Altri Mondi

Massimo Biondi

Altri Mondi

GSE edizioni - 2020

Premiato con Menzione di merito nella XXXVII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" anno 2021

Descrizione

Raccolta di racconti brevi

L'Autore

Altri Mondi

Massimo Biondi. Nato a Roma nel 1952, dopo la laurea in medicina e un periodo di ricerche in genetica e biochimica, si è dedicato al giornalismo medico-scientifico e fino al 2011 ha collaborato con, e diretto, giornali e riviste di informazione medica e scientifica. Fino a oggi ha pubblicato circa 30 volumi di saggistica (medica, storica, psicologica) e dal 1996 ha avuto occasione di dirigere alcune case editrici. Negli ultimi anni ha esteso la propria attività anche in campo letterario, scrivendo racconti e poesie, e traducendo alcuni autori classici stranieri, come Mark Twain (I diari di Adamo ed Eva), R.L. Stevenson (alcuni racconti di mare), Guy de Maupassant (Il nostro cuore). Altri Mondi è il suo primo volume di scritti letterari.

Leggi il primo capitolo

Appena fuori città il traffico d’un tratto scomparve e guidare diventò l’occasione per seguire, oltre che la strada, il filo dei pensieri. Le case diradavano progressivamente, lasciando spazio a giardini, praticelli, qualche albero isolato, poi il cortile di un asilo attrezzato con scivoli e altalene, e di tanto in tanto siepi e muri di cinta che sembravano nascondere villette o modesti casali di campagna ove i proprietari si rifugiavano ogni finesettimana in cerca di pace e silenzio. La via procedeva in leggera pendenza e si poteva con la vista arrivare a una grande distanza.
Laura si accorse con rammarico di non scorgere lungo quel tratto di strada nemmeno un albero di mimosa con i rami carichi di batuffoli di fiori, come accadeva sempre in quella stagione. Gli alberi erano spogli, forse per la siccità dell’estate precedente, e l’intero paesaggio appariva sbiadito, desolato, triste.
L’anno prima Sara, la sua bambina più grande, era tornata da scuola portando tra le braccia qualche rametto di mimosa che le aveva offerto, un po’ infantilmente ma con grazia, dicendo “Sono per te, mamma. Le ho raccolte proprio io”. Una bugia, perché la piccola non sarebbe mai potuta arrivare con le sue manine ai rami di uno di quegli alberi; però sentirglielo dire le aveva fatto ugualmente piacere. Aveva finto di crederle e l’aveva abbracciata, stringendola a sé. Avevano riso entrambe e subito dopo si erano dirette verso la cucina, dove Laura aveva già preparato la tavola per il pranzo. Avevano mangiato di buonumore, spensierate, ogni tanto ridendo e, in un gioco di scoperta complicità, avevano lanciato qualche frase scherzosa a Marco, il piccolino, che proprio allora cominciava a parlare. Le sue prime parole... Laura con affetto aveva cercato di allegramente appropriarsene. “Sono sicura: ha detto mamma, cioè per la verità ha biascicato qualcosa tipo mbamba ma sono certa che si riferiva a me. E d’altra parte, sono io che passo la maggior parte del tempo con lui” aveva detto al marito, quella sera. Lui, stanco ma rasserenatosi nell’istante stesso in cui aveva rimesso piede a casa, per un po’ aveva tentato di intestarsi la conquista del figlioletto ma poi l’aveva volentieri concessa alla moglie. “È inutile, Laura, hai vinto tu: più tardi annuncerò su facebook che Marco ha detto per la prima volta mamma.” Avevano riso e un brivido lieve di piacere li aveva abbracciati entrambi al pensiero del prossimo annuncio agli amici.
Al termine di un rettifilo una curva costrinse Laura a riportare l’attenzione all’automobile, per ridurre la marcia. La donna aveva sempre guidato bene, con agilità e scioltezza, ma adesso... adesso era diverso e si sentiva costretta a mantenere una controllata circospezione. Poco oltre gettò un’occhiata veloce al lato della strada, al di là di un muretto basso sormontato da una fitta rete metallica, che esprimeva l’intenzione ostinata di tener fuori gli estranei. Quando passava di lì le riusciva difficile non girare lo sguardo da quella parte, forse per la presenza della rete, forse per il colore rosso cupo del muretto.
Ogni mattina nella loro casa si svolgeva una scena abituale da famiglia felice, quasi lo spot di una pubblicità di merendine. I bambini entravano di corsa in cucina, allegri, per consumare la colazione. Protendendosi sulla punta dei piedi e con un saltello che diventava ogni mese meno slanciato, si accomodavano sulle sedie ancora troppo alte per loro e prendevano le solite posizioni attorno al tavolo. Talvolta, solo talvolta, litigavano per chi dovesse mettersi a destra della madre, per godere del tiepido calore di essere serviti direttamente dalle sue mani. Tazze grandi di latte, biscotti inzuppati, gesti vivaci per mandar giù tutto in fretta... Poche parole scherzose, poi un sorseggiare e masticare dolcetti. Capelli pettinati, il grembiulino già indossato da Sara per andare a scuola... Appena terminato, la bambina scendeva i pochi gradini d’accesso per andare a fermarsi all’ingresso della loro villetta, accanto alla colonnina che delimitava la recinzione del giardino ‒ chissà come mai: sempre fiorito – ad aspettare l’autobus scolastico. Marco rimaneva seduto a bere dalla sua tazza, ma soprattutto a giocarci perdendo tempo, di tanto in tanto girandola per osservarla da ogni lato; poi tornava nella sua cameretta colorata piena di oggetti di plastica e viaggiava in un mondo immaginario inseguendo fantasie. Quei due si lasciavano dietro tra le stanze della casa l’eco silenziosa della loro vitalità. Nel salone luce e tepore continuavano a filtrare dall’ampia porta finestra e la casa affondava, dopo pochi minuti, nel silenzio soffice dell’assenza.
Lasciata la strada principale, Laura si inoltrò per una diramazione laterale che attraversava un ampio tratto di campagna disabitato: solo piccoli appezzamenti curati e coltivati, ma per il resto incolto, coperto da un tappeto irregolare e rado di verde pallido. L’auto procedeva con cautela, per ridurre i sobbalzi dovuti al fondo stradale dissestato.
Anche quella mattina i bambini avevano fatto colazione nella cucina inondata dal sole. Poi erano andati a scuola e in camera. Quando Sara si era avvicinata a Laura, allungandosi per farsi baciare, aveva avuto un attimo di esitazione e aveva rivolto alla madre uno sguardo che sembrava volerle penetrare nell’anima. Ma era durato appena un istante e, prima che Laura potesse chiederle se c’era qualcosa che non andava, la bambina l’aveva salutata con la solita vocetta allegra “Ciao, mamma, vado a scuola. Tornerò affamata, quindi prepara un buon pranzo!” Era il loro modo abituale di salutarsi scherzando, prima di avviarsi alle scansioni usuali della giornata.
Ora la macchina procedeva molto lentamente, con cautela. Nell’abitacolo risuonavano il rumore crepitante delle ruote che avanzavano sulla terra battuta e lo strisciare degli steli d’erba contro la carrozzeria. Arrivata nei pressi di un boschetto di canne, Laura accostò al margine della strada per fermarsi. Il posto era completamente deserto e, anche tendendo l’orecchio, non si sentiva che il fruscio delle canne che si strofinavano l’una sull’altra agitate da una brezza leggera.
Marco, quietamente, era intento a disporre su una seggiolina un orsetto di lana al quale era molto attaccato. Gli piaceva metterlo accanto a sé, di fronte a un tavolinetto basso, e parlargli – nella sua lingua infantile ancora in formazione – mimando la scena di poco prima in cucina: gli dava da mangiare, da bere, gli offriva un biscotto di plastica rossa, un piatto... Passava parecchio tempo così, prima di stancarsi e mettersi a vedere dei cartoni in un televisore che aveva già imparato ad accendere da solo...
Spento il motore e uscita dalla macchina, Laura aprì lo sportello posteriore e afferrò con gesto deciso il borsone sportivo che aveva portato con sé. Il cuore prese a palpitarle in petto. Si incamminò verso il canneto e vi entrò avanzando a fatica. Già dopo due o tre passi le canne, alte e umide, si erano fatte assai folte e le divenne difficile procedere. Infilandosi con attenzione nel groviglio, riuscì comunque ad addentrarsi ancora un po’ e solo quando si accorse che il respiro le era diventato affannato, si decise a fermarsi. Quindi forzò più in basso che poté, tra i culmi che spuntavano da terra, la borsa che fino ad allora aveva proteso davanti a sé per evitare che si impigliasse; allentò la presa sul manico, aprì le dita e con sollievo lo lasciò. Poi, con accortezza per evitare di tagliarsi tra le canne, si girò e si avviò verso l’auto, immaginando il momento in cui, tornata a casa, avrebbe riabbracciato i suoi bambini.
Tra i fusti, abbandonato nella sacca, giaceva il corpicino del suo terzo figlio, frutto della violenza subita da suo padre introdottosi una sera ubriaco in casa sua durante l’assenza del marito. L’aveva soffocato nel lettino quella mattina stessa, al risveglio, decidendo di sbarazzarsene. Quel venefico neonato non avrebbe più turbato la sua vita, che d’ora in avanti sarebbe stata dedicata soltanto ai suoi amati Sara e Marco.


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