di un destino avverso,
di una vita difficile e ingenerosa che sembra non voler dare loro alcuno
scampo. Denominatore comune la solitudine, prima di tutto affettiva, delle loro
vite: la prima sola nella sua mansarda conscia di donare illusioni e false
speranze a chi la chiama per un vaticinio favorevole, la seconda in cerca di
riscatto e di azioni il più possibile coraggiose che la possano in qualche modo
riabilitare, la terza in cerca e all’inseguimento di quello che non potrà mai
essere un amore ma solo una fonte di dolore e di sofferenza. Al di là delle
loro fragilità chi sono e cosa rappresentano realmente le tre protagoniste e
quanto può il loro libero arbitrio salvarle da un mondo che, nonostante tutti i
loro sforzi, sembra restare a loro estraneo oltre che implacabile e crudele?
Rappresentano
tre vite nel medesimo punto di caduta. La solitudine e la mancanza di relazioni
affettive che le accomuna parebbe condannarle a una prigionia esistenziale, a
un luogo di non recupero. Invece quello che succede, la corresponsabilità in
cui si ritrovano invischiate per una serie di circostanze un po’
nefaste, la necessità di difendersi da accuse che ritengono
infondate interrompe la loro autoflagellazione morale. Cominciano a difendersi
innanzitutto dal proprio implacabile giudizio e poi da quello degli
altri, fino ad assolversi e non senza un’ ironia provvidenziale e salvifica,
addirittura brillante.
I destini delle
tre donne, forse solo apparentemente distinti, si incrociano e s’intersecano
inevitabilmente e implacabilmente. Trait d’union il commissario De Sanctis,
figura maschile a simboleggiare una sorta di coro della tragedia greca e
insieme la voce e lo sfondo di una città, uomo di legge particolarmente preciso
e zelante nel suo lavoro che nella fitta ragnatela degli eventi dipanerà i nodi
cruciali di questa vicenda là dove emergeranno le singole responsabilità
riguardanti l’incidente occorso alla giovane masochista. La sincronia degli
eventi non darà scampo a nessuna di loro. Messe di fronte alle proprie
responsabilità, alle mancanze che sarebbero potute risultare fatali, le
protagoniste, cadute in una insostenibile trappola morale,
insorgono e si dibattono e anche se di fatto libere i loro destini sembrano non
riuscire a redimersi. C’è una colpa, qualcosa di ineluttabile, di
incontrovertibile nel destino di ognuno di noi, una sorta di peccato originale
che non si può in alcun modo mondare?
Non penso si
nasca perfetti. Puri, inconsapevoli, innocenti sì, ma non perfetti. Nasciamo
umani e dunque decisamente perfettibili. Il maggior difetto è la mortalità.
Talvolta si cerca di esorcizzarlo con una tensione morale tesa al Bene, altre
volte si vive come se ci fossero infiniti domani, narcotizzati
dall’immanenza.Personalmente ho aderito da tempo a una visione trascendente.
Non c’è attualmente nessuna scienza che mi possa dimostrare l’inesistenza di un
Dio così come non ce n’è alcuna che mi possa dimostrare il contrario.
Nell’incertezza, facendo tesoro del libero arbitrio, preferisco credere che ci
sia. Che ci sia un Dio, quello dei Vangeli. E comunque, nonostante la fede, non
posso fare a meno di notare la disparità, le ingiustizie, i torti e le
malvagità. Mi è difficile credere nel martirio e nel peccato originale come
radice dell’infelicità, eppure esistono vite che non riescono a liberarsi di
catene ancestrali. O forse chi le vive difetta in autodeterminazione. Non so.
Francesca probabilmente continua a pensare che il destino avverso le sia dato
come punizione divina per il fatto che pratica magia; è ossessionata dalle
pagine del vecchio Testamento in cui si aizzano le fiamme infernali contro
coloro che hanno l’ardire di predire il futuro. Elena, invece, si sente
condannata dal passato, da coloro che non hanno risconosciuto il suo talento e
il suo valore. A Monica basta guardarsi allo specchio per convincersi di essere
stata punita nelle sembianze e di doversi dunque umiliare. La mia intenzione
era comunque quella di portare ognuna di loro a una nuova consapevolezza.
Come la musica
dello stereo che continua a funzionare nella macchina incidentata della giovane
masochista, anche la città di Roma esercita una funzione diegetica in questo
romanzo. Che cosa rappresenta per lei la città di Roma, testimone silente che
sembra diventare un corpo vivo, nel centro come nella periferia?
Roma è
densità di bellezza anche nelle sue zone meno rinomate. Ammalia così tanto gli
occhi di chi la percorre che per le strade si può camminare senza sentirsi
osservati né tantomeno giudicati. Si è spesso rapiti dal caos cosmopolita e
nello stesso tempo, paesano. A me, camminare su e giu per i suoi colli dà
ancora una carica che non trovo in altre città. Probabilmente perché è stata
agognata per tutta l’adolescenza.
La figura
del commissario De Sanctis merita un approfondimento. Alter ego, in qualche
modo, contraltare delle tre protagoniste, paladino della giustizia, appare, a
sua volta, un uomo solo alla ricerca spasmodica di una sua verità. Cosa
rappresenta la visita che decide di intraprendere nella Klimahaus (Casa del
Clima) di Brema? Una sorta di catarsi, di viaggio interiore alle prese con i
suoi demoni e le sue paure?
Esatto. Il
Commissario De Sanctis si infila nei meandri della Casa del Clima di Brema per
esorcizzare la propria impotenza senza sapere che ne uscirà ancora più
ammaccato nell’orgoglio. Senza sapere che quel viaggio tra le simulazioni di
clima di diverse parti del mondo, risveglierà debolezze che pensava di aver
neutralizzato. Senza sapere che la visione di quei paesaggi
sopraffatti accentuerà il sapore amaro del suo insuccesso.
Quali sono i
suoi programmi futuri?
Per ora, sto
scrivendo una commedia teatrale che dovrebbe essere rappresentata alla
fine del 2024 e lavorando sulla trasformazione di “Trappola morale”
in soggetto cinematografico. Nel frattempo ci sono spunti di narrazione che mi
vengono spesso a punzecchiare, ma che per il momento non sono ancora in fase di
elaborazione.
Torna ai libri