Emilia Bersabea Cirillo
azzurro amianto
Terzo premio ex aequo Narrativa edita XXXIX edizione del "Premio
Città di Cava de’ Tirreni " anno 2023
Descrizione
Anni duemila, una città del sud Italia, che sonnecchia su un’area industriale abbandonata. Due donne si rifugiano proprio lì, in cerca di giustizia. Un comitato di signore borghesi che vogliono fare del bene, ma senza sporcarsi le mani. Un quartiere periferico, un parroco e un ex sindacalista che lottano contro le conseguenze di una fabbrica contaminata, dove negli anni Ottanta giovani operai iniziarono a scoibentare amianto per gli interessi di industriali senza scrupoli. In questo scenario che pare immobile, piomba Beatrice, fuggita da quella città tanti anni prima e imprigionata dai sensi di colpa per aver lasciato sua figlia Bianca, affetta da un disturbo dello sviluppo, alle cure di mani non sue. Nell’aiutare le due donne e una comunità ferita, Beatrice, senza eroismi, troverà poco alla volta il coraggio di affrontare e di accogliere una maternità travagliata.
Con la scrittura raffinata di Emilia Bersabea Cirillo, Azzurro amianto trasporta chi legge in una vicenda insieme sociale, politica e intima, sullo sfondo di un territorio ferito, attraversato dal desiderio di riscatto delle sue protagoniste e anche della sua autrice.
L'Autrice
Architetta,
nata ad Atripalda (Av), vive ad Avellino. Ha pubblicato il primo romanzo nel
1999. Nel 2010 ha vinto il Premio Prata con Una terra spaccata (Edizioni
San Paolo, Milano). Con L’Iguana editrice ha pubblicato il romanzo Non
smetto di aver freddo nel 2016 (Premio Minerva 2016 e Premio Di Lascia
2017). Ha fondato l’Associazione “Paroletranoileggere” per la promozione della
lettura e la valorizzazione dei saperi femminili del territorio irpino (e non
solo).
Leggi l'incipit
PROLOGO
Quando Matilde e Ausilia lasciarono il fosso, si
ritrovarono con le braccia e le mani bianche di polvere. Un sole freddo
illuminava il piazzale dell’ex fabbrica, un’area recintata da lamiere
ondulate, ricoperta in parte da erbe selvatiche, su cui incombeva la sagoma di
una littorina, ferma su binari arrugginiti.
Subito si erano messe a lavorare,
a capo chino, fino a che il buio della sera aveva impedito loro di continuare.
«È come sarchiare», aveva detto Matilde, ma non c’era campo, né terra: solo
asfalto crepato, buche colme d’acqua e buste piene di spazzatura mangiate
dagli animali. Avevano insistito a scavare là dove il suolo era più fragile,
con un piccone e una zappa, scorticando, colpo a colpo, le croste di bitume,
sollevandole con la vanga e ammucchiandole di lato.
Sapevano di dover arrivare alla
terra. Quello che cercavano era nascosto là sotto. «Quanto ancora?», si era
lamentata Ausilia, la più giovane delle due, che già sudava, intrappolata in
una tuta bianca che sembrava carta velina. Era sicura che era quello, il posto?
«Amma’
scava», aveva risposto Matilde, che accoccolata sui talloni strappava lastre
di bitume e le lanciava con forza poco lontano. Ma, dopo aver atteso invano che
altri blocchi si frantumassero sotto i colpi di Ausilia, era ritornata a
riprendere la zappa e si era messa a scavare a fianco alla ragazza.
Dai un colpo,
una volta tu, una volta io, come una preghiera. Ave Maria, piena di grazia,
Salve Regina, madre di misericordia, Padre Nostro, che sei nei cieli,
avevano recitato. Ora che spuntava terra scura, era diventato più facile
scavare.
«Stammo a buon
punto», aveva detto Matilde.
E testarde
avevano continuato, senza sentire più la fatica, anzi la zappa andava leggera,
come sul bordo del fiume, quando l’argilla è appena umida, fino a che
qualcosa di bianco aveva cominciato a brillare dal fondo della buca.
Avevano creduto
entrambe che sarebbero state più felici di vederlo. Invece no.
Diciannove
mucchietti di polvere, in circolo, avevano formato, pugno a pugno, come sabbia
colata. Era stata un’idea di Matilde formare quel girotondo che nessuno
giocava.
Lontano, il suono di un campanile le
aveva fatte sobbalzare. Era il rintocco delle cinque.
Intanto il sole
si era nascosto dietro la montagna.
«Non ci siamo
accorte neanche che tramontava», aveva mormorato Ausilia, che ormai non
sentiva neppure più le bolle tra pollice e indice spaccarsi e sanguinare.
Matilde aveva
portato una lampada a cherosene, usata anni prima nei giorni del terremoto.
L’aveva accesa sfregando un fiammifero e, lanciandolo nella bocca di fuoco, era
sobbalzata, perché quella vampata improvvisa le faceva sempre paura. «Sia
ringraziato Dio», aveva pronunciato in un soffio e si era rimessa china, a
cercare di racimolare altra polvere. Ma dopo neanche dieci minuti aveva
tossito, forte, a lungo, con gli occhi che si erano riempiti di lacrime, come
se il respiro, condensatosi in gocce, volesse volare via dal suo corpo.
«Aggia fa ’na
montagna ’e povere che se la devono ’ngnottere, come ’na pizza dolce a
colazione».
«Me ne voglio
i’, Mati’. Prima che ci ammaliamo. Torniamo a casa nostra».
«Facimmo
ampressa».
«E che facimmo
qua? Sembriamo due schiattamuorti», disse Ausilia, guardando il cappotto
marrone di Matilde, orlato di polvere ai polsi e al bordo, e la sciarpa rossa
stretta intorno al collo. Il viso, chiuso in una maschera bianca, aveva perso
qualunque morbidezza, solo la bocca si muoveva, ma era un animarsi
impercettibile. Pensò che forse anche lei si era ridotta così e desiderò, una volta
tanto, uno specchio per guardarsi.
«Nisciuno ci
vere, a quest’ora».
«Ma questa
povere me la devo levare ’ra cuollo primma ’e ’mmo, ‘sta povere ’e morte, a
mme mi fa paura», affermò decisa Ausilia. Lasciò la zappa per terra e si incamminò
verso la littorina.
Dopo qualche
minuto, Matilde la seguì.
PRIMA PARTE
CAPITOLO 1
«Poi ci sarebbe
quest’ultimo caso».
La voce pacata
di Maria Nives Acone stentò ad arrivare alle signore immerse in un pettegolezzo
tutto cittadino sulla festa di matrimonio, il terzo, della loro amica Luisita
con un dirigente scolastico in pensione, già suo amante quando era al primo
matrimonio. Era un argomento troppo ghiotto per non parlarne, dopo due ore di
discussioni su come e quando organizzare aiuti per gli sfrattati dei prefabbricati,
ospitati ormai da un mese nella sede della Caritas. Maria Nives alzò la testa
dai fogli di appunti.
«Per favore,
ancora un attimo di attenzione. Ieri mattina mi ha telefonato don Vittorio, il
parroco di rione Ferrovia».
Le cinque donne sedute intorno al
tavolo, sul quale si erano accumulate tazze di ceramica sporche di caffè,
piattini con avanzi di dolci al cioccolato e una ceneriera colma di mozziconi,
tacquero. Conoscevano don Vittorio Criscuolo di fama, aveva partecipato alla
processione della Candelora con i femminielli e aveva accolto nella sua canonica
due famiglie di profughi. Era un uomo battagliero che aveva definito la loro
associazione di volontariato, in un’intervista a una televisione locale, «un
onesto gruppo di signore bene che cercano di dare un senso alla vita».
«E che va
trovando da noi?», chiese una donna dal viso abbronzato, con splendidi occhi
azzurri. «Io non lo prenderei neanche in considerazione».
«Quello che
chiede è importante. Due donne, forse madre e figlia, vivono in condizioni
d’indigenza all’interno di un vagone ferroviario nell’area dell’ex Newchemistry,
a Pianodardine. Racconta che le ha avvicinate per convincerle a lasciare il
vagone ed entrare nella casa di accoglienza delle suore, giù a Porta Puglia.
Gli sembrano malate, bisognose di cure. Loro però gli si sono scagliate contro,
con grida e minacce».
«E noi che
dovremmo fare?», chiese un’altra.
«Ci chiede di
provare a convincerle a essere ospitate dalle suore. Quelle due, chiunque
siano, non possono vivere in un posto del genere. Su questo siamo d’accordo,
spero. Se poi qualcuna di noi potesse ospitarle a casa propria, tanto meglio»,
Maria Nives si strinse in una stola di lana grigia.
Le signore si
guardarono, scossero il capo e restarono mute.
«Siamo proprio
sicure che siano madre e figlia?».
Una donna che
stava in fondo al tavolo alzò la testa dal suo quaderno nero.
«Perché, fa
differenza?», domandò una di loro e piazzò le braccia rotonde sulla tavola.
«Certo che la
fa. Se sono madre e figlia, è più facile convincerle», rispose una donna che aveva il
volto dalla pelle liscia, senza una ruga.
Maria Nives, che
le era di fronte, allungò le mani sulle sue, in una carezza.
«Fatemi finire. Ho pensato di affidare questo caso a mia cugina. Per chi
non la conoscesse, vi presento Beatrice Gatti: antiquaria, è tornata ad
Avellino da poco e ha deciso di prestare una parte del suo tempo
all’associazione».
Beatrice si
accorse che era arrossita. Volse lo sguardo alla sua destra, poi alla sua
sinistra. Raccolse pochi sorrisi.
«Ma chi ce lo fa
fare?», s’intromise una donna minuta, alzandosi in piedi e mostrando la
scoliosi che la rendeva bassa e storta. «Queste sono cose delicate. Io risponderei:
grazie tante, caro padre, ma non è per noi. Qui ci vuole la forza pubblica!»,
e toccò il gomito della vicina.
«Sono d’accordo
con Filomena. Dove ci vogliamo imbarcare? Prevedo un fallimento sicuro. Quelle
due devono essere matte sul serio per vivere in un vagone, senza luce e acqua»,
si accalorò una donna con il viso avvizzito e una bella collana di perle e
brillanti che risplendeva sul golfino nero. E toccò a sua volta il gomito della
vicina. Questa, che occupava con il suo corpo grasso lo spazio tra la sedia e
il trumeau ottocento, alzò una mano.
«La
Newchemistry! Proprio quella! Chi vuol far morire quel prete comunista? No,
Maria, lasciamo stare, chiamasse la neuro o portasse quelle due in ospedale!»,
un ansimare improvviso le troncò la voce.
“Freddo, vagone,
ferrovia, madre e figlia”, pensò Beatrice e immaginò la scena, come in un film in bianco e
nero. Scolò il residuo di caffè, si accese una sigaretta. Le donne si zittirono
e la fissarono. Quegli
sguardi erano come una puntura di spilli.
Doveva parlare.
Spense la sigaretta. Si mise in piedi. Poggiò il palmo delle mani sul tavolo.
Tossì un paio di volte. Poi alzò la testa.
«Ti ringrazio
per la fiducia, Maria
Nives. Grazie a voi tutte per avermi accolto».
Le signore
sorrisero. Qualcuna commentò con un di niente. Quella dalla corporatura
massiccia restò muta e continuò a fissare Beatrice.
«La missione
dell’associazione, ho letto dallo statuto, è quella di provvedere a chiunque
abbia necessità di essere soccorso, senza esclusioni. Vi leggo l’articolo 4: Per
perseguire gli scopi sociali l’associazione in particolare si propone: a) di
avere attenzione verso situazioni di bisogno presenti sul territorio; b) di
stabilire rapporti personali capaci di educare e far crescere i cittadini in
situazioni di particolare disagio soggettivo e sociale. È evidente, perciò,
che abbiamo l’obbligo morale di andare a rione Ferrovia, parlare con le donne,
ascoltare le loro ragioni e convincerle ad accettare l’accoglienza».
«E secondo te è
così facile? Si vede che non conosci questi soggetti. Se vuoi andare,
padrona!», brontolò la donna corpulenta. La sedia, sotto di lei, emise un
rumore come di lavagna graffiata dal gesso.
«Se non
dovessimo riuscire, pazienza, abbiamo provato! Non sappiamo nulla, se non
quello che ha detto il parroco a Maria Nives. Almeno bisogna rendersi conto
della situazione», replicò Beatrice. Aveva il collo sudato. “Peggio che una
compravendita di lampade Schneider”, pensò.
Maria Nives
approvò con un impercettibile cenno del capo.
«Io dico che
tentar non nuoce», commentò la donna dal viso abbronzato e si mise a
rosicchiare un biscottino al cioccolato.
«E se fosse per
far parlare ancora della Newchemistry? Io non mi fido di quel prete!», disse la
signora dalla schiena storta.
«Figurati, è
tutto morto e sepolto. Chi se la ricorda più», s’intromise di nuovo la donna
corpulenta.
Beatrice guardò
Maria Nives. Poi l’altra. Strinse gli occhi. Voleva capire. Ma la cugina alzò
le spalle.
«Nel nostro
statuto è scritto che la carità è la nostra missione e quindi credo che
dobbiamo aiutare don Vittorio», Maria Nives calcò la voce sulla parola carità.
«Chi è d’accordo? Per alzata di mano, su, così chiudiamo la seduta!».
Alzarono tutte
la mano, alla fine. Nessuna voleva fare un torto all’altra.
«Ecco il numero
di telefono del parroco, Beatrice. Puoi chiamarlo anche subito. E poi tra
qualche giorno, ci riferirai. Da questo momento sei libera di fare quanto di
meglio credi, in nome nostro».
Qualcuna delle
signore sorrise.
«Bene, direi che
la riunione è finita», respirò infine soddisfatta Maria Nives.
Le donne non
ascoltavano più. Avevano tirato fuori dalle borse i cellulari e cominciato di
nuovo a chiacchierare. Ogni borsa, notò Beatrice, aveva stampato sulla fibbia
il nome dello stilista. Ogni mano aveva, oltre alla fede, almeno due anelli con
brillanti.
Una giovane
cameriera levò dalla tavola le tazze, i piattini, il vassoio d’argento e li
posò su un carrello. Andò in cucina, poi ritornò in sala e vuotò la ceneriera.
Le donne spostarono le borse, tenendole strette per il manico. La giovane
cameriera rullò il pulisci briciole, poi coprì la tavola con un panno verde,
prese dal cassetto del trumeau due scatole di legno, un blocchetto,
varie matite e le poggiò.
Maria Nives guardò
l’orologio. Le sei del pomeriggio. Propose alle amiche una partita a burraco.
Quelle accettarono in coro e subito furono pronte intorno al tavolo, chi a
mescolare le carte, chi a segnare i nomi delle coppie sui blocchetti.
Beatrice non
amava il gioco di carte e si congedò.
Cercò,
sull’appendiabiti all’ingresso, il cappotto blu con il collo di velluto
appartenuto alla madre, infilò lo zainetto sulle spalle, sorrise a ogni stretta
di mano. La giovane cameriera l’accompagnò alla porta. Maria Nives raggiunse la
cugina sul pianerottolo, mentre aspettava l’ascensore. Aveva in mano la matita
per segnare i punti al burraco.
«Mi dici dove le
hai trovate quelle tipe?».
«Queste sono,
mia cara, inutile recriminare. Pensa a fare bene il tuo lavoro e vedrai come cambieranno
atteggiamento», rispose Maria Nives e si avvolse nella morbida stola di lana.
«Devo andare, mi
stanno aspettando», sussurrò. Le porse la guancia da baciare.
Beatrice si chinò rigida e l’abbracciò. La matita dalle mani di
Maria Nives s’infilò nella stola, scivolò e cadde a terra.
La parola alla Giuria
Uscito in una collana editoriale tutta al femminile e d’impegno intersezionale – Cantastorie – azzurro amianto è un libro necessario. È un romanzo “militante” questo di Emilia Bersabea Cirillo. E l’aggettivo è da intendersi come voler dare spazio alle passioni su tutto, alle ragioni della storia, alla curiosità intellettuale, al rigore delle ricostruzioni, alla sensibilità come motore portante. E senza mai perdere la grande fascinazione espressiva e la fluidità narrativa. Azzurro amianto è una storia di un nucleo familiare che si annoda ad un capitolo di una grande ferita umana e sociale: lo scandalo dell’amianto dell’Isochimica di Avellino che negli anni 80 fu causa di morti e migliaia di ammalati a causa dell’amianto. Una pagina di storia che ancor oggi crea dolore e rabbia. E il romanzo della Cirillo s’addentra in questo spaccato sociale con uno stile letterario raro, cromatico, raffinato e capace di disegnare la storia di due donne che vogliono giustizia. E dove tutto viene rafforzato da una scrittura che racchiude in sé diversi stili e livelli espressivi. E dove il privato s’incontra e scontra con il politico. E dove l’intimo esplode in pagine che sono magnifici ritratti di donne umiliate e offese ma sempre combattenti.
Con azzurro amianto l’autrice irpina continua il suo percorso di narratrice abitata da una duplice radice portante (“radice” già evidente nei suoi precedenti Una terra spaccata del 2010 e Non smetto di aver freddo del 2016): in primis una scrittura totalmente al femminile e poi il riconoscersi nello sguardo asciutto e rigoroso della miglior letteratura contemporanea civile italiana (penso a Sciascia, Volponi, Collura…). Infine questo romanzo (capace di raccontare ora l’asprezza e ora la sensualità) non dimentica mai l’orizzonte del poetico di chi sa nutrirsi di natura e di bellezza come il lento contemplare “il sole posarsi lentamente sul mare”…
Alfonso Amendola
Multimedia
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