Dieci piccoli indigeni

Patrizio Fiore

Dieci piccoli indigeni

ovvero i giallini napoletani

Homo Scrivens - 2017

Premiato con Menzione di merito alla XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018

Descrizione

Un ingegnere che approfitta di una Pianura in via di edificazione, un giovane medico che riceve un pericoloso regalo di laurea, un direttore d’orchestra alle prese con uno spartito molto particolare, un giornalista che scopre che il suo cane è uno strano postino, il gallerista che nasconde un inconfessabile segreto, il vecchio avvocato che aiuta il figlio poliziotto a risolvere due delitti con metodi sbrigativi ma efficaci, dark ladies in grado di decidere le sorti dei propri amanti ed anche un maldestro borseggiatore che collabora a sventare un omicidio. Sono questi alcuni dei personaggi, gli indigeni appunto, che l’autore utilizza per raccontare la propria città. Il modello utilizzato è quello cinematografico del grande Hitckock de La finestra sul cortile solo che questa volta al centro non c’è un palazzo con le storie di chi ci abita ma un’intera città, in cui quelle figure che ne Il Ricamo Mortale erano di contorno diventano protagoniste con i loro pregi e i loro difetti, con il proprio modo, spesso raffazzonato, di parlare o di correlarsi con gli altri personaggi. È il caso del commerciante Giovanni Proconi, presente nel racconto “Schiamazzi notturni”, o dell’attempato ladruncolo Ernesto Pappacoda di “Corrida al terminal”, del deforme ma affettuoso Carluccio di “Zio Carlo” o ancora dello sfortunato suonatore ambulante Giovanni Cuzzo di “Le note insulse”. Accanto a queste figure ci sono altre tipologie ricorrenti: giornalisti, poliziotti, avvocati, medici nonché camorristi, faccendieri, truffatori, uomini politici collusi. E non manca anche lui, Geremia Tolino, alias Attico, agli albori della sua iniziazione giornalista.

L'autore

Dieci piccoli indigeniPatrizio Fiore è un medico sessantenne napoletano con la passione per il giornalismo. Dirigente dell’ASL Napoli 1 Centro dove si occupa di prevenzione e organizzazione sanitaria, da trentacinque anni scrive di medicina e tecnologia sanitaria per quotidiani e riviste.

Booktrailer


Lettura


Leggi il primo capitolo

MAI SCRIVERE PRIMA
Sul fondo della sala al primo piano del bar Roma, a uno dei tavolini con le doghe in legno, Stefano Capece con l’immancabile giornale aperto dinanzi a sé, il bicchierino vuoto di un caffè in una mano e la sigaretta accesa nell’altra, era seduto, come al solito, in attesa. Un familiare rumore di passi affrettati attirò la sua attenzione. Un giovane trafelato gli si avvicinò con aria mortificata: sapeva di essere, come al solito, in ritardo. Ancora con il fiato grosso per le scale salite di corsa, si sedette allo stesso tavolino non prima di aver dato a Capece un foglietto, che questi consultò immediatamente, facendo al contempo un segno al cameriere, che, con un cenno di assenso, si allontanò. Il giovane era lì in attesa del responso oracolare. Non riusciva a star fermo muovendo ritmicamente le gambe. Il cameriere era nel frattempo tornato portando con una mano un ampio vassoio dal quale, con l’altra mano, prelevò poggiandoli sul tavolo, dal lato del ragazzo, prima un panino ripieno e poi una birra mentre all’altro commensale, nell’unico angolino che il giornale aperto aveva lasciato libero, offrì un altro caffè in bicchierino.
«Bravo Peppino!» esclamò Capece rivolto al cameriere «Geremia s’è meritato anche oggi il pane e il companatico che gli hai portato. Tieniti in campana, può darsi che tra poco faremo il bis».
Il cameriere ringraziò con un cenno del capo e si allontanò nuovamente.
«Diretto’» il giovane aveva trovato il coraggio finalmente di parlare «allora ho fatto bene il compito a casa?»
«Geremi’» gli rispose sorridendo Capece «come sempre: le notizie sono ottime, ma tu continui a essere un criminale».
«Diretto’, ma io mi sforzo. Questo foglio l’avrò scritto almeno tre volte prima di portarvelo. L’ho anche letto per sentire se tutto suonava bene».
«E si vede che, oltre a non saper scrivere bene in italiano, non sai neanche suonare. Comunque, a parte le zeta, le esse e le ti che a volte sono poche e a volte troppe, stai facendo grandi progressi. La scuola serale ti è servita, eccome. Mi fa piacere che tu abbia seguito il mio consiglio e spero che tu voglia seguire anche quest’altro: vieni in redazione, tu sei un ragazzo scetato. Con una buona gavetta puoi diventare un bravo cronista. Il fiuto ce l’hai. Capisci al volo quello che ti chiedo. Pensaci, Geremia».
«Diretto’» il volto del ragazzo era raggiante «ma voi pensate veramente che io so’ capace? A me mi piace quello che mi fate fare e se questo mi fa guadagnare pure qualcosa per mangiare, allora pozzo campare felice!»
«Geremi’, però, te lo dico ora: non saranno rose e fiori. Se vieni in redazione, guarda che ti aspetta una dura gavetta. Dovrai cominciare dalle pubblicità e dai necrologi».
«E sai che palle!» si fece scappare istintivamente il giovane, pentendosi poi per quelle parole e cercando subito di rimediare con un: «Scusatemi, diretto’, ma l’idea di stare senza fa’ niente nun me piace».
«E questo è l’errore tuo, ma non solo tuo. Ascolta: se tu facessi l’agricoltore, prima di zappare e seminare, cosa dovresti fare?»
«Non lo so, adesso non mi viene».
«Dovresti conoscere la terra su cui andrai a versare il tuo sudore così da adoperare gli strumenti migliori per ottenere il risultato che vuoi. Ecco, scrivere per un giornale è all’incirca la stessa cosa: devi imparare a dominare gli strumenti che adoperi e in primo luogo le parole. Se scrivi bene, il lettore ti segue. Se scrivi male, chi legge non entrerà mai in sintonia con te anche se si trattasse della Divina Commedia. E, credimi, non c’è nulla di più educativo delle inserzioni pubblicitarie e dei necrologi. In entrambi i casi si utilizzano parole e frasi, spesso scontate, ma che fanno parte del linguaggio abituale perché chi legge deve subito capire. Ma, poi, soprattutto, inserzioni e necrologi, essendo a pagamento, debbono essere sintetici: quindi poche parole per far capire tutto il concetto. Non c’è nulla di più giornalistico. Credimi, chi se ne occupa ha l’opportunità di una palestra di rara efficacia».
Come al solito, il ragazzo guardò l’uomo più anziano con grande rispetto: come era cambiata la sua vita da quando lo aveva conosciuto! E ora poteva cambiare ancora in meglio.
«Ci penserò, diretto’» aggiunse «Voi mi avete dato finora ottimi consigli e credo che vi starò a sentire anche stavolta. Spero solo di imparare presto così poi potrò dedicarmi ad altro».
«Oh, così mi piaci, Geremia. Sei veramente un ragazzo intelligente... e pure affamato» e, intercettato lo sguardo del cameriere, continuò dicendo: «Peppi’, il bis».
Gli occhi del giovane brillarono. In effetti non aveva fatto neanche colazione e la sera prima non aveva potuto aggiungere nulla agli stessi due panini del pomeriggio.
«Diretto’, grazie. Ma oltre ai due panini posso chiedervi un’altra cosa? Perché mi avete mandato a cercare notizie su questa Luisa Condenni? Che cognome strevezo! Non c’è persona più anonima di questa cristiana. Mi sono scocciato scrivendovi cosa ha fatto negli ultimi due giorni».
«Perché la Condenni? Perché questa donna è la dimostrazione lampante di una triste verità: gli uomini sono sedotti dalle apparenze al punto tale che spesso dinanzi ai loro occhi vengono perpetrati i peggiori delitti e neanche se ne accorgono».
«Diretto’, come al solito, non ho capito niente. Se me lo potete spiegare io vi ringrazio: voi sapete che io ho tanta voglia di imparare».
«E io ho tanta voglia che qualcuno cerchi di togliersi le fette di prosciutto dagli occhi e guardi la realtà con le lenti giuste... ah, a proposito di prosciutto, ecco Peppino con il panino bis. Facciamo così: mentre tu ti mangi il panino io ti racconto una storia. Così sono anche più sicuro che tu non mi interrompa con le tue domande a raffica».
Il cameriere, nel frattempo, aveva ripetuto gli stessi gesti di poco prima. Ma questa volta non era stato neanche necessario appoggiare il panino sul tavolo. Il giovane lo aveva preso direttamente dal vassoio. Al contrario, aveva dovuto sgombrare l’angolino del tavolo libero dal giornale, dal lato di Capece, dai due bicchierini vuoti prima di poggiarci quello pieno.
«Dunque» cominciò il giornalista «non è il caso di fare nomi perché siamo in un luogo pubblico e i fatti sono abbastanza noti in certi ambienti. Allora diciamo così: c’è un ingegnere... dagli tu un nome».
«È uno buono o cattivo?»
«Diciamo che non è proprio un modello di virtù». «Diretto’, diciamo, papale papale, che è nu fetente, nu malamente. E allora ci vuole un nome antipatico: uhm... Ubbaldo, sì chiamiamolo Ubbaldo. Io questo nome l’ho sentito una volta solamente e mi è diventato subito antipatico!»
«Ubaldo e non Ubbaldo. D’accordo, allora, vada per Ubaldo. Il nostro ingegnere è un tipo scaltro, senza scrupoli. È uno di quelli che per primo ha capito che la zona di Pianura può diventare una miniera d’oro. Ubaldo sa quello che si deve fare, ma non ha i mezzi per farlo. Allora che fa? Senza crearsi troppi scrupoli, sposa la figlia di un tizio che, guarda caso, ha una notevole quantità di terra proprio nell’area edificabile di Pianura. La ragazza è una bella paesanotta, ha studiato ma non molto: per il padre il matrimonio con un laureato, per di più ingegnere, di bella presenza, con ampie possibilità di metter su una attività redditizia, sembra un terno al lotto. Anche per la figlia il matrimonio va bene: in definitiva Ubaldo non è da buttare. I due si sposano. Ubaldo, però, fa capire alla moglie che per i contatti che ha non può portare in pubblico una moglie paesana e quindi le dice che per il suo stesso bene è opportuno prendere, almeno per qualche tempo, una sorta di dama di compagnia che le possa insegnare a mantenere buone relazioni. La donna acconsente, proprio perché conscia del suo stato d’inferiorità. E qui entra in scena Luisa Condenni. È lei che ha il compito di rendere meno grossier la paesanotta...»
«Meno che?» interruppe il giovane mentre masticava un boccone.
«Meno rozza, grossolana. Lo fosse già da prima, sia stata invece una conseguenza, Luisa diventa l’amante di Ubaldo. I due cercano di non far trasparire nulla, ma la paesanotta sarà stata pure di scarsa cultura ma certo scema non è: d’altronde, come si dice “scarpe grosse e cervello fino”. Le cose cominciano a non filare lisce. Ubaldo un po’ si è pentito di aver sposato la paesanotta, che, dal canto suo, non gradisce affatto di dividere il marito con un’altra. E poi Pianura all’epoca era né più né meno che un grande paese: le voci cominciano a circolare e non va bene neanche al suocero di Ubaldo. I guai per il nostro ingegnere, però, non vengono mai da soli. Difatti, ha fatto il passo più lungo della gamba. Gli affari non gli vanno bene e non riesce a coprire tutti i debiti, quindi deve rivolgersi agli strozzini e il rischio della bancarotta e della rovina incombe».
«Insomma» lo interruppe il giovane dopo aver deglutito un altro morso del panino «Ubaldo sta proprio inguaiato. E ben gli sta! Nu malamente adda fa’ sempre na brutta fine!»
«Non correre, Geremia. Aspetta a dare sentenze. Ma neanche con la bocca piena riesci a stare zitto?»
Il ragazzo, che, intanto, aveva nuovamente addentato il panino, fece un cenno di scuse.
«La necessità» continuò Capece «aguzza l’ingegno. Ubaldo mette a punto un piano criminale per liberarsi in un’unica volta di moglie e debiti».
«Ma allora è veramente nu malamente!» si lasciò scappare Geremia ancora a bocca piena.
«Taci e ascolta!» lo zittì il giornalista, che continuò aggiungendo: «Per far fronte ai suoi problemi economici, Ubaldo si era rivolto a Mimmuccio, questa volta il nome di fantasia gliel’ho dato direttamente io, che è un signor strozzino, uno con una capacità economica praticamente illimitata, ma anche noto per la ferocia verso chi non rispetta le sue regole. Ubaldo allora che fa? Comincia a non pagare più Mimmuccio e quando l’usuraio lo minaccia cerca di impietosirlo dicendo che il suocero ha consigliato alla figlia di chiudere i cordoni della borsa. Fa capire così a Mimmuccio che il vero problema è la moglie e che lui, se potesse disporre dei soldi di questa, onorerebbe tutti i debiti, anzi avrebbe addirittura di che estinguere il debito vendendo alcune proprietà della donna. Mimmuccio è uomo di poche parole e anche poche, ma efficaci azioni. Non perde tempo: fa uccidere la povera donna. Ufficialmente la moglie di Ubaldo muore vittima di un pirata della strada che la investe senza fermarsi e prestarle soccorso. Ma Ubaldo sa e tace».
«Che carogna!» Geremia intervenne ancora «Ma che schifo di uomo è questo? Neanche un po’ di pietà!»
«E questo è ancora niente, Geremia. Aspetta di sentire il resto».
«Ah, già. Ubaldo ha eliminato la moglie ma non certo i debiti» commentò il giovane.
«Appunto. Ora viene il colpo d’ala che fa di Ubaldo non più una canaglia, ma un vero criminale».
«Diretto’, che volete dire?»
«Mimmuccio pensa di aver preso due piccioni con una fava. Ha, diciamo così, risolto l’impedimento di Ubaldo e al tempo stesso gli ha fatto capire che lui non scherza, che non ci pensa due volte a far passare a miglior vita qualcuno. Si aspetta che, mite e docile, Ubaldo mantenga fede agli impegni e gli porti i soldi. Ma l’ingegnere lo spiazza: dopo qualche settimana dalla morte della moglie va dai carabinieri e denuncia di essere vittima di strozzinaggio e paventa anche che l’investimento non sia stato casuale. Chiede di essere protetto e fa il nome di Mimmuccio. Per dare più forza alle sue dichiarazioni ammette di aver corrotto due o tre funzionari e di aver commesso alcuni reati finanziari, tutte fattispecie facilmente verificabili che rendono le sue parole verità inconfutabili».
«Diretto’, diretto’, che significano fattispecie e inconfutabili?» chiese Geremia che guardava il vecchio giornalista con atteggiamento reverenziale.
«E hai ragione pure tu. Scusami. Volevo semplicemente dire che Ubaldo comportandosi così si rende molto credibile e nessuno pensa lontanamente di mettere in dubbio quello che ha detto. E in effetti non sta dicendo bugie».
«Sì, ma lui è in pratica responsabile della morte della moglie!» intervenne ancora Geremia.
«E chi lo può incolpare? Mimmuccio? E chi pensi che possa credere a un uomo così malvagio da avergli ucciso la moglie per costringerlo a pagare i suoi debiti?»
«Ma non è così, diretto’» si alzò in piedi sdegnato il giovane urtando il tavolino e facendo cadere a terra i bicchieri vuoti di caffè.
«Calmati, Geremia. Anche io sono schifato e sdegnato, ma così va la vita. Ubaldo in poco tempo diviene un eroe sfortunato. Gli stessi giudici chiamati a emettere una condanna nei suoi confronti risentono di questo clima e Ubaldo riceve la condanna più lieve. Con poco più di un anno di carcere tutte le sue malefatte saranno scontate. Non così per Mimmuccio, che invece va incontro a una sentenza esemplare soprattutto come mandante dell’omicidio della moglie di Ubaldo».
«Diretto’, allora è proprio vero che le felle di prosciutto non stanno solo dai salumieri ma anche sulla faccia della gente. Che schifo! Azzo, Ubaldo è stato un vero Caino e per la gente è addiventato n’eroe. Un eroe intelligente assai: invece di chissà quanti anni di inferno tra moglie e strozzini se la cava solo con poco più di un anno. E mo che sta facendo?»
«E qui ricompare la nostra Luisa Condenni. Ubaldo nei prossimi giorni uscirà dal carcere di Bellizzi Irpino...»
«Uh... Gesù... ma perché? Non sta a Poggioreale?»
«E no! Il nostro eroe ha avuto un trattamento privilegiato perché Poggioreale poteva essere pericoloso per lui. Chissà, magari Mimmuccio o qualche suo amico poteva fargli passare un brutto quarto d’ora, magari l’ultimo. E allora per cautelare un uomo che, nel frattempo, era diventato un eroe, fu deciso di mandarlo a Bellizzi Irpino, dove c’è un carcere più piccolo e governabile. Comunque, per completare quello che ti stavo dicendo, tra una settimana Ubaldo uscirà e sai chi troverà ad attenderlo?»
«Luisa Condenni?»
«E bravo, hai capito tutto. E così tutti vissero felici e contenti».
«No, diretto’. Tutti tranne la paesanotta e Mimmuccio».
«...e me perché non ho nessuna intenzione di fargliela passare liscia permettendogli di godersi il frutto dei suoi raggiri con quella là».
Capece, terminato il lungo racconto, guardò il giovane attendendo la sua ennesima replica. Rimase un po’ contrariato quando si accorse che il ragazzo, come aveva già fatto in precedenza, continuava a scrivere qualcosa sulla carta della tovaglia. Quasi a mo’ di sfottò allora gli chiese: «Hai preso appunti per scrivere un articolo?»
Il ragazzo non rispose subito. Ancora per alcuni secondi continuò a scrivere probabilmente per completare un pensiero che aveva in mente. Poi finalmente alzò lo sguardo verso il suo interlocutore e disse: «Diretto’, voi mi dovete scusare, ma io ho preso un’abitudine proprio ricordando una cazziata che mi avete fatto qualche tempo fa perché non ero stato attento a quello che mi avevate detto. Da allora, cerco di prendere qualche appunto soprattutto quando c’è qualcosa che mi pare strano o...»
«... o che non ti quadra» aggiunse Capece.
«Diretto’, qualcosa che a me non mi va giù, per intenderci». «Ho capito, ho capito. E allora, a vedere la tovaglia così
scarabocchiata, devo supporre che a te c’è molta roba che non ti è scesa» e con una risatina Capece aggiunse: «Vuoi che ti faccia portare un digestivo?»
«Diretto’, magari un’altra birra e, semmai, un arancino, giusto per chiudere questa colazione».
«Alla faccia! E tu questa la chiami colazione?»
«Diretto’, ma questa è la prima roba che mangio da quando mi sono svegliato. Quindi, per me è la colazione».
«E anche questo è giusto. Comunque, Geremi’ mi vuoi dire che sta scritto in quel tazebao?»
«In che?»
«Niente, lascia stare».
Capece scrollò il capo e chiamò a sé il cameriere, al quale
ordinò quello che il giovane aveva chiesto. Poi si rivolse nuovamente al ragazzo dicendogli: «Hai un’ultima possibilità: mi vuoi dire che hai scritto?»
Geremia, evitando ogni preambolo, rispose: «Diretto’, ci sono troppe cose del vostro racconto che mi sono rimaste
sullo stomaco. Io non dico che ve lo siete inventato di sana pianta ma, mi domando, perché le cose che sapete voi non le sa pure la polizia, i carabinieri, chi ha fatto le indagini? E poi, scusate, Mimmuccio è stato tanto fesso da farsi prendere per il culo da Ubaldo senza fare nulla? E, ancora, ma possibile che a Ubaldo sia andato tutto bene, non abbia commesso neanche un errore? E soprattutto perché mi avete fatto seguire Luisa Condenni? Ubaldo, mi pare di capire, è in galera e allora? Ah, ah, dimenticavo ancora una cosa, la più importante: ma vuje tutte sti ccose comme le sapete e perché non andate dalla polizia a smascherare Ubaldo e fargli passare tutto il resto della sua vita dietro quattro sbarre?»
Gli occhi di Stefano Capece brillavano. Si sentiva come pensava si dovesse sentire un professore il cui allievo prediletto fa un’interrogazione perfetta, come lui avrebbe desiderato. Geremia, ancora una volta non lo stava deludendo. Le punzecchiature avevano dato la stura a tutte le giuste e corrette curiosità di chi oramai era in grado di spiccare il volo da solo.
«Bravo, Geremia!» esclamò battendo una mano chiusa a pugno sul tavolo e suscitando l’attenzione di quanti erano seduti negli altri tavolini.
«Vedi perché devi venire in redazione?» aggiunse «Perché tu sei un lievito che può far crescere bene quello a cui è aggiunto. E io ho bisogno di gente come te: ho troppa pasta per pizze scoppiata attorno a me. Ma, ora basta svenevolezze. Tu vuoi risposte ed è giusto che te le dia. E, a proposito di dare, ecco Peppino».
Proprio in quell’istante ricomparve il cameriere con un vassoio su cui c’erano un piatto con tre arancini e una birra, che l’uomo con gesti rapidi e precisi poggiò dinanzi a Geremia. Si voltò poi verso Capece e gli chiese: «Diretto’, e per voi niente?»
«No, no, Peppino» gli rispose il giornalista. «Basta per il momento. Se mi fanno l’analisi del sangue ora mi trovano la glicemia a 300. Facciamola scendere un po’».
Il cameriere fece un piccolo inchino col capo e senza aggiungere altro si allontanò. Geremia agguantò con la sinistra il primo arancino e con la destra cominciò a versare la birra nel bicchiere.
«Neh Geremi’, ma tu proprio non perdi tempo. Hai paura che ti passi la fame?» lo sfottè Capece.
«Macché diretto’, la fame con me ha fatto un contratto a vita».
«E allora non farla aspettare. Nel frattempo, se permetti, cerco di rispondere alle tue domande».
Il giovane, ancora con la bocca piena, fece un cenno di assenso.
«Allora, cominciamo. Quello che ti ho raccontato è tutto vero o, meglio, qualche particolare può essersi svolto in maniera diversa, ma la sostanza non cambia. Ubaldo veramente, a modo suo, è stato in gamba trasformando due problemi in una grande opportunità. Non che io lo stimi per questo. Anzi sono convinto anch’io che dovrebbe trascorrere il resto della propria vita in galera. Ed è questo quello che intendo fare ma, purtroppo, non sarà facile. Perché? Perché a volte la stupidità che regna sovrana tra i nostri simili ha bisogno dei suoi idoli, che, una volta che hanno acquisito questa dimensione, non possono essere toccati. Chi tenta di farlo, rischia grosso. È come quel detto napoletano: A carne ’a sotto e ’e maccaroni ’ncoppa. Cercare oggi di far venire a galla la verità è, per i tanti stupidi che si sono nutriti di questa vicenda, come voler stravolgere convinzioni accettate e condivise. Ma non per questo non si debbono fare le battaglie giuste. Solo che richiedono più fatica: non basterà solo smascherare Ubaldo ma bisognerà convincere chi non vuole essere smosso nelle
proprie certezze, perché, ricordati, se in una persona smonti una certezza, metti a rischio anche le altre e oggi, come ieri e domani, nessuno vuole vivere tra dubbi e incertezze: è troppo faticoso!»
«Diretto’» lo interruppe Geremia mentre allungava la mano sul secondo arancino «vi devo dire la verità: ho capito e non ho capito. Ma, piuttosto, ditemi: come pensate di acchiappare Ubaldo?»
«Ci aiuterà proprio Luisa Condenni!»
Geremia smise per un attimo di masticare e, non senza qualche difficoltà, esclamò meravigliato: «E che c’entra mo sta femmena?»
«C’entra, eccome. La Condenni è l’anima nera di Ubaldo. Quello che quest’uomo ha fatto non è tutta farina del proprio sacco. C’è qualcosa di perverso che sembra partorito più da una mente femminile. Luisa è stata complice di Ubaldo, forse addirittura l’ispiratrice, di certo l’istigatrice perché aveva tutto da guadagnare. E quello che tu hai scritto in questo appunto ne è la riprova».
«Veramente?»
Geremia guardò ancora più meravigliato l’uomo che si era fermato a rifiatare.
«Sì» rispose il giornalista «Prova a ragionare. Secondo te, una donna che ha perso l’unica fonte, anche lucrosa, di guadagno si può permettere di spendere quello che lei sta spendendo ora? Non mi pare proprio una donna in cerca di un lavoro. Mi hai scritto che non ha debiti con nessuno dalle sue parti e che tutti la considerano una ottima cliente. In più scrivi che va spesso in banca: a fare che? A vedere se le fanno un prestito? Ma chi lo farebbe a una senza arte né parte? E se, invece, andasse a depositare, investire, amministrare soldi che le ha lasciato in custodia Ubaldo? Pensaci, Geremia. E poi a tagliare la testa al toro c’è il parrucchiere di via Pessina 14».
 «Gesù, che c’entra il parrucchiere?» lo interruppe ancora Geremia.
«C’entra, eccome. Difatti, nello stesso palazzo c’è la redazione di un settimanale illustrato dove lavora un mio collega, chiamiamolo Totonno, che per soldi farebbe qualunque cosa e guarda caso Totonno ha fatto della vicenda di Ubaldo un suo cavallo di battaglia al grido di “perché non si dimentichi un uomo che ha fatto ciò che ha ritenuto giusto”. In pratica Totonno è stato opportunamente pagato, per tener viva la vicenda di Ubaldo e consentirgli un rientro in grande stile ora che uscirà di galera e tenterà di reinserirsi. E chi secondo te è l’artefice di questa santificazione in vita di Ubaldo? Lei, la brava Luisa che ogni volta che si reca dal parrucchiere va anche in redazione da Totonno e certo non a mani vuote».
«San Michele Arcangelo!» esclamò Geremia battendo i palmi delle mani «Ma chiste so’ proprio na vranca ’e fetienti!»
«Vedo che questa volta hai proprio capito, Geremi’» chiosò il giornalista, aggiungendo: «Ecco, penso di aver risposto alle tue domande».
Il giovane lo guardò con un sorriso impertinente: «A quasi tutte, diretto’» disse di rimando «ma non a tutte. Resta l’interrogativo principale, quello che più mi interessa: diretto’, ma tutte sti ccose comme l’avite sapute?»
Capece scoppiò a ridere.
«Pensavo di averti fatto scemo» rispose «ma vedo che sai ben digerire le parole, soppesandole una a una. Non ti è sfuggito il mio tentativo di svicolare. Sai proprio il fatto tuo, guaglio’. E allora hai diritto a una spiegazione e... non solo, come vedo».
Il ragazzo, infatti, con un sol boccone aveva ingurgitato il terzo e ultimo arancino.
«A volte» continuò Capece «la sorte ci mette il suo zampino. Questo caso mi ha attirato immediatamente. Mimmuccio
per me era carta conosciuta. Conoscevo bene la sua attività di strozzino che mi era stata riferita da più di un mio informatore. È stato Ubaldo che non mi ha convinto dal primo momento. Chi lo ha ascoltato quando ha raccontato la sua verità alle forze dell’ordine, lo ha descritto sempre come un personaggio razionale al limite dell’asettico».
«Dell’a... che?» chiese Geremia.
«Geremi’, come se il fatto non fosse suo. Ma dico: uccidono tua moglie. Ma come minimo maledici il carnefice, ti scagli contro di lui. No, Ubaldo ha sempre raccontato le stesse cose con le stesse parole, non sgarrando mai. E sai questo che significa?»
«No».
«Significa che non stai dicendo la verità. Chi racconta con il cuore non può essere limitato dalla ragione. Chi racconta una verità costruita apposta, invece, deve sempre dire le stesse cose perché altrimenti rischia di contraddirsi e non raggiungere il proprio scopo. Pensaci, Geremia».
Il ragazzo rimase un attimo pensieroso, poi replicò: «Gesù, diretto’, è vero. Quando m’incazzo e racconto un fatto a due persone non dico sempre le stesse cose perché dipende anche da quanto sto incazzato in quel momento. E poi mi accorgo che a ognuno ho fatto un racconto diverso».
«Vedi. Chi è troppo razionale nasconde spesso qualcosa. E il nostro Ubaldo in questo modo ha fatto fesso tanta, troppa gente. E quando qualcuno non me la conta giusta, io divento sospettoso. Ho cominciato allora a raccogliere notizie. Non c’è voluto molto per scoprire la tresca con la Condenni e soprattutto un’altra cosa... ma questa te la dico un’altra volta. Mo che sei a pancia piena, puoi metterti al lavoro».
«Che significa, diretto’».
«Che devi fare il postino. Tieni».
Capece tirò fuori dalla tasca della giacca una busta e la
diede al ragazzo.
«La devi consegnare alla Condenni. Oggi alle sei, come al solito, sarà dal parrucchiere. Tu entri, gliela dai e le dici anche: “La persona che le manda questa busta la saluta tanto”. Non darle il tempo di farti domande. Sparisci subito. Deve essere molto teatrale il tutto. Così rimettiamo in moto la sceneggiata e speriamo che questa volta vada a finire come vogliamo noi».
Geremia si pulì le mani con il tovagliolo, prese la busta, la guardò: non c’era nessuna intestazione. La palpò per capire cosa contenesse: all’interno dovevano esserci uno, forse due fogli.
«Diretto’» domandò «ma che c’è nella busta?»
«É lungo spiegartelo. Sappi solo che c’è la chiave per riaprire le porte della galera per Ubaldo».
«E allora va bene così, diretto’. Io vado».
Geremia si alzò, mise la busta nella tasca dei pantaloni cercando di gualcirla il minimo possibile e, fatto un inchino con il capo, si allontanò. Fu fermato dalla voce di Capece: «Geremi’, mi raccomando: domani qui alla stessa ora. Peppino ti aspetta. Non farlo dispiacere».
Il ragazzo sorrise soddisfatto. Anche l’indomani avrebbe mangiato.
Seduta sul bordo del letto la donna si rimise il reggiseno. L’uomo, dall’altro lato, indossò lo slip e poi la camicia. Aveva un volto soddisfatto mentre si accendeva la sigaretta. Il sorriso sulle sue labbra durò poco.
«Antoni’» gli si rivolse la donna «questa è l’ultima volta che stiamo assieme. Emilio tra qualche giorno lascia il carcere di Bellizzi Irpino e mi aspetta. E anch’io lo sto aspettando. Abbiamo dovuto nasconderci per tanto tempo. Ora basta. Voglio stare accanto a lui. L’ho sognato da quando ci siamo incontrati. E adesso è arrivato il momento».
L’uomo smise di rivestirsi e rapidamente raggiunse la donna dall’altra parte del letto prendendole le mani.
«Ma come puoi farmi questo? Non stai bene con me?» le chiese.
La donna, senza scomporsi, si divincolò e gli rispose: «Sono stata chiara con te fin dalla prima volta. Non ti amo. Mi piace fare l’amore con te e non riesco a fare a meno di un uomo per tanto tempo. Ma niente di più. Ti ho ripetuto più volte di non farti illusioni. L’unico uomo della mia vita è Emilio e ora finalmente sarà tutto mio».
«Ma sei proprio una cagna in calore!» esclamò l’uomo «Dici di amare Emilio e mi hai usato come un giocattolo per soddisfare le tue voglie. Voglio vedere quando racconterò quello che abbiamo fatto al tuo amoruccio».
«Perdi tempo se pensi così di ricattarmi. Emilio sa tutto di noi e glielo ho detto proprio io. Lui ha sempre saputo che tipo di donna fossi e mi accetta così come sono. Ma ora che uscirà sarò solo per lui. Emilio sì che sa come trattare le donne e renderle felici. Povera Liliana, lo ripeteva sempre. Non sapeva che io ne ero a conoscenza quanto se non addirittura più di lei».
«Sei una vipera, Luisa. È strano che i tuoi morsi non mi abbiano già avvelenato».
«Su, su, Antonino. Considera quello che è successo tra noi come una gratifica ulteriore oltre ai soldi. Non penso che ti possa lamentare. Ma tutto finisce. Hai fatto bene il tuo dovere e non ho di che lamentarmi su nessun fronte».
La donna, mentre diceva queste ultime parole, si era alzata e stava finendo di rivestirsi. Prese dalla borsa una spazzola, si aggiustò un po’ i capelli e ostentando un certo distacco aggiunse: «Meno male che Manolo ha il negozio nel palazzo. Non mi piacerebbe camminare per strada così spettinata».
L’uomo, che nel frattempo aveva terminato anche lui di rivestirsi, si sentì ferito da tanta freddezza. Senza replicare, si avviò verso la porta e senza voltarsi disse: «Stammi bene, allora. Sì, sono stato veramente ben pagato, in tutti i modi. Me ne scendo in redazione. Lascia le chiavi di casa mia da qualche parte. Visto che non ci vediamo più, non ti servono».
Antonino sbatté la porta alle sue spalle. Luisa non si scompose. Controllò di aver messo tutto in borsa, ne trasse fuori le chiavi e le lasciò su un tavolino nell’ingresso. Poi aprì a sua volta la porta e chiamò l’ascensore, entrandovi appena fu arrivato e pigiando il tasto del pianterreno. Una volta nel ballatoio d’ingresso del palazzo, invece di uscire, girò a destra dirigendosi verso la porta a vetri su cui era scritto Manolo coiffeur. Bussò al campanello e subito una ragazza con un camice bianco venne ad aprirle, salutandola con un: «Signora Condenni, buonasera. Lei non manca mai a un appuntamento».
«Certo. I miei capelli non possono farne a meno» rispose la donna dirigendosi verso la prima sedia attrezzata libera. Ebbe giusto il tempo di sedersi che Titina, la manicurista, l’apostrofò con il suo inconfondibile accento marcato: «Signo’, qualche minuto fa è venuto nu giovinotto che ha cercato di voi».
«Di me?» chiese la donna meravigliata.
«Sì, sì, propeto di voi. Io gli ho detto di ripassare più tardi che sicuramente vi avrebbe trovato» continuò Titina.
«Ma che voleva?»
«Signo’, e io che ne saccio. Mo vedete che tra poco ripassa e glielo chiedete voi».
Proprio in quel momento entrò nel negozio Geremia. In mano aveva la lettera. Individuò subito la donna e con gesto rapido gliela consegnò aggiungendo, come Capece gli aveva raccomandato: «La persona che le manda questa busta la saluta tanto».
E senza dare il tempo alla donna di rendersi conto di quanto stesse accadendo si allontanò rapidamente.
Luisa, sbigottita, guardò Titina che era rimasta accanto a lei a bocca aperta. Ebbe bisogno di qualche istante per rendersi conto di quanto fosse accaduto. Poi fissò la busta. Vide che era priva di intestazione. La aprì. C’erano due fogli all’interno. Riconobbe subito il contenuto. Trasecolò. Fu un attimo. Immediatamente ritornò padrona di sé. Ripose la busta e i fogli nella borsa e a voce alta commentò: «Ma guarda un po’: non bastano le pubblicità che arrivano con la posta, ora le recapitano pure a mano».
Titina, riprendendosi dallo stupore, scoppiò a ridere.
«Peppi’, è arrivato il grande giornalista?» chiese Stefano Capece al cameriere entrando nel bar Roma.
«Diretto’, è ancora presto» rispose Peppino «Se non si fanno le quattro, Geremia non compare. ’O guaglione la sera va a scuola e poi si mette a studiare. Diretto’, ce vo nu poco ’e comprensione. Ma ne vale la pena: chillo è intelligente, intelligente assai».
«Ah, ma allora ci tieni pure tu al ragazzo?»
«Diretto’, in mezzo a tanti debosciati, scansafatiche e piccoli criminali, se c’è una mela buona bisogna farla maturare». «Toh, tenevo vicino a me la nuova Montessori e non lo sapevo! Comunque, hai ragione. Per questo mi vado a sedere al mio posto e l’aspetto. Portami il solito caffè e quando è ora
comincia a preparare il panino per Geremia».
«Sarà fatto come comandate, diretto’. Salite sopra e vi raggiungo ampresso ampresso».
Stefano Capece salì lungo la scala a chiocciola. Arrivato
al piano superiore, si accomodò al solito tavolino, tirò fuori dalla tasca della giacca il giornale arrotolato e cominciò a leggerlo. Ebbe giusto il tempo di dare uno sguardo ai titoli principali. Il solito rumore di passi trafelati lo distolse da quella lettura distratta.
«Mai una volta che tu sia puntuale» esclamò.
«Diretto’» Geremia aveva il fiatone più del solito «vi chiedo scusa. Ma me la sono vista proprio brutta. Ci stava uno che m’avesse pigliato a paccheri se non fujevo. E tutto questo per fare una bona azione».
«Spiegati, Geremi’».
Il ragazzo fece segno che doveva rifiatare e che aveva la gola secca. Capece cercò con la testa Peppino e sorrise quando lo vide comparire lungo la scala con un vassoio in cui già c’era anche quello che solitamente ordinava per il ragazzo.
«Geremi’, ecco, prenditi un sorso di birra. E poi mi racconti».
Il ragazzo non se lo fece dire due volte. Tracannò la birra che lo stesso Peppino aveva versato nel bicchiere e continuò: «Non bisogna fare buone azioni, diretto’. Si rischia di farsi male. Poco fa, ho visto un signore che camminava in uno dei vicoli qui sopra. Mi ha chiesto come fare per uscire su via Roma. Io gli ho detto di andare più avanti e di non scendere lungo il vicolo più vicino ma a quello successivo. E sapete perché gli ho detto questo? Perché sapevo benissimo che a quest’ora nel primo vicolo avrebbe incrociato Camiòn. E Camiòn nun perdona. L’avrebbe gettato a terra con una spinta e gli avrebbe preso il portafogli. Così, invece, l’ho salvato. Ma Camiòn se ne deve essere accorto. E così ha cominciato a rincorrermi perché gli avevo fatto perdere ’o cliente».
«E bravo a Geremia: oggi ti meriti proprio due panini».
«E allora, forse, è stato buono salvare chillu pover’ommo!» proseguì soddisfatto il ragazzo, che subito cominciò ad addentare il panino che il cameriere già gli aveva portato.
Ancora con la bocca piena, però, riprese a parlare: «Diretto’» chiese «ma che c’era nella busta che ho consegnato a quella donna? Appena sono uscito dal negozio, mi sono fermato e senza farmi vedere l’ho guardata: sembrava che avesse visto ’a morte in faccia».
«E così è, Geremi’. Ha visto qualcosa che le ha fatto capire che c’è chi sa più di quanto deve. E il carico da novanta glielo hai dato tu?»
«Iooo?» Geremia scosse la testa.
«Sì, quando le hai detto: “La persona che le manda questa busta la saluta tanto”. Luisa Condenni non è una stupida. Ha capito che io le mandavo i fogli nella busta e che intendevo parlarle. Difatti, non ha perso tempo. Mi ha chiamato ieri sera per sapere cosa volessi da lei. Io le ho detto che non ho l’abitudine di parlare a telefono. Ci siamo dati appuntamento qua alle quattro e mezza».
«Tra dieci minuti?»
«Appunto! Quindi, se vuoi sapere cosa c’era nella busta non ti resta che alzarti e andarti a sedere in quel tavolino che sta un po’ più in là vicino al grande specchio. Se ti metti faccia allo specchio potrai vederla in viso. So che hai un udito molto fino, così potrai anche ascoltare».
«Diretto’, allora mi sposto subito».
Il ragazzo si alzò di scatto, prese quel che restava del panino e della birra e si avviò verso l’altro tavolino. Poi tornò sui suoi passi e disse: «Diretto’, io ho pensato una cosa: non vorrei che la signora si insospettisse vedendo una persona al tavolo che non consuma. Allora, io faccio così: ogni tanto chiamo Peppino e mi faccio portare qualcosa, così è tutto più normale: che ne pensate? È una buona idea?»
«Ottima, Geremi’, soprattutto per te. Hai proprio delle belle idee» sorrise Capece dandogli una pacca sul braccio «e mi raccomando, non ti dimenticare di dirgli che pago tutto io».
«State senza pensiero, sarà la prima cosa che gli dirò».  
La faccia di Geremia s’illuminò.
Luisa Condenni, elegante nel suo tailleur rosa confetto, si diresse verso la scala a chiocciola salendo al piano superiore, così come le aveva indicato Capece. Qui si guardò intorno alla ricerca del giornalista. Individuatolo, lo raggiunse e, senza preamboli, esordì: «Come vede sono stata puntuale. Mi dica cosa vuole».
«Buonasera, signora» le rispose Capece per nulla intimidito da quell’esordio «prego, si accomodi innanzitutto. Cosa posso offrirle?»
«Poche parole chiare e precise. Null’altro, grazie» continuò la donna gelidamente mentre si sedeva.
Con tono calmo, che sapeva che in quel momento avrebbe ulteriormente irritato la Condenni, Capece ribatté: «La concisione piace anche a me. Quindi, se non posso offrirle nulla, passerò subito ai fatti. Condor le dice nulla?»
L’arroganza scomparve dal volto della donna. Geremia, che la vedeva nello specchio, notò la stessa sensazione di sgomento osservata dal parrucchiere. La Condenni, impacciata, provò una ultima, debole difesa: «Certo» rispose ostentando una finta calma «le Ande, il Sudamerica. Vuole invitarmi a fare un viaggio con lei? Guardi che io sono molto esigente in fatto di uomini».
«Di questo, magari, parleremo poi. Il condor a cui mi riferisco è più vicino. Diciamo che aleggia sopra di noi. Anzi non vola proprio, ha i piedi ben piantati a terra, radicati nel cemento».
«Non capisco, signor Capece. Cosa sta dicendo?» la donna appariva sempre più imbarazzata.
«Signora» il tono del giornalista era divenuto sferzante «basta. Lo sappiamo bene, sia lei che io, che la Condor Srl è proprietaria di mezza Pianura e guarda caso lei è l’intestataria della quasi totalità delle quote assieme a un certo Ugo Torri, che è un vecchio decrepito, ex capomastro dell’ingegner Emilio Orilia, che lei conosce molto bene. D’altronde, devo dire, lei e l’ingegnere non avete una grande fantasia: condor non è altro che la parte iniziale dei vostri cognomi, una sorta di firma virtuale. Non mi ci è voluto molto per capire: avete raggirato la povera Liliana, la moglie dell’ingegnere, vendendo per pochi spiccioli alla Condor le sue proprietà e così avete fatto anche con le case degli ultimi palazzi costruiti dalla Orilia SpA. Poi avete messo a punto il piano per liberarvi di Liliana e di Nunzio Correa, lo strozzino. In definitiva, Correa a sua insaputa è stato un vostro finanziatore: ha dato a Orilia tutto quello che gli serviva con l’idea di spolpargli le proprietà della moglie. Ma voi siete stati più furbi, lo avete fregato con la storia del pentimento facendo capire a tutti, che non attendevano altro per farsi affascinare dall’ennesima falsa verità, che Liliana fosse stata uccisa da Correa per terrorizzare il povero ingegnere Orilia. Che menzogna! Correa è stato uno stupido: tanto crudele quanto fesso. Ha fatto uccidere Liliana Orilia per consentire al marito di avere mano libera per pagargli i debiti, facendo così il vostro sporco gioco».
«Ma che vuole? Soldi? Quanto? E poi? Continuerà a ricattarci?» lo interruppe Luisa Condenni che aveva riacquistato la sua imperturbabilità.
«Soldi? Per divenire come voi due? No, no. Si rassicuri, non voglio i vostri sporchi soldi. Non saprei che farne e poi mi brucerebbero in mano. Voglio giustizia per Liliana e per tutta quella gente che è caduta nella vostra trappola, che Antonino Iannotti vi ha aiutato ad alimentare. Che crede che non sappia anche di Antonino e di quello che ha fatto? E anche della sua tresca con lui? Signora, mi meraviglio di lei. Una donna di stile come lei con uno come Antonino! Mi viene il vomito.
Ma ormai mi sono abituato a non meravigliarmi più di nulla. Vuole sapere che farò? Vi starò alle calcagna, terrò il fiato sul vostro collo. Dovrete pensare che qualunque cosa farete, io lo verrò a sapere e siccome Emilio Orilia non starà con le mani in mano, ma tenterà altre speculazioni, al primo passo falso che ci sarà, oh sì che ci sarà, pagherete per tutto».
«Bene» il tono della Condenni era nuovamente gelido, sembrava proprio che le parole di Capece fossero scivolate su di lei senza lasciare tracce «se non vuole soldi, meglio. Allora non abbiamo null’altro da dirci. Spero di non incontrarla più. I millantatori mi seccano e ancora di più i predicatori e quanti speculano in nome della verità. Signor Capece, le do un consiglio: ci lasci in pace perché potrebbe farsi male, tanto male che non immagina neppure. No, non la sto minacciando. Basterà dimostrare che qualunque cosa dica non ha fondamento, è inconsistente, è una calunnia. Credo che questo possa farle molto più male della morte. Arrivederci... anzi: a mai più rivederci».
La donna si alzò e, voltatasi, si avviò rapidamente verso la scala a chiocciola che iniziò a scendere.
Geremia, appena vide la donna scomparire alla vista, a sua volta si alzò e tornò a sedersi accanto a Capece.
«Diretto’» commentò «e che faccia che ha fatto quando avete detto condor».
Il giornalista sorrise senza replicare. Il ragazzo si sentì, quindi, abilitato a continuare: «Diretto’, ve l’ho chiesto anche la volta scorsa: ma come fate a sapere tutte queste cose?... e, visto che vi trovate, diretto’, ricordatevi che mi avete promesso di dirmi che c’era nella busta».
Capece scosse il capo come se avesse voluto scacciare qualche cattivo pensiero. Guardò il ragazzo, sorrise ancora e rispose: «Geremi’, oggi hai assistito all’ennesima partita dell’interminabile sfida tra bene e male. Chi ha vinto? E chi lo sa!
2Forse lo sapremo in un futuro vicino o lontano. Forse non lo sapremo mai. Eppure dobbiamo lottare se vogliamo sentirci vivi. Quella donna è l’incarnazione del male: non escludo, e ricordo di avertelo già detto, che la vera mente di tutta questa storia sia lei. L’ingegnere Orilia, il tuo Ubaldo l’avrai capito, deve essere stato proprio stregato dalla Condenni e ha finito per ragionare più con gli attributi che con la testa. Mah... Chissà come andrà a finire. Nel frattempo, restiamo con i piedi per terra. Tu hai diritto a delle spiegazioni. È giusto! Allora, ripartiamo da lontano. Quando si cerca la verità bisogna essere anche un po’ fortunati. E il colpo di fortuna l’ho avuto quando un mio informatore, mentre cercavo di capire qualcosa in più sulla morte della moglie dell’ingegnere Orilia, supponendo di farmi un favore, mi disse che potevo parlare con una donna che aveva conosciuto la morta. Ci andai più per non far dispiacere l’uomo che perché sperassi in qualcosa. La donna, una signora settantenne già un po’ rimbambita che voleva sfruttare al massimo l’insperata occasione di parlare con qualcuno, mi riempì di chiacchiere. Stavo per andare via seccato per il tempo perso quando lei mi raccontò, senza neanche accorgersene, un episodio. La vecchia aveva fatto visita alla moglie dell’ingegnere pochi giorni prima della morte. Non l’aveva trovata, però, ed era stata accolta da Luisa con la quale si era lamentata di non aver ricevuto dalla donna neanche un biglietto di ringraziamento per un regalo che le aveva fatto poco tempo prima. La vecchia aveva continuato dicendo che Luisa si era molto meravigliata di questo e aveva detto che voleva andare a vedere se il bigliettino fosse rimasto nella camera della donna. Dopo qualche minuto, era ricomparsa trionfante con il bigliettino scusandosi con la vecchia per il disguido. Sai perché la vecchia mi aveva raccontato questo? Per lamentarsi che ci aveva rimesso un foulard perché questo nella borsa si era sporcato d’inchiostro».
«Ma se il biglietto era stato scritto da tanto tempo» obiettò Geremia.
«Appunto. La vecchia mezzo rimbambita non ci aveva badato. Io sì. Il biglietto l’aveva scritto su due piedi Luisa per togliersela di torno e l’aveva pure firmato. La vecchia mi mostrò il bigliettino: l’aveva conservato assieme al foulard macchiato perché intendeva farlo vedere a Liliana Orilia per lamentarsi, ma non aveva fatto a tempo. Senza che se ne accorgesse me lo presi. Mi era venuta un’idea. Chiamai la Condenni con una scusa: mi qualificai come un giornalista che voleva scrivere un articolo sulla vicenda che aveva coinvolto i coniugi Orilia e le chiesi se avesse potuto lasciarmi nella sua portineria un foglietto con alcuni loro dati anagrafici per non fare errori. La donna, forse sollevata dal fatto che io mi limitassi solo a chiederle queste notizie, acconsentì senza storie. Una volta in possesso delle righe scritte di suo pugno le portai a un mio amico che fa le perizie in tribunale sulle calligrafie. Gli chiesi di confrontare ciò che stava scritto nel foglietto lasciatomi in portineria con il contenuto del biglietto di ringraziamento. Non ci volle molto da parte dell’esperto per arrivare alla conclusione che le due scritture avevano un’unica origine, sebbene il biglietto fosse stato scritto con la chiara volontà di camuffare la propria grafia. Luisa, quindi, era in grado di firmare al posto di Liliana. Così, quando scoprii che Orilia aveva creato la società fittizia Condor mi procurai all’ufficio del registro la copia di un atto di vendita di un immobile di Liliana Orilia alla società. Non c’erano più dubbi: grazie a qualche notaio compiacente l’atto risultava firmato con la stessa grafia di chi aveva redatto il biglietto di ringraziamento e cioè la Condenni. Liliana, prima di essere uccisa, era stata spogliata di ogni avere a sua insaputa. Una volta rimasta senza nulla era stata avviata nelle mani del suo carnefice. È orrendo tutto questo ma è avvenuto e quindi qualcuno deve, dovrà pagare. Per rispondere, quindi, alla tua domanda, nella busta c’era una fotocopia del biglietto di ringraziamento e di un foglio firmato di un atto di compravendita della Condor, insomma due fogli con la stessa firma. È questo che ha fatto sbiancare in volto la Condenni. In più c’era il famoso foglietto con i dati dei coniugi Orilia che la Condenni aveva scritto per me. Così ha capito che la busta gliela mandavo io».
Capece fissò Geremia. Si accorse che questi, con faccia serissima, pendeva letteralmente dalle sue labbra. Per sdrammatizzare un po’ la situazione, gli chiese: «Ma come, questa volta non hai preso appunti sulla tovaglia di carta?»
Il ragazzo, pronto, rispose: «Diretto’, siete stato così chiaro che non ho niente da chiedere. O meglio, una cosa da domandarvi ce l’ho: mo cosa pensate di fare per fargliela pagare a questi due fetenti?»
Ancora una volta, Capece sorrise: «Non ho detto a caso, poco fa, che non so chi vincerà in questa sfida tra il bene e il male. Credimi, tutto ciò che ti ho raccontato è vero. Ma è difficile da dimostrare con prove inconfutabili, quelle che ci vogliono nei commissariati e nei tribunali. Il rischio che quei due la facciano definitivamente franca c’è. Ed è per questo che ho smosso le acque. Debbono sentire il fiato sul collo, sapere che quello che faranno passerà sotto una lente di ingrandimento, stare continuamente in campana. In questa condizione di continua tensione è più facile che possano fare un passo falso. E se lo faranno, ci puoi giurare, io sarò al varco pronto a prenderli in castagna e far pagare tutto il male che hanno fatto».
«Diretto’, posso darvi una mano?»
«Certo! Te l’avrei chiesto io ma vedo che mi hai preceduto e ne sono felice. Ti nomino sul campo loro angelo custode».
«Diretto’, hanno passato proprio nu brutto guaio con quest’angelo custode».
«Ci credo. Anche perché tu avrai un compito assai strano per un angelo».
«E quale?»
«Tu dovrai aprire loro non le porte del paradiso, ma quelle dell’inferno!»
Al termine del vialone, Antonino Iannotti fermò la sua auto dinanzi all’ingresso del carcere di Bellizzi Irpino.
«Perché hai voluto a tutti i costi accompagnarmi?» chiese la donna seduta accanto a lui.
«Perché a me non piace perdere tempo. Tu mi hai pagato? E io il mio lavoro so farlo bene. Emilio Orilia per me è uno scoop. Voglio scrivere un articolo sulle sue prime impressioni da uomo nuovamente libero. Come ha vissuto questo periodo in carcere, se rifarebbe quello che ha fatto, se ha paura di ritorsioni, cosa intende fare ora. Non ti preoccupare, te lo tratto bene l’amore tuo. D’altronde il mio l’ho avuto e non ho di che lamentarmi, anzi. E poi sono sicuro che tu e l’ingegnere saprete essere ancora generosi con me. Due o tre articoli ben studiati e ti assicuro che l’ingegnere Orilia sarà nuovamente sugli altari. Poi potrete fare tutti gli intrallazzi che vorrete, ma ognuno per la propria strada. Di voi non voglio sapere più nulla. Cercherò di dimenticarti. E forse è meglio così. Tu vivi solo per te, per i soldi. Povero Orilia. Nelle tue mani è diventato un pupazzo. Hai fatto di lui quello che hai voluto. L’hai stregato. Non ci credo che lo ami. Altrimenti non gli avresti detto di noi, glielo avresti risparmiato. Tu no, hai voluto massacrarlo psicologicamente perché sai che dipende da te. Ma fai attenzione. Lui oggi ha bisogno di te, ma domani? Non credere che gli uomini vigliacchi e senza palle non siano capaci di azioni perfide. Il tuo ingegnere ha già fatto un sacco di schifezze, una in più una in meno potrebbe non contare più nulla per lui. E poi il carcere abbrutisce, fa riflettere, fa invidiare chi è rimasto comodamente fra le proprie quattro mura. Il tuo Emilio può divenire una bomba a orologeria e certo non ci sarò io a raccogliere i tuoi brandelli».
«Ti fa rabbia che io voglia stare con Emilio e non con te» ribatté Luisa Condenni «per questo vomiti tanta bile. Io ho saputo stare al mio posto finché è vissuta Liliana. Ora non c’è più motivo. Voglio vivere alla luce del sole».
«E già, hai ragione, perché finora hai vissuto nelle fogne come quelle come te e...»
Antonino non riuscì a completare la frase. Lo schiaffo di Luisa rimbombò nell’auto.
L’uomo fece giusto a tempo a fermare la mano della donna che nuovamente stava per raggiungere la sua faccia.
«Stai ferma, disgraziata!» le gridò «Ma vuoi che ci prendano e ci portino dentro al posto dell’amore tuo? Lascia uno e prendi due? No, no. Non voglio avere più nulla a che fare con voi due. Finiscila di fare la parte dell’offesa. Qui se c’è uno che può essere offeso è proprio il tuo Emilio. Lui dentro e tu hai aperto le cosce con me. Bella schifezza! Deve essere proprio un coglione se non ha pensato di stringerti due mani attorno al collo».
«Basta, basta, basta. Ma perché ho accettato di farmi accompagnare?» replicò la donna sbattendo i pugni sul cruscotto.
Proprio in quell’istante si aprì il portone del carcere. Un uomo alto, robusto, con i capelli leggermente lunghi e una barba non curata, con un borsone verde in mano ne uscì guardandosi attorno.
Luisa scese dall’auto e gli corse incontro. L’uomo, accortosene, si mosse verso di lei e l’abbracciò. Dopo qualche istante, la donna lo prese per mano e lo condusse verso l’auto aprendogli lo sportello anteriore di destra. L’uomo entrò e accomodatosi guardò la persona al volante. Di scatto si voltò indietro dove nel frattempo aveva preso posto Luisa e disse: «Ma questo che ci fa qui?»
Antonino non diede tempo alla donna di parlare e subito rispose: «Ingegnere, sono venuto come giornalista. Lei è un eroe perché ha fatto arrestare uno strozzino pagando in proprio con la galera. Lei è il mio scoop di questa settimana. Una intervista esclusiva credo che possa far molto bene a entrambi. Ne ho parlato anche con Luisa che è d’accordo. Vero Luisa?»
Guardò nello specchietto per intercettare lo sguardo della donna, che si sentì imbarazzata nell’essere chiamata in causa. Luisa, cercando di dissimulare il disagio, rispose guardando Emilio: «Sì, caro, credo che possa tornarci utile una intervista. La gente ha la memoria corta. Molti si sono dimenticati
di te e forse ricordare quanto hai fatto potrà farci comodo». «Ma io non voglio che la gente si ricordi di me» ribatté Orilia «sono stufo di essere trattato come un esemplare unico. Voglio essere dimenticato. E poi io ho paura. Nunzio Correa ha amici. Qualcuno mi ha portato i suoi saluti anche in carcere. Non è solo un fantasma del passato. Può divenire una
brutta realtà».
«D’accordo, ingegnere» intervenne Iannotti «Allora facciamo così. Lei ci pensa e poi mi fa sapere. Basta che nel frattempo, se si dovesse far vivo qualche mio collega, lei non gli parli. Fra tre, quattro giorni ci risentiamo e mi dirà cosa ha deciso di fare».
Nel frattempo, Antonino aveva imboccato l’autostrada per Napoli. Sentì alle sue spalle una sirena. Guardò nello specchietto retrovisore: era una gazzella dei carabinieri, che quasi subito li superò. Appena l’auto ebbe completato il sorpasso, dal finestrino anteriore destro fece capolino una paletta che gli indicò di accostarsi nella piazzola di emergenza che intravide sulla destra. Il giornalista rapidamente rallentò, mise la freccia a destra e si fermò nella piazzola proprio dietro alla gazzella.
Da questa uscì un carabiniere che gli fece segno di abbassare il finestrino. Antonino ubbidì. Il graduato salutò portando la mano al capo e gli disse: «Prego patente e libretto e scenda per aprirmi il portabagagli».
Antonino tirò fuori dal cruscotto dell’auto la carta di circolazione e sceso dall’auto prese dal portafogli che aveva nella tasca posteriore del pantalone la patente. Poi si diresse verso il portabagagli per aprirlo.
Proprio in quell’istante scesero dall’auto altri due uomini vestiti anch’essi da carabinieri armi in pugno. Senza che gli occupanti dell’auto si rendessero conto di quanto stesse accadendo si avvicinarono ai finestrini e cominciarono a sparare colpendo a morte sia Emilio che Luisa. Il carabiniere che era sceso per primo e aveva chiesto i documenti ad Antonino, tirò fuori anch’egli una pistola e sparò al giornalista due colpi in testa. Si avvicinò poi agli sportelli per accertarsi che l’uomo e la donna all’interno dell’auto fossero morti e risalì nella gazzella dove uno degli altri due aveva già messo in moto il motore allontanandosi subito dopo a grande velocità.
Sull’asfalto della piazzola il corpo di Antonino giaceva a ridosso del portabagagli. All’interno dell’auto gli altri due corpi riversi sui sedili anteriori l’uno e sui sedili posteriori l’altro impregnavano il tessuto di sangue.
«Diretto’, stavolta siete voi in ritardo».
A bocca piena Geremia, seduto sempre allo stesso tavolino, apostrofò così Stefano Capece.
«Come vedo» lo rimbeccò subito questi «non hai perso tempo. Qualche minuto di digiuno in più ti faceva male?»
«É che ho voluto guadagnare tempo, diretto’» cercò di giustificarsi il giovane «Così, quando arrivavate non dovevate disturbarvi a ordinare».
«E io allora ti ringrazio, Geremi’. Però manca il mio caffè».
«Diretto’, era una infamità farvi portare il caffè e farlo raffreddare. Allora mi sono raccomandato a Peppino perché non appena vi vedeva entrare, ve lo preparava e ve lo portava. Difatti...»
Proprio in quell’istante Peppino aveva terminato di salire i gradini della scala a chiocciola portando in un piccolo vassoio il bicchierino con il caffè.
«E bravo a Geremia: pensi proprio a tutto» commentò il giornalista.
«Diretto’, faccio quello che posso. E poi per voi». «Naturalmente, hai anche pagato» sorrise Capece. Teatralmente Geremia portò una mano sul cuore e disse:
«Diretto’, p’ammore ’e Dio! Io una scortesia così a voi non la farei mai!»
«E io ti ringrazio un’altra volta, Geremi’» replicò il giornalista con tono chiaramente canzonatorio.
«E poi, diretto’» continuò il ragazzo in modo serio «io mi devo mettere in forze. Oggi comincio a fare l’angelo custode. Ricordo bene che stamattina usciva dal carcere l’ingegnere Orilia?»
«Geremi’, sei licenziato!» gli rispose Capece di colpo ombrato in viso.
«Diretto’, perché?» chiese in modo accorato il ragazzo.
«Vi prometto» continuò «che la prossima volta vi aspetto prima di mangiare. Anzi, se vi fa piacere, non mangio neppure. Ma mettetemi alla prova. Io so fare l’angelo custode e quei due davvero li voglio accompagnare all’inferno».
Capece lo guardò e gli sorrise affettuosamente.
«Ma cosa hai capito? Non ce l’ho con te» gli disse.
«E allora? Perché avete cambiato idea?» chiese il ragazzo.
«Perché non ce n’è più bisogno!» rispose il giornalista. «Perché?»
«Perché quei due sono già all’inferno. Ci ha pensato qualcun altro a mandarceli una volta e per tutte».
Geremia sbarrò gli occhi e con un filo di voce chiese: «Chi
è stato? Ch’è succieso?»
Capece allora raccontò al giovane cosa fosse accaduto solo
qualche ora prima e aggiunse: «Naturalmente, quelli non erano veri carabinieri. L’auto, che è stata ritrovata all’uscita di Avellino Ovest dell’autostrada, era stata ridipinta per l’occasione e neanche tanto bene. Ma i tre non ci hanno fatto caso anche perché tutto deve essere successo in pochi istanti».
«Diretto’, ’o strozzino!»
«Sì, ma non è come pensi. È molto, molto peggio! Io stento ancora a crederlo. Per questo ho fatto tardi. Poco fa ho visto una persona. Ho fatto un tuffo nel passato e non sono annegato per poco. Quando l’ho lasciata mi son dovuto fermare nel primo bar che ho incontrato e mi sono preso un cognac».
«Uh, Gesù! Ma non mi avevate detto che non bevete alcolici?»
«Non ne bevo più. Ma tanti anni fa qualche goccio ogni tanto lo prendevo. Poi non ne ho sentito più il bisogno. Ma oggi non potevo farne a meno».
«Diretto’, ma ch’è succieso?» ripeté Geremia.
Il giornalista tirò fuori dalla tasca un foglio piegato in quattro e lo diede al ragazzo, dicendo: «Leggi, leggi a voce alta. Voglio sentire anch’io».
Il ragazzo lo prese, lo aprì e cominciò a leggere:
Sono stato testimone dell’omicidio dell’ingegnere Emilio Orilia. Ero sempre arrivato sui luoghi dei delitti dopo, quando l’efferatezza criminale si era già concretizzata lasciando come risultato corpi crivellati, sangue sparso e grida disperate. Il cronista aveva preso il sopravvento sull’uomo limitandosi a catalogare tutti gli elementi utili per raccontare ciò che aveva visto. Ma questa volta non è possibile. L’orrore di vedere morta una persona con cui fino a pochi istanti prima hai scambiato parole e impressioni impedisce al cronista di fare il proprio mestiere. Le lacrime della donna riversa sul cadavere dell’uomo ti coinvolgono al punto tale che non avverti neanche il dolore fisico della pallottola che ti ha attraversato le ossa del piede. E allora le uniche domande che ti poni sono: ne valeva la pena? Emilio Orilia ha fatto bene a comportarsi come ha fatto? Orrore, dolore e commiserazione si legano tra loro. Sembrano confluire in un unico alveo che si dirige verso una sola risposta: No. Ma è proprio in questo momento che la tua coscienza deve aiutarti a remare controcorrente e ad abbandonare quell’alveo perverso. Sì, Emilio Orilia ha fatto bene, anche se così ci ha rimesso la vita. Ha fatto bene perché ha tracciato un solco in cui altri potranno camminare. Un solco rischioso, per lui mortale, ma foriero di grandi speranze per noi tutti, che siamo chiamati in un frangente così drammatico a rispettare la sua memoria e a comportarci, semmai dovessimo trovarci in situazioni analoghe, come lui per il bene comune, per dare una speranza a chi verrà dopo di noi.
Geremia aveva letto quelle ultime righe con voce rotta dall’emozione. Appena ebbe finito, deglutì per cercare di schiarirsi la voce e disse: «Diretto’, che belle parole. Sembra che le abbiate scritte voi. Ma perché sta scritto che è morto solo l’ingegnere?... e gli altri due?»
«Ma, allora non hai capito chi ha scritto quest’articolo?» «No!»
Stefano Capece si rivolse verso il cameriere, facendo segno
di avvicinarsi. Quando questi gli fu accanto, disse: «Peppi’, stammi a sentire bene. Portami un caffè ristretto con un bicchierino di cognac bello abbondante dentro».
«Diretto’» obiettò il cameriere «ma non è meglio se il caffè ve lo correggo soltanto?»
«Fai come ti dico» lo zittì il giornalista e poi, rivolto a Geremia, chiese: «E tu vuoi qualche altra cosa?»
«Diretto’» rispose il ragazzo «tengo la sottiletta bloccata nello stomaco e non va più né su né giù. Peppi’, per cortesia portami un alkaseltzer».
Il cameriere perplesso si allontanò. Geremia tornò alla carica: «Diretto’, chi ha scritto queste belle parole?»
«Possibile che tu non abbia capito, Geremia? Quell’articolo è stato scritto da Antonino Iannotti!»
«’O giurnalista? Ma chillo è stato acciso pure isso!»
«Antonino sapeva quello che sarebbe accaduto o, meglio, quello che doveva accadere e ha scritto l’articolo prima di andare a prendere Orilia con Luisa».
«Diretto’, ma che state dicendo? Ma fusseve asciuto pazzo? Il cognac vi è andato in testa?»
«Magari, Geremi’, magari. Sarei l’uomo più felice al mondo. E invece mi sento male, sono disgustato. Mi fa schifo pure la mia professione».
In quel momento, Peppino, che si era avvicinato al tavolino, mise davanti a Capece un bicchierino di cui in un sol sorso il giornalista bevve il contenuto.
«Diretto’» lo apostrofò Geremia a voce alta «vi fa male».
«Non più di quanto non stia già male. Ho fatto tardi, sai perché? Perché mi sono incontrato con Elio Tarta: era il factotum di Antonino Iannotti. Lui e Antonino hanno lavorato per anni con me in redazione. O meglio, chi prometteva bene, veramente bene, era Antonino. Sapeva scrivere, oh sì che sapeva scrivere. Ma aveva un difetto, un grande difetto: gli piaceva spendere e spandere. Aveva sempre bisogno di soldi e per questo aveva deciso di mandare a puttane la verità e scrivere come piaceva a chi sapeva pagare. Mi vidi costretto a un certo punto a mandarlo via. Lui si portò con sé Elio che era un buon ragazzo di bottega, niente di più, uno che però sa fare bene quello che gli viene ordinato. Insieme aprirono un’agenzia di stampa e poi un settimanale che è vissuto nel tempo sempre e solo con i soldi dei vari sponsor politici o di qualunque altro genere a cui Antonino ha venduto la propria penna».
«Gesù, diretto’, ma stu Antonino è l’opposto di voi. Avete allevato na serpe!» interruppe Geremia.
«Sì, lo so. Ma quello che più mi dispiace è non essere riuscito a fargli capire la bellezza della nostra professione. Ma, forse, era un compito impossibile. Antonino aveva la menzogna nelle vene. E la menzogna l’ha ucciso!»
«Che volete dire?»
«Elio mi ha chiamato oggi poco prima di pranzo e mi ha chiesto di vedermi immediatamente. Io mi sono stupito di questa richiesta. Lo credevo all’obit

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