Con tanto affetto ti ammazzerò

Pino Imperatore

Con tanto affetto ti ammazzerò

Secondo premio Narrativa edita XXXVI edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2019

Descrizione

L’ispettore capo Gianni Scapece del commissariato di Mergellina, fine indagatore e rubacuori per amore, era un seguace della scuola di pensiero che sosteneva l’esistenza di una proporzionalità diretta fra gli eventi mondani e il rigonfiamento delle sfere. Feste, festicciole, party, buffet: li riteneva molesti al pari di una tribù di acari. Memorabile, nella sua schiva esistenza, l’episodio che lo aveva visto contumace in occasione del compleanno di Ursula, una sua fidanzata transitoria. Pur di assentarsi alla serata danzante organizzata per la ricorrenza, aveva accampato la scusa di una imprevista trasferta nella regione del Mar Morto per non meglio precisate ragioni spionistiche e investigative.


«La sicurezza della nazione è nelle mie mani, non posso tirarmi indietro» aveva comunicato con tono solenne.
Quando la festeggiata aveva scoperto che Scapece il Mar Morto lo aveva raggiunto con un tuffo sul divano di casa, lui si era giustificato dicendo che la missione era saltata in seguito al ritrovamento di una bomba a bordo dell’aereo su cui avrebbe dovuto viaggiare.
«Ah, sì?» era stato il commento di Ursula, campionessa intercontinentale di kickboxing e poco tollerante alle balle. «La bomba la faccio esplodere io!» E gli aveva mollato un diretto allo stomaco e un calcio nel fegato, annunciandogli a viva voce la fine della loro relazione.
Sia pur dolorante, l’ispettore aveva gradito: da alcuni giorni si stava scervellando su come interrompere la liaison. I vincoli sentimentali di lunga durata erano un’altra bestia nera da cui si teneva alla larga.

L'autore

Con tanto affetto ti ammazzerò

Pino Imperatore è nato a Milano nel 1961 da genitori emigranti napoletani e vive in Campania dall’infanzia. Ha vinto i maggiori premi italiani per la scrittura umoristica ed è autore di opere teatrali, racconti, saggi umoristici e romanzi bestseller. Con DeA Planeta ha pubblicato Aglio, olio e assassino e Con tanto affetto ti ammazzerò, di cui sono protagonisti Scapece, Improta e i Vitiello.

La parola alla Giuria

Pino Imperatore non è solo l’inventore di quel nuovo genere che potremmo definire “il noir comico in salsa napoletana”, ma uno scrittore capace di veicolare nei suoi libri la complessità e la varietà della cultura partenopea. “Con tanto affetto ti ammazzerò” ne è un esempio: il paesaggio incantevole di Posillipo, come in un quadro verbale, fa da sfondo alle vicende del protagonista. L’ispettore Gianni Scapece è arguto e indolente, esteta estemporaneo e filosofo pratico. Le sue indagini, omicidi e colpevoli a parte, sembrano quasi un pretesto per sfoderare saggezza, ironia, battute di spirito, aforismi e lezioni di vita che costituiscono l’essenza della napoletanità. Le situazioni drammatiche si sdrammatizzano, quelle comiche celano un fondo di malinconia e di serietà. Il risultato, attraverso un romanzo “gustoso” e mai banale, non è solo esilarante ma offre un originale condensato di meridionalità.
Concita De Luca

Leggi il primo capitolo

1 La quiete prima della tempesta

L’ispettore capo Gianni Scapece del commissariato di Mergellina, fine indagatore e rubacuori per amore, era un seguace della scuola di pensiero che sosteneva l’esistenza di una proporzionalità diretta fra gli eventi mondani e il rigonfiamento delle sfere. Feste, festicciole, party, buffet: li riteneva molesti al pari di una tribù di acari. Memorabile, nella sua schiva esistenza, l’episodio che lo aveva visto contumace in occasione del compleanno di Ursula, una sua fidanzata transitoria. Pur di assentarsi alla serata danzante organizzata per la ricorrenza, aveva accampato la scusa di una imprevista trasferta nella regione del Mar Morto per non meglio precisate ragioni spionistiche e investigative.
«La sicurezza della nazione è nelle mie mani, non posso tirarmi indietro» aveva comunicato con tono solenne.
Quando la festeggiata aveva scoperto che Scapece il Mar Morto lo aveva raggiunto con un tuffo sul divano di casa, lui si era giustificato dicendo che la missione era saltata in seguito al ritrovamento di una bomba a bordo dell’aereo su cui avrebbe dovuto viaggiare.
«Ah, sì?» era stato il commento di Ursula, campionessa intercontinentale di kickboxing e poco tollerante alle balle.
«La bomba la faccio esplodere io!» E gli aveva mollato un diretto allo stomaco e un calcio nel fegato, annunciandogli a viva voce la fine della loro relazione.
Sia pur dolorante, l’ispettore aveva gradito: da alcuni giorni si stava scervellando su come interrompere la liaison. I vincoli sentimentali di lunga durata erano un’altra bestia nera da cui si teneva alla larga.
Eppure quell’ultima sera di gennaio, malgrado le resistenze e le riluttanze che covava nell’animo, per la prima volta nella storia delle sue uscite pubbliche Scapece si divertì, e pure molto; non per proprio merito o intento, bensì per il manifestarsi di favorevoli congiunzioni astrali e materiali.
Il fascino del posto, innanzitutto: Villa Roccaromana, meravigliosa dimora di Posillipo a picco sulle onde del golfo di Napoli; un luogo di delizie il cui simbolo, visibile soltanto dal mare, era una torretta col tetto a pagoda.
E poi la raffinatezza della padrona di casa, di cui si festeggiava il novantesimo genetliaco: la baronessa Elena De Flavis, donna di classe e di garbo, ultima discendente della casata dei baroni di San Pizzo, due volte vedova e per cinque volte insignita del titolo di “Filantropa napoletana dell’anno”.
Era stata lei in persona a chiedere, tramite un biglietto d’invito e una cordiale telefonata, la presenza di Scapece e del suo capo, il commissario Carlo Improta. A dicembre i due erano saliti agli onori della cronaca per aver concluso, con azioni brillanti e rocambolesche, un’indagine che aveva portato alla cattura di un feroce serial killer, e la baronessa, dotata di uno spiccato senso della giustizia, si era riproposta di conoscerli alla prima occasione utile.
«Siamo diventati delle star» aveva sentenziato Improta quando aveva ricevuto il biglietto, scritto a mano dalla De Flavis su carta di Amalfi in bella grafia e chiuso in una busta con tanto di sigillo in ceralacca.
«Commissario, io non vengo» aveva dichiarato Scapece. «Mi scoccio.»
«Gianni, non fare il bambino. Ci sarà pure il questore.» «E quindi?»
«E quindi niente: ci dobbiamo andare e basta. Rifiutarsi
sarebbe una figuraccia.» «Ma ci faremo due palle!» «Saranno palle nobiliari.»
La baronessa li accolse nel grande salone della villa con tutti gli onori: «Sono felice che abbiate accettato. Grazie a uomini come voi, la nostra città si ammanta di purezza. Complimenti per il vostro coraggio e la vostra intelligenza».
«È nostro dovere lavorare per il bene di Napoli» si schermì Improta facendole il baciamano e omaggiandola di un fascio di rose rosse così voluminoso da occultargli metà corpo, dal bacino alla punta del naso.
Il commissario, poco più che sessantenne, non aveva un fisico da passerella; era tracagnotto, compatto, tutto muscoli e nervi; il naso schiacciato lo faceva assomigliare a un pugile a fine carriera o, nei momenti di pessimo umore, a un bulldog.
Scapece, di una ventina d’anni più giovane, aveva tutt’altre fattezze: corpo atletico, viso da macho, occhi color argento, capelli neri spruzzati di bianco sulle tempie e un sorriso in cui la gioia di vivere si fondeva con la malinconia.
Elena De Flavis ne restò colpita: «Ispettore, mi erano giunte notizie del suo charme e io ne avevo preso atto con riserva. Non mi fido delle opinioni e dei giudizi altrui; preferisco verificare in prima persona. Ora posso confermarlo: lei è un uomo incantevole».
Scapece abbozzò un garbato inchino. «Troppo buona, baronessa. La sua gentilezza è pari alla sua grazia.»
«Fra le sue doti c’è pure la galanteria?»
«Ho ricevuto una buona educazione» rispose l’ispettore. Improta, che adorava e proteggeva Scapece come un figlio
e lo reputava un suo pupillo, si intromise: «Fa il modesto, ma è uno dei poliziotti più in gamba d’Italia».
«Non ne ho dubbi» affermò la baronessa. «La vera virtù dei forti non è la calma ma l’umiltà. Lei, commissario, deve ritenersi un privilegiato ad averlo al suo fianco. Insieme formate una coppia investigativa fuori dal comune. E, a quanto vedo, siete anche ben addestrati in fatto di eleganza.»
Scapece indossava un completo nero con cravatta, gilet e pochette da taschino. Improta un blazer a quadri con risvolti a lancia, in mezzo ai quali spiccava un papillon rosso lampone.
All’occhietto vispo della baronessa non sfuggiva nulla. Magra, di media statura, il naso all’insù, dimostrava un’età di gran lunga inferiore a quella anagrafica. Per la serata aveva scelto un abito damascato blu notte su cui luccicava una collana di perle.
«Servitevi pure» disse indicando i tavoli imbanditi nel salone. «Siete miei invitati speciali, mettetevi a vostro agio. Ho scelto con cura gli ospiti e sono sicura che ne troverete di interessanti con cui fare amicizia e conversare. Questa sarà la mia ultima festa di compleanno; voglio che tutto vada per il meglio, come è giusto che sia.»
«Perché questo pessimismo?» chiese Improta. «Noi le auguriamo di vivere in salute almeno fino a cent’anni. Anzi fino a centocinquanta. E di godersi lo splendore di una casa straordinaria.»
«Villa Roccaromana appartiene alla mia famiglia da molte generazioni» dichiarò la baronessa. «Io ho quasi sempre vissuto qui, fin dalla nascita. Questa residenza è stata la mia culla e il mio fortino; mi ha protetta, mi ha allietata, mi ha tenuta al riparo dalle tempeste della vita. Ora però è venuto il momento di tirare i remi in barca; gli anni dell’ardore sono lontani. È cosa saggia riposarsi, quando la debolezza si fa onerosa e i ricordi sono fuor di misura. Essere vecchi è un brutto mestiere.»
Alla baronessa si appressò un uomo sulla settantina dal colorito olivastro e con un sorriso smagliante, che la liberò del mazzo di rose consegnatole da Improta e le bisbigliò qualcosa in un orecchio. La signora annuì.
«Kiribaba, mio fedelissimo maggiordomo, mi richiama al dovere» disse. «Devo momentaneamente lasciarvi per andare incontro ad altri ospiti in arrivo. Che sia per voi una indimenticabile serata, caro commissario e caro ispettore.»
Sottobraccio al maggiordomo, la De Flavis voltò i tacchi e si allontanò.
«Simpatica, lesta d’ingegno e misteriosa» disse Scapece. «Ai suoi tempi dev’essere stata una donna fantastica.»
«Lo è ancora» replicò Improta. «Se anch’io dovessi arrivare ai novant’anni nelle sue condizioni, organizzerei una mega festa con annesso spettacolo di fuochi pirotecnici a mare.»
«Io accenderei le micce e le farei da paggetto.»
«Sì, con una pettinatura a caschetto» precisò il commissario. «Guarda, sta entrando il questore, andiamo a salutarlo. E dopo, casomai dovessi perderti di vista, fa’ il bravo. Non bere troppo e non molestare le fanciulle presenti.»
«Sul primo avvertimento mi sforzerò di accontentarla. Il secondo non lo prendo proprio in considerazione.»
Alla festa c’erano i tre figli della baronessa, Roberto, Emilia e Simone, e quasi duecento invitati; tutti in tiro, tutti gaudenti.
Il salone era finemente arredato: stucchi e affreschi sul soffitto, ritratti su tela e gouaches della Scuola di Posillipo alle pareti, poltrone e divani in legno intarsiato, un pianoforte nero a coda, sculture in ceramica, candelabri d’argento, specchiere, tappeti pregiati. In alto, su una fascia decorata, una scritta in latino:
in mundo veritas
“Sembra di stare in un quadro dell’Ottocento” pensò Scapece.
Alcuni camerieri, in giacca coreana bordeaux con spalline dorate, erano dietro i tavoli da buffet; altri giravano fra gli astanti con ampi vassoi, offrendo da bere e da mangiare. La gamma di scelta era talmente ampia da far scattare sull’attenti le papille gustative: tartine al caviale e gamberetti in salsa rosa, sauté di cozze e vol-au-vent con crema di ricotta e noci, polpettine di melanzane e arancini di riso, mozzarelline di bufala e polpi al limone. E ancora: salmoni affumicati, seppie all’insalata, ostriche al limone, astici alla catalana, scampi al vapore, capesante al gratin, moscardini con le fave, ortaggi pastellati, prosecchi, spumanti, succhi di frutta.
Scapece assaporò, ingerì, sorseggiò; la buona cucina era una delle sue passioni. Dialogò, strinse mani, fece battute. Si complimentò e ricevette lodi, concentrando la propria attenzione sulla variegata platea femminile, che comprendeva nubili e maritate, single e divorziate, donne conturbanti e giovinette pimpanti.
A un certo punto si estraniò dalle lusinghe, cavò dalla giacca una lente d’ingrandimento – sua inseparabile compagna da quando, poco più che ragazzo, aveva raggiunto l’Inghilterra per ripercorrere le orme del suo personaggio letterario preferito, Sherlock Holmes – e si chinò per osservare, in un angolo del salone, i dettagli di un antico mappamondo. Facendolo ruotare da un oceano all’altro, osservò isole, mari e terre emerse e avvertì la beatitudine che provano gli astronauti quando ammirano il globo terrestre dallo spazio.
Non appena tornò in posizione eretta, percepì nelle narici un profumo inebriante. Si voltò e, come sempre gli capitava quando i suoi sensi avevano accesso a una bellezza rara, restò inebetito. Al suo cospetto c’era una donna i cui tratti esprimevano una sintesi perfetta fra l’Oriente e l’Occidente: occhi a mandorla, pelle ambrata, labbra carnose, una chioma nerissima e curve sinuose fasciate, dai seni ai polpacci, da un tubino rosso aderentissimo.
«Ciao» esordì l’apparizione. «Sei il famoso Gianni Scapece?»
«Tu che ne pensi?» riuscì a rispondere l’ispettore mentre sentiva transitare un brivido di piacere dall’emisfero boreale all’emisfero australe del suo corpo.
«Penso di sì.»
«Indovinato. Ma non sono famoso.»
«Cosa stai osservando? Ti piace la geografia?»
«Mi piace il mondo.»
«Io sono Naomi, nipote della baronessa; la sua unica nipote. La lente d’ingrandimento la porti sempre con te?»
«È la mia arma d’ordinanza.»
«Quindi è vero, come mi hanno detto, che non hai una pistola?»
«Ce l’ho, ma in cassaforte. Un po’ arrugginita.» «Perché non la usi?»
«Preferisco avvalermi del cervello.»
«Non hai paura?»
«Conosci qualche essere umano che non abbia paura?» «Però tu sei un poliziotto.»
«Proprio per questo adopero armi alternative a quelle dei
criminali.»
Un musicista si sedette al pianoforte e attaccò le note della
romanza Nessun dorma di Puccini, eseguita alla voce da un tenore in frac.
«Andiamo fuori a fare quattro chiacchiere?» propose Naomi. «Non fa tanto freddo.»
«Andiamo» accettò Scapece incrociando lo sguardo di Improta, che lo fissò con severità stringendo le labbra e facendo oscillare la testa come un pendolo. L’ispettore gli spedì un bacio con una mano.
Nonostante il buio, dalle terrazze panoramiche della villa si scorgevano i profili del Vesuvio, della penisola sorrentina e di Capri. Sul mare brillavano i fanali di navigazione di alcune imbarcazioni. La luna era coperta da un ammasso di nubi.
«Qui si fa pace con l’universo» disse Scapece.
«E con se stessi» aggiunse Naomi. «Quando ho bisogno di serenità o devo prendere una decisione importante, vengo qua e tutto si risolve.»
«Che lavoro fai?»
«Ho una galleria d’arte.»
«Dove?»
«A Positano.»
«Abiti lì?»
«No, laggiù, a Sorrento» rispose Naomi puntando un dito
verso la sua sinistra. «E tu?»
«Nel quartiere in cui sono nato: Mergellina. Ci sono tornato da qualche mese.»
«Prima dove sei stato?»
«Per quasi vent’anni ho fatto il nomade su e giù per l’Italia, tra commissariati e questure. Firenze, Bologna, Reggio Calabria, Bari, Roma.»
«Sei sposato?»
L’ispettore sollevò le mani. «Mai avuto il dispiacere.» Naomi sorrise. «Nemmeno io.»
«Sul serio? Pensavo che avessi almeno tre mariti e uno
stuolo di figli e nipotini.»
«Ti sembro così vecchia? Ho trentaquattro anni.» «Scherzavo. Te ne darei una decina di meno.»
«Grazie. Sei galante.»
«Poco fa me l’ha detto anche tua nonna. Che bella scoperta: è una donna davvero intrigante.»
«La adoro. Ne ha viste tante nella vita, e ne è uscita sempre vincente. È l’incarnazione della generosità e dell’ingegno. Non ha mai ostentato la sua ricchezza, anzi l’ha messa a disposizione di chiunque ne avesse bisogno. Ha un cuore grande quanto questo mare.»
Arrivò un cameriere con dei calici di vino rosso; Naomi e Scapece si servirono e brindarono.
«Ti confesso che a questo ricevimento non volevo partecipare» disse l’ispettore. «Sono venuto per fare contento il mio capo, che ci sarebbe rimasto male. Le circostanze di questo
genere mi deprimono; preferisco restarmene a casa ad ascoltare jazz oppure a leggere, o a curare le mie piante grasse. Stasera, però, ho dovuto ricredermi: l’atmosfera del posto, tanta bella gente, i cibi buoni, tua nonna. Poi sei apparsa tu a chiudere il cerchio. Perdonami la domanda indiscreta: da chi hai ereditato i tratti somatici orientali?»
«Io sono come quella torretta a pagoda» rispose Naomi mostrando il simbolo architettonico della villa. «Mezza napoletana e mezza asiatica. Mio padre è giapponese. Ha insegnato in Italia e all’università di Kyoto; ora è in pensione. Ogni volta che posso, lo vado a trovare. È un uomo eccezionale.»
«I tuoi non vivono insieme?»
«Si sono lasciati una decina d’anni fa.»
«Vivi con tua madre?»
«Nella stessa villa, ma in due appartamenti autonomi. Il
nostro non è un rapporto idilliaco; siamo incompatibili.» «Lo so che è poco confortante dirlo, ma almeno tu i genitori ce li hai ancora.»
«Tu no?»
«Sono deceduti entrambi, quattro anni fa.»
«Mi dispiace tanto» sussurrò Naomi stringendogli un braccio. «Ogni volta che mi capita di parlare di morte, entro in uno stato di ansia.»
«Cambiamo argomento, allora.»
Un lampo illuminò l’orizzonte.
«Temporale in arrivo!» annunciò l’ispettore.
D’istinto, Naomi alzò gli occhi verso l’alto e intravide, sul
balcone del piano nobile della villa, due sagome.
«Che ci fanno lì la nonna e Kiribaba?» si chiese. Scapece sollevò la testa per guardare.
Un attimo dopo, dal salone giunsero urla agghiaccianti.


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