
Alberto Raffaelli
Delitto al caffè Pedrocchi
Le inchieste del viceispettore Zanca
Premiato
con Targa nella XXXVIII edizione del "Premio Città di Cava de’
Tirreni" – anno 2022
Descrizione
Una sera di metà novembre il noto professor Visonà viene trovato morente nei bagni dello storico Caffè Pedrocchi di Padova. Mentre i giornali sostengono la tesi del suicidio, il viceispettore Zanca inizia a indagare tra le nobili sale del Caffè Pedrocchi, le aule dell’Università, la periferia della città e la Basilica del Santo, misteriosamente frequentata dal professore. Si addentra così nelle stanze segrete del discusso docente tra il mondo ignoto della fisica quantistica e le vicende dei numerosi personaggi che hanno incrociato il loro destino con quello di Visonà, in un susseguirsi di scenari e risvolti inaspettati.
Il romanzo è un’indagine su una vita o, per meglio dire, sulla vita, come confessa una sera a sé stesso il viceispettore Zanca.
«In fondo è ciò che ognuno, presto o tardi, è costretto a fare con la propria vita, quando una fatalità, o qualcos’altro, lo costringe ad andare a ritroso per cercare il segreto della sua esistenza, quell’unica cosa necessaria che aveva smarrito, dimenticato o di cui non si era mai interessato».
L'Autore
Alberto Raffaelli è nato a Rovereto (TN) nel 1959. Si è
laureato in filosofia a Venezia e ha insegnato per alcuni anni in diversi
istituti superiori del Veneto . Ha poi lavorato in varie aziende private.
Sposato con cinque figli, vive a Padova e da alcuni anni dirige la scuola
professionale di ristorazione di Valdobbiadene (TV). E’ autore dei romanzi
gialli L’osteria senza oste e Il maestro vetraio che hanno come
protagonista il viceispettore Zanca.
Leggi l'incipit
Mercoledì della prima settimana
Gli ultimi squarci di Venezia erano scivolati via, inghiottiti dal finestrino.
Il groviglio di tralicci si era pian piano diradato e il treno, a fiacchi
strattoni, aveva preso velocità.
Quella mattina di metà novembre Giovanni Zanca era arrivato appena
in tempo alla stazione e si era infilato sul vagone in testa al binario
proprio al fischio del capotreno. Attraversate alcune carrozze, aveva
preso posto nell’angolo di uno scompartimento. Pochi sedili più in là alcune
studentesse ridacchia vano fra loro, mentre più avanti un tipo in giacca e
cravatta lavorava con il tablet.
L’acqua della laguna, increspata dalla brezza, brillava di in
finiti schizzi di luce. All’orizzonte, sbiadito dal biancore della foschia,
baluginava il profilo un po’ tozzo del campanile di Torcello; poco
distante, l’ombra scura e frastagliata dell’isola di Burano.
Il viceispettore attese che il treno si lasciasse alle spalle
il reticolo di binari della stazione di Mestre, quindi aprì la car tellina
che teneva sulle ginocchia e ne estrasse il ritaglio di un quotidiano di
Padova che riprendeva la notizia di una disgrazia avvenuta qualche giorno
prima.
Un professore universitario, tale Eugenio Visonà, era stato
ricoverato nel reparto di rianimazione in condizioni gravissime e versava tra
la vita e la morte: nel suo organismo era stata riscontrata una quantità
potenzialmente letale di sostanze tossiche. Si era trattato con ogni probabilità
di un gesto estremo dovuto a una disastrata situazione finanziaria.
L’articolo era corredato da una piccola foto che ritraeva un tipo non troppo alto,
sulla sessantina, con dei baffi grigi, attorniato da alcuni studenti.
Zanca rimase a osservare la foto, poi richiuse la cartellina e tornò
a guardare fuori dal finestrino. Ripensò alle parole del comandante, il
giorno prima, al commissariato San Marco:
«Non so perché, ma il giudice del tribunale di Venezia ha chiesto
espressamente di lei. Si tratta di una indagine informale che in questa
fase deve rimanere del tutto riservata».
Il comandante aveva rigirato tra le mani l’ordine di servizio prima
di consegnarglielo.
«Nell’informativa che mi ha fatto avere, il giudice precisa che
la segnalazione gli è giunta dal primario del reparto di rianimazione dell’Ospedale
Giustinianeo di Padova, il professor Nigro. Le consiglio di andare a
trovarlo. Gli chieda quali sono i suoi sospetti e provi a farsi
un’idea.»
Da quando si era conclusa l’ultima inchiesta che gli era stata affidata,
relativa a una storia di corruzione nei palazzi del potere di Venezia, al
viceispettore erano state assegnate solo mansioni di routine. Sentiva
pesare attorno a sé un alone di diffidenza e aveva la netta sensazione che
negli ambienti del commissariato i suoi colleghi lo evitassero. Qualcuno
si lasciava andare di tanto in tanto a una pacca sulla spalla, come si fa con
uno che sta passando un brutto momento. Lui ne soffriva, sapeva di essere finito
in una fossa da cui sarebbe stato difficile uscire.
Forse quell’incarico inaspettato fuori Venezia era l’occasione per
cambiare aria.
Una volta arrivato a Padova, percorse il lungo sottopassaggio,
risalì all’aperto e diede un’occhiata all’orologio che si affacciava sul
piazzale della stazione. Quella città la conosceva bene, ci aveva vissuto
alcuni anni quando, da giovane, vi aveva frequentato l’università.
“C’è tempo” borbottò fra sé, e si avviò a piedi.
Venti minuti più tardi giungeva davanti all’imponente mole del
Giustinianeo, l’edificio più antico dell’ospedale, e varcava l’arco di
pietra che immetteva in un grande chiostro. Sotto il porticato che girava
tutto attorno, alcuni anziani camminavano senza dirsi nulla. Un dottore
dall’aria trasandata fumava appoggiato a una colonna.
«Il reparto di terapia intensiva è al primo piano» gli rispose l’infermiere
a cui si era rivolto. «Prenda le scale là in fondo.» Seguì la freccia che
indicava l’ingresso del reparto finché si ritrovò di fronte a una porta di
vetro oscurato con accanto alcune poltroncine attaccate al muro, ormai usurate
dal tempo. Un cartello avvisava che le visite e i colloqui con i medici
potevano avvenire solo dalle sei alle sette di sera.
Vi era un campanello con la scritta Solo per urgenze, provò
a suonare. Di lì a poco la porta si socchiuse e si affacciò
un’infermiera.
«Sono il viceispettore di polizia Zanca…»
«Venga, il professor Nigro la sta aspettando.»
Oltrepassata la soglia, si trovò in un ambiente dai rumori ovattati
e saturo di odori di medicine. Dopo pochi minuti sopraggiunse un uomo tra i
sessanta e i settant’anni, di bassa statura, capelli bianchissimi, baffi appena
accennati e occhi vispi, luccicanti, del colore dell’acqua.
«Mi scusi se ho richiesto la sua presenza qui in fretta e
furia. Sa, nel nostro ambiente a volte anche i minuti sono
importanti. Andiamo di là, nel mio ufficio.» I gesti del professore erano cortesi
ma sbrigativi e non lasciavano spazio alle formalità.
La stanza era piuttosto spoglia, arredata solo con un piccolo tavolo
e una poltroncina in un angolo. Da dietro una porta giungeva il ticchettio
delle macchine che tenevano in vita i pazienti.
«Si accomodi» disse il professore indicando una sedia. «For se lei
avrà letto qualcosa su Eugenio Visonà, la sua vicenda ha avuto un certo
risalto sui quotidiani locali. Cinque giorni fa è arrivato qui in
condizioni disperate. Era stato trovato agonizzante nei bagni del Caffè
Pedrocchi. Quando lo abbiamo ricoverato era in preda a forti tremori che gli
impedivano qualsiasi movimento. I primi esami hanno evidenziato un grave stato di
avvelenamento. Ora è sedato, in coma farmacologico. Fin da subito è
sembrato un tentativo di suicidio dovuto all’ingestione di cianuro di potassio:
una fiala contenente residui di questa sostanza è stata trovata nella sua
tasca.»
Il professor Nigro fissò il viceispettore e attese un istante prima
di riprendere la parola. «Eppure ci sono degli aspetti di questo
avvelenamento che mi lasciano parecchio perplesso. Vede, se un uomo
ingerisse anche solo una piccola quantità di questa sostanza, morirebbe in
breve tempo. Ma la fiala era quasi vuota: dov’è finito il resto del
contenuto? Si potrebbe ipotizzare che il professore abbia avuto un
ripensamento men tre ingeriva la fiala, ma è un’ipotesi parecchio remota.
Poi ci sono altri due particolari che mi hanno insospettito. Il primo:
sulle braccia e sul collo di quest’uomo abbiamo trovato delle ecchimosi,
come se avesse avuto una colluttazione. Il secondo: in tasca teneva l’esito di
un esame della vista effettuato quella mattina stessa. È davvero strano
che una persona vada a fare il controllo della vista qualche ora prima di suicidarsi,
non le sembra?»
Seguì ancora una breve pausa.
«Questi dubbi li ho condivisi con il giudice Bisanti, con cui collaboro
spesso in qualità di perito del tribunale di Venezia. Con gli anni
abbiamo stretto amicizia e ogni tanto ci troviamo a cena, insieme alle nostre
consorti. Ci siamo visti proprio questo fine settimana e gli ho parlato
del caso. È stato Bisanti a suggerirmi di rivolgermi a lei, mi ha detto
che vi siete conosciuti diversi anni fa per una vicenda successa a
Tarvisio.»
«Il nome Bisanti mi dice qualcosa…» Il viceispettore abbassò gli
occhi per darsi il tempo di frugare nella memoria. «Sì,» disse alla fine,
«adesso ricordo. È stato più di trent’anni fa. Il caso di Tarvisio… da
allora non ci siamo più visti.»
«Il giudice Bisanti si è proposto di richiedere una indagine informale
prima di mettere in campo la Procura o la Questura di Padova. Mi ha
assicurato che lei è la persona giusta per questo tipo di faccende.»
«Le confesso che non so da dove derivi tutta questa fiducia.
In ogni caso il comandante mi ha assegnato una decina di giorni per raccogliere
elementi per una possibile apertura formale delle indagini. Intanto avrei
bisogno di qualche informazione su questo professore.»
«Le posso dire quel poco che so. Eugenio Visonà insegna all’università,
qui a Padova, occupa una cattedra della facoltà di fisica. Vive da solo, è
separato e non ha figli. In tutti questi giorni a interessarsi delle sue
condizioni è stata solo la sua ex moglie, una dottoressa che lavora qui in
ospedale. Si è fatta viva un paio di volte e si tiene informata tramite un
mio assistente. Per quanto mi riguarda, mi sento in obbligo di cercare di
capire cos’è successo a quest’uomo. Vede, quando sono di fronte a un
paziente, mi chiedo sempre: “Se toccasse a me?”».
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