Adelchi

Luigi Lazzaro

Adelchi

Primo premio Narrativa edita XXXVI edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2019

Descrizione

1942, Seconda guerra mondiale. All’età di dodici anni Adelchi E’, insieme alla madre, sfolla da Pescara a Faramonte, un paesino dell’appennino abruzzese, dove i due si sistemano nella casa del nonno materno. Qui Adelchi deve imparare a rapportarsi con il branco dei ragazzi del paese e si troverà ad assistere, dapprima con gli occhi del bambino, poi sempre più con la cognizione dell’adulto, al dramma di sua madre, vittima della cinica arroganza di Mirto Delmies, il violento capomanipolo della milizia fascista. 

L'autore

Adelchi

LUIGI LAZZARO, abruzzese, si è laureato in economia a Torino e ha conseguito un master in Strategie Marketing presso la Cranfield School of Management. Ex sessantottino, è stato un attivista convinto ai tempi dell’università, per diventare poi dirigente di una multinazionale. Ha vissuto tanti anni in giro per l’Europa ma ha trovato comunque il tempo di mettere al mondo quattro figli. Infine, è tornato al mare della sua Pescara, dove scrive romanzi e racconti che hanno ottenuto diversi riconoscimenti a livello nazionale. Con La Vinaia, pubblicato nel 2017, ha vinto il Premio Letterario del Leone.

La parola alla Giuria

Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, una storia drammatica e vera, una maniera di raccontare lucida, lineare, senza orpelli né sbavature o ridondanze retoriche, sorprendentemente incisiva e tecnicamente accurata. Tutto inizia e si ricapitola intorno al protagonista, Adelchi, il cui nome non a caso richiama il principe figlio di Desiderio, re dei Longobardi, già coprotagonista di una celebre tragedia manzoniana. Anche l’Adelchi di questo romanzo è una figura tragica, per le dicotomie che si porta dentro, per le oscillazioni pendolari laceranti, per le lotte che deve affrontare per sopravvivere e vivere, per i sentimenti forti di cui è portatore ed assertore, sentimenti ancestrali e primigeni (come l’odio, l’amore, l’amicizia, il bene e il male, la giustizia, la vendetta), vissuti senza compromessi né infingimenti, sempre in maniera coerente ed autentica. Non mancano i grandi temi esistenziali e sociali: la vita, la morte, la sofferenza, il dolore, l’arroganza e la violenza del potere; soprattutto la diversità, che l’autore tratta con straordinaria sensibilità e simpatia, attraverso la vicenda del personaggio di Gigolè, da tutti considerato lo “scemo del villaggio”, in realtà capace, più degli altri, non solo di “pensare, sognare, guardare il cielo, il sole, la luna”, per controllarne il tempo, le posizioni, le dimensioni e riportarli, disegnandoli, come su una carta astronomica, ma anche “di dimostrare il teorema di Pitagora senza avere la minima idea di cosa fossero cateti, ipotenuse e quadrati”, rivelandosi un genio allo stato puro, pronto a sacrificare la propria vita per salvare l’amico Adelchi.
Un libro senz’altro da leggere, per approfondirne gli spunti di riflessione, e godere del piacere di ritrovarvi una scrittura ed una lingua fluide e precise.  
Maria Olmina d'Arienzo

Leggi il primo capitolo

Capitolo I
Mi chiamo Adelchi, come lo sfortunato principe longobardo.
Di cognome faccio É.
Detengo due primati: il cognome più corto del mondo e l’aver condannato a morte un uomo all’età di dodici anni.
Capitolo II
Anni 1942-1944
«Vai via di qui, brutto porco! E non farti vedere più!»
Era la signora Ferri.
Urlava indignata dal suo balconcino al primo piano della casa popolare, il braccio e l’indice tesi a indicare una direzione indefinita. Si affacciarono le altre pettegole, tutte uguali, i larghi fianchi fasciati dal grembiule da cucina e i capelli malamente arricciati, in mano uno strofinaccio o una cipolla.
Ce l’avevano tutte con me, mi guardavano sdegnate.
«Quel maiale si sta toccando… senza vergogna.»
«Non c’è più rispetto.»
«Ecco dove siamo arrivati.»
«Un bambino, e già tanta malizia!»
«Eh, si sa… la mela non cade mai lontana dal tronco.»
Finalmente capii, ero io la pietra dello scandalo.
Quella mattina eravamo andati all’invaso, io, Cocciadiferro, Marziano e Sgummarone. Come tutti, in paese, anche i ragazzi avevano soprannomi, io non facevo eccezione, ero Lu Pescarese. Ci tuffavamo dal muro della diga, un salto di cinque metri, nel gelido sprofondo di acqua verde costellata di bollicine bianche. Ci arrampicavamo poi su una fila di gradini arrugginiti infissi nel cemento e rabbrividendo ci stendevamo a braccia aperte al sole di agosto, vicino al mucchietto dei vestiti.
Ero l’unico che non si tuffava di testa, cosa che mi pregiudicava seriamente nella considerazione della banda. Vero è, però, che mi era riconosciuta l’attenuante di essere uno sfollato di guerra, uno della città. Avevo inoltre un vantaggio su quella cenciosa torma di sciacalli sempre pronti ad azzannare: ero l’unico che andava a scuola; facevo le medie a Pescara, cosa che mi metteva in una posizione di rispetto.

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Intervista all'autore



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