I giorni della montagna bruna

Maria Gargotta

I giorni della montagna bruna

Menzione di merito XXXIII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2016

Descrizione

La vita di un uomo semplice, diviso tra Napoli e la Sicilia, tra la donna che ama e il richiamo della terra d'infanzia. La storia di una promessa mancata. La vita ordinaria di un'anima straordinaria. La storia "senza qualità" di un padre, narrata con elegiaca passione dalla figlia.

L'autrice

I giorni della montagna brunaMaria Gargotta è nata, da madre napoletana e da padre siciliano, nel 1957 a Napoli, dove vive. Si è laureata nel 1983 in Lettere classiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” con la votazione di 110 e lode, discutendo una tesi in Letteratura italiana sulla poetica di Giovanni Pontano. A partire dal 1987, come vincitrice di concorso, ha insegnato Materie letterarie, prima nella scuola media, poi negli Istituti secondari di secondo grado, dove insegna dal 1995. È attualmente in attività, come docente di materie letterarie, presso il Liceo Artistico di Napoli. Dal 2004 al 2014 è stata cultrice della materia negli insegnamenti di Letteratura Italiana e Critica letteraria e letterature comparate presso il Corso di Laurea in Cultura e Amministrazione dei Beni culturali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
La critica letteraria, la poesia e la narrativa impegnano il suo tempo migliore. Ha al suo attivo diversi saggi critici, tra cui con Francesco D’Episcopo la monografia Sergio Campailla. Stagioni siciliane tra narrativa e critica (grauseditore, 2008) e la trilogia La Salerno letteraria (Plectica, 2009), La Napoli letteraria (grauseditore, 2015) e Il Molise letterario di Francesco D’Episcopo, (Delta 3, 2019); due sillogi poetiche: Melancholia (Ripostes, 1989), Il silenzio della parola (Edizioni “Il Grappolo”, 2006). È autrice di sei opere di narrativa: Mnemosyne (Edizioni Oxiana, 1998); Voci al tramonto (Edizioni Guida, 2009); I giorni della montagna bruna (Città del Sole Edizioni, 2014); I fantasmi sono innocenti (Rogiosi editore, 2016); Memorie d’autunno (Rogiosi editore, 2019). Numerosi i riconoscimenti e i premi letterari, tra cui Concorso Nazionale di Narrativa “Storie di donne” (2000); Premio “Piedicastello” (2001); in due occasioni il Premio Emily Dickinson per la narrativa; Premio “Il Convivio” (2015) per la narrativa; Premio letterario “L’Iride”; Premio letterario “Mille anime di Pulcinella”; in due occasioni il Premio “Letizia Isaia”.

Leggi il primo capitolo

“Oggi è Duminica
ci tagghiamu a testa a Minica;
Minica nun c’è,
ci tagghiamu a testa o re.
U re è malatu,
ci tagghiamu a testa o suddatu;
u suddatu è a fari a guerra,
ci n’tappamu u culu n’ terra”.


Ogni tanto, nel corso dei suoi settantacinque anni, aveva lasciato che quella filastrocca infantile rifacesse capolino nei suoi racconti, riportandogli il sapore di un altro tempo, un tempo che ormai gli pareva lontanissimo e vicinissimo; il sapore di un’altra terra, la sua bella isola dai colori forti, dove l’azzurro del cielo è più azzurro che in qualsiasi altro posto, dove i profumi del mare, delle bianche zagare e dell’agrodolce impregnano l’aria, suggerendo piaceri sottaciuti. Ma quella filastrocca…, quella filastrocca, non l’aveva mai dimenticata! La canticchiava, spesso, anche da solo, nella sua testa o a voce bassa, più che mai in quegli ultimi tempi; la sua voce, un tempo bellissima, tenorile, ora diventata un po’ roca, si spezzava facilmente, ma quella filastrocca…, oh, quanto gli piaceva canticchiarla. Ritornavano, a braccetto con quelle strane parole senza senso, le immagini colorate dei giochi, dei saltelli, delle strade strette, lastricate di bianchi ciottoli marini, illuminate dal sole e sbattute dal vento sabbioso di scirocco…


Via della Verdura, come al solito, pullulava di vita. Dai banchi del pesce, stracarichi di odori marini, i venditori lanciavano le loro voci come ami per agganciare clienti, nel via vai solito di ogni mattina, che soprattutto nelle mattinate estive, a scuole chiuse, con i picciriddi sguinzagliati per via, diventava addirittura chiassoso. Ma la via era conosciuta come quella della verdura e la verdura faceva da regina sui banconi, traboccanti di colori. Certo, non era Ballarò né la Vucciria, il piccolo mercato rionale di Termini Imerese, ma la vivacità non gli faceva difetto, nemmeno nei giorni di più forte calura. Quei picciutteddi a frotte si riversavano nei vicoli attigui: le loro voci gioiose, i giochi senza balocchi, una sbarra di legno per simulare una spada, due disegni con un gessetto sui ciottoli, per saltarci dentro, cantando allegre filastrocche. Una, in particolare: <<Oggi è duminica, tagghiamu la testa a Minica…>>.
Quella mattina era festa a scuola, chissà perché, ma che importava: era festa e basta. Anche per lui era festa. Sbirciando fuori dalla porta-finestra con lo sguardo voglioso di corse in strada, si perse a inseguire il raggio di sole che, attraverso i vetri, faceva un luccicante riverbero sulle pareti. “Almeno lui, il raggio, è libero!” pensò corrucciato.
<<Michelino, ─ la voce di sua madre alle sue spalle lo fece sussultare, quasi gli avesse letto dentro il malcontento. ─ Michelino, chi fai? Si curiusu, cui talii rarreri a porta?>>
<<Nènti>>, rispose, facendo spallucce e, voltandosi, con uno sforzo per nascondere il malumore. Non voleva chiedere quello che, sapeva già, sua madre non gli avrebbe mai concesso prima del dovere. E, infatti, la domanda arrivò, irrimediabile:
<<Un ta nsignari i lezioni, ah?>>.
Si era portato svogliatamente al tavolo, aveva preso il libro, sbuffando dentro di sé, ché fuori non avrebbe mai osato. Si sedette, aprì alla pagina della poesia da imparare a memoria, con una lentezza esasperante, guardando di sottecchi sua madre, che sembrava non avere meglio da fare che restare a piano terra a riordinare. Nemmeno poteva dimostrare apertamente il suo disappunto, ma proprio non ci riusciva a far finta di niente. A differenza di suo fratello Nino, di dieci anni più grande di lui e di sua sorella Nené, anche lei di molto più adulta, che non rinunziavano mai a dire la loro, a tener testa con energia e fierezza a quella matriarca, quando gli ordini, dati con tono sempre irreplicabile, non apparivano ai loro occhi giusti, lui non riusciva a ribellarsi, se non dentro di sé. Eppure anche lui avvertiva un naturale senso di giustizia, senza averla studiata da nessuna parte. Già, la giustizia, sembrava scorrere nel loro sangue, soprattutto in quello di suo fratello e per questo lo ammirava e lo rispettava profondamente, ma ne doveva fare di strada prima di avere il suo coraggio. Se ne avesse avuto anche solo un po’, avrebbe detto a sua madre che era veramente ingiusto tenerlo chiuso lì dentro, quando tutto fuori era festa e sole.
Anche sua madre lo osservava senza darlo a parere, le doleva doversi imporre su quello che riteneva il più buono, il più mite dei suoi figli. Anche sua figlia Agostina era dolce e mite, ma Michelino, dai riccioli bruni e i teneri, grandi occhi verdi, ─ lo pensava e si inteneriva ─ forse perché era il più piccolo, forse perché…, ─ chissà perché ─ era, segretamente, il suo preferito: c’erano ragioni biologiche, ragioni di sangue che non si possono spiegare, bisogna accettarle e basta. Ma mai, nemmeno con lui, sarebbe mai voluta apparire tenera e accondiscendente: la madre doveva fare la madre e i figli dovevano imparare ad obbedire. Così avevano insegnato a lei e così doveva essere.
Era nata a Sainte Louise, nelle lontane Americhe, dove i suoi genitori avevano provato a cercare un’altra vita. Non ricordava nemmeno più quanti anni avesse quando l’avevano riportata alle radici sconosciute, in quella terra assolata e primitiva, ─ almeno così le era parsa all’inizio, appena approdata dal lungo viaggio ─ ma ricordava perfettamente che da quel momento si era sentita figlia di quella terra al punto da dimenticare tutto ciò che era stata prima: era nata nel momento in cui aveva guardato quel cielo azzurro come in nessun altro posto del mondo e si era sentita tutt’uno con quella terra, con quelle voci, che erano le stesse voci di suo padre e di sua madre, la lingua che aveva imparato da sempre, in un luogo dove la lingua era un’altra, quella che aveva appreso a scuola, in quei pochi anni in cui ce l’avevano mandata. Le piaceva studiare, avrebbe voluto continuare, ma i suoi avevano deciso che bastava aver imparato a leggere e scrivere, tanto più per una bambina: <<Ch’hai a fari? Tu sì fimmina, hai a ‘mparari a pulizziari ‘a casa, como a to matri>>, aveva risposto un po’ rozzamente suo padre alle sue pretese di continuare. Dentro di lei tutto aveva protestato. Aveva sentito le viscere gridare “no”, ma tant’era, così avevano deciso i suoi e così doveva essere. L’amore per i libri, però, quello, non era mai morto, anzi, ne aveva fatto il suo rifugio e la sua salvezza dal mondo; la lettura aveva accompagnato tutta la sua vita, anche dopo il matrimonio con un artigiano, un calzolaio del paese, e i tanti figli che il cielo le aveva mandato; la lettura era il suo cantuccio, aveva nutrito la sua intelligenza, mortificata dalle leggi ingiuste e pregiudizievoli degli uomini, al punto che a Termini Imerese tutti la chiamavano “la maestrina”, credendo che magari lo fosse davvero, davvero tante erano le cose che conosceva e che voleva ancora conoscere.
Guardò verso suo figlio, intento, almeno così sembrava, a leggere: i libri erano importanti, col tempo lo avrebbe capito. Michelino, invece, con gli occhi sulle parole, nemmeno le vedeva; aspettava, nemmeno lui sapeva cosa, qualcosa che giungesse a liberarlo.
Dalle scale il passo veloce di sua sorella Nenè, che mormorava: <<E chistu puro ‘u fici!>> e al cane che le si era fatto incontro: <<Nun acchianare, ch’aio uora uora finito di pulizziare>>. Sua sorella, come sua madre, quando voleva essere imperativa, lo era veramente:
<<E tu chi fai? ─ rivolto a lui ─ Cu chista bedda mattina ti nni stai a ‘mparare?>>. Santo Dio! Per fortuna, qualcuno veniva in suo soccorso, ma non rispose, lasciò che facesse tutto la sorella.
<<Ah, mamà, ma ‘u vidi a chistu?>>
<<Sissignora, è chistu c’avi a fari, pi ora…, poi si viri>>.
<<Ma chi fa, babbii? ─ continuò imperterrita la sorella ─ È festa, ‘u nicu è nicu…>>
<<A chistu fattu nun c’è rimedio>> la interruppe ironica la madre.
<<Ma fallu ire all’aria, ‘u vidi o no ca pallidu è, fallu jri a jiocari, fin tanto ch’è nicu! Sì fissata…>>.
<<Nenè, ─ sbottò la madre, che conosceva bene la capacità della figlia capatosta di “spirtusare” finché non otteneva ─, ora l’hai a finiri. Io decido! ‘U capisti, ah?>>.
Quando cominciavano così, due forze della natura, non la finivano più. Nenè era camurrusa, diceva sempre sua madre, ma lei non era da meno. Di solito, quei battibecchi quotidiani, quando non lo stancavano, lo divertivano, ma oggi né l’uno né l’altro, oggi non poteva essere spettatore imparziale, era una battaglia troppo vitale, per lui, tifava, senza mezzi termini, per Nenè, “ma quanno mai ce la spunta?” pensò sconsolato.
<<Vai a cucina, vai, che s’avi a cociri ‘u sucu!>> l’ordine della madre, perentorio, troncò ogni discussione.
Murmurianno e con qualche sguardo storto, Nenè, dirigendosi verso la cucina, gli passò accanto:
<<Uora ti portu quarchi cosa di duci, va bene, chi dici?>> e gli passò una mano tra i capelli.
Era proprio coccolato da tutte le donne di casa, non c’era che dire, ma quella mattina la cosa non lo confortava. Erano passati solo pochi minuti, o forse qualche ora, in cui aveva fatto finta di leggere, mentre un pensiero inseguiva l’altro ed erano tutti pensieri di libertà. Tanto ormai aveva imparato il trucchetto: il maestro chiamava otto ragazzi alla volta e in piedi accanto a lui dovevano ripetere tutti insieme le poesie. I secchioni non mancavano di certo e lui, a voce alta, ripeteva, insieme al coro, i primi versi imparati a memoria, poi abbassava la voce, facendo solo finta di recitare sulla scia dei secchioni, finché alla fine il tono si rialzava per declamare, chiari e forti, gli ultimi versi. I primi e gli ultimi versi: era sveglio ad imparare la vita e, se il maestro voleva farsi fare scemo, peggio per lui. “Tre volte bbuono”, pensava di lui, ma in fondo gli voleva bene.
Certo era che, se il maestro fosse stato lui, dall’inizio alla fine e uno alla volta avrebbe interrogato… ma chissà, forse a volte gli adulti vogliono fare i fessi…
<<Michelino! ─ la voce di sua madre lo richiamava alla realtà ─ si finisti… ma si pi davero finisti ─ e accompagnò la frase con un tono minaccioso ─ vai fora, però… ─ lo bloccò, mentre già si stava catapultando verso la porta, ─ prima va a vestiriti cu vestitu biancu, chiddu da festa>>
<<Ma mamà! ─ gli uscì, suo malgrado ─ Como fazzu a jiocari sienza insivarimi?>>
<< E tu nun t’hai a insivare. Oggi è festa e nun nesci como nu mischinu. O fai accussì o puru, nenti, nun nesci>>.
Non aveva scelta, divorò le scale e in un batter d’occhio si vestì di bianco. Praticamente una corazza alla sua smania di libertà. Lo odiava quel vestito! Che strana fissazione! Ma se non c’era verso di far cambiare idea a sua madre, pazienza, l’importante era conquistare l’uscio.
Corse fuori tra i banchi del mercato con tutta la voglia che aveva in corpo di corse e di pallone. Gli amici erano in piazza già da un pezzo.
<<Michelino, uora arrivasti?>> lo raggiunsero le loro voci gioiose, forse anche un po’ ironiche. <<Veni ca, veni a iocari, chi fai tuttu cunzatu a festa, ca pari nu pupu>> e risero sguaiatamente.
Michelino, appiattito contro il cancello della chiesa madre, si sentiva ingessato. Davvero, come faceva a giocare, tutto bianco come una colomba? Si vergognava da morire e, a debita distanza, guardava gli amici come a dei fortunati mortali. Era uscito di casa per restare lì, fermo come un baccalà, a prendersi le risate degli altri?
<<Chi fai, Michelino, veni ccà>>, gli gridarono Peppino e Pietro, i suoi amico del cuore.
D’improvviso la sua voglia di corse e di pallone esplose incontenibile. Prese la rincorsa e, senza più pensare a niente, si slanciò verso il pallone, finito in una pozzanghera. Lo afferrò con tutta la forza possibile e lo strinse con la gioia della conquista: aveva il mondo fra le mani e non importava fossero già nere e appiccicose di fango. Si volse vittorioso ai compagni che gli gridavano impazienti:
<<Dai, Michè, jttalo, chi fai?>>.
Lo tenne ancora per un attimo, gli piaceva quella sensazione di attesa, tutto dipendeva da lui. L’avrebbe provata ancora tante volte, anche solo nel raccontare le barzellette: i volti sospesi dinanzi a lui, in attesa del finale, e sempre, come in quel momento, il divertimento sarebbe stato impagabile.
Poi, senza più indecisioni, si lanciò nel vortice del gioco, dimenticando sua madre, il vestitino bianco e tutto quello che ne sarebbe derivato. La vita lo aveva atteso anche troppo, forse, chissà, osservandolo divertita o, peggio, ironica anche lei. Ora basta: era tempo di sporcarsi le mani, il vestito bianco, e di sbucciarsi le ginocchia. Qualche minuto e, schizzo dopo schizzo, del bianco del vestito non ci fu davvero più nulla, ma che importava se il mondo era suo?
La sua squadra aveva vinto, i compagni gli si avvicinarono ad abbracciare il suo entusiasmo, che aveva permesso la vittoria: <<Jamunninni ─ fece il più grande, ─ jamu a casa a manciari, ch’a si fici tardi>>.
Si incamminarono verso le rispettive case tutti insieme, cantando in coro la filastrocca di Minica: <<Oggi è duminica…>>. La voce di Michele era la più bella, aveva una naturale estensione, sia pure per una filastrocca. Anche quel cantare sotto il sole già alto era il godimento della libertà. Michele cantava a squarciagola, più forte che poteva: <<Minica nun c’è taghiamo ‘a testa ‘o rre…>>. Avrebbe voluto che quella mattinata non finisse mai, ma man mano però che uno dopo l’altro i suoi compagni salutavano per correre verso casa, l’inquietudine trovava spazio nella sua testa e rompeva la sua voce cristallina.
<<Ciao, Michè>>, fu l’ultimo a salutarlo e di colpo si rese conto che ora gli toccava affrontare le conseguenze del suo impulso fanciullesco, di pagare la sua voglia di vita. Il volto di sua madre sarebbe stato terribile almeno quanto grande era stata la soddisfazione: “Maria, ─ si ripeté ormai arrivato in prossimità della porta ─, spiramu beni”. Contava i ciottoli che lo separavano da casa, avrebbe voluto che ce ne fossero molti di più ad allungare il cammino, anche se già lo aveva allungato parecchio, entrando e uscendo da stradine secondarie, anzi, se ci fosse stata una montagna di ciottoli, grande come la montagna di San Calogero, ad impedirgli il ritorno ancora meglio sarebbe stato. Ma oramai c’era… la porta era lì, davanti a lui:
<<Bedda Matre, ─ sentì alle sue spalle la voce di sua sorella Nenè, che era andata a comprare qualcosa al mercato ─ ma chi cumminasti? Bedda, bedda matre>>, ripeté afferratolo per un braccio e fissandolo incredula.
Ma se proprio doveva pagare, inutile fare tante storie, che lo punissero e basta, quasi quasi si augurava che sua madre, sentendo Nenè, uscisse a vederlo e poi… che succedesse quel che doveva succedere. Quasi l’avesse chiamata, sua madre si affacciò alla porta.
<<Mamà…>>. Nenè non provava neanche a cercare le parole giuste, ma forse non ce n’erano. Anche l’altra sorella, Agostina, comparve sull’uscio, realizzò subito qual era la situazione, si avvicinò alla madre frapponendosi d’istinto tra lei e il fratellino, come a voler creare una barriera. Maria Caruso, apparentemente senza scomporsi, con un gesto deciso della mano, la scostò di fianco e si avvicinò al ragazzo.
Mai sua madre gli era parsa immensa come allora, come la loro montagna, con la faccia scura e gli occhi che mandavano lampi. Michelino le spalancò gli occhioni verdi, imploranti perdono. Ma non servì. Maria Caruso, senza nemmeno una parola, implacabile come la giustizia ─ o l’ingiustizia? ─ gli assestò due schiaffoni in pieno viso, poi si pulì sprezzante le mani sporche di fango sul grembiale e, incurante dei lucciconi mortificati degli occhioni bassi davanti a lei: <<Trasi, pulizziati, ch’avemu a manciari>>.
Qualche donna e i venditori si erano girati a guardare e quegli occhi puntati erano un altro duro colpo, un’altra mortificazione; qualcuno, gli era parso, aveva anche emesso, ma era un aiuto postumo, qualcosa come: <<Signora Maria, ‘u picciriddu picciriddu è>>, ma quello che faceva più male a Michelino era il silenzio, che aveva accompagnato la punizione, più duro e più bruciante degli schiaffoni davanti a tutti. A testa bassa, prese l’uscio e col cane che gli abbaiava dietro, anche lui!, salì velocemente al piano superiore.
Era rabbioso, ma si sforzava di ricacciare indietro le lacrime, che sarebbero volentieri uscite copiose come la lava, quando deve esplodere: “Fimmine, Madonna mia, ─ si diceva senza parole ─ ma chi cci capisce? Sunnu accussì… curiusi, camurrusi. Puru me soru… cu idda litania: Bedda Matri… bedda matri. Ma chi ave? Nun ave mai vistu du’ ginocchi suzzusi? E como si fa a iocari sienza insivarisi?”.
Dando mentalmente libero sfogo alle sue ragioni, ben diverse da quelle degli adulti, gli pareva di dover sopportare un’enorme ingiustizia. Era rabbioso, ma si sforzava di ricacciare indietro le lacrime. Quasi si strappò a strattoni il vestito, solo qualche ora prima immacolato, e infilò la testa sotto la fontana, più per far sbollire la rabbia che per ripulirsi. Ci sarebbe voluta una tinozza intera piena di sapone per togliere via il nero dalle gambe e dalle mani. Decise di ripulire alla meglio solo le parti più visibili, mentre il cane continuava ad abbaiargli:
<<Zittu, ─ gli gridò ─ tu puru>>.
Certo, aveva disobbedito alle condizioni di sua madre, ma, Santo Dio, vestirlo di bianco per spedirlo fuori a giocare! Era babbo lui o loro? Ma, tanto, sapeva bene che non si sarebbe ribellato. Suo fratello sì, lui si sarebbe fatte le sue ragioni; l’avvocato avrebbe dovuto fare, suo fratello, se solo avesse potuto studiare!
<<Michelino, ─ si sentì chiamare dabbasso ─ Michelino, ‘u piattu a tavola è. Ancora t’hai a lavari?>>.
Il suo stomaco era chiuso da un pugno che non poteva trovare sfogo. Non avrebbe voluto vedere nessuno, ma sarebbe stato peggio. Avrebbe fatto così: se ne sarebbe stato in silenzio, senza guardare nessuno… magari suo padre… Che c’entrava, infatti, suo padre? Pure lui doveva sopportare la terribilezza delle donne. Lui non si sarebbe mai sposato!
<<Michelino! ─ si fece sentire la voce di suo padre ─ Ancora a tia avemu aspittari? Lassù haju acchianari?>>. Meglio scendere.
A tavola ognuno aveva qualcosa da dire e da ridire; la verità è che in quella famiglia numerosa ogni componente aveva il suo caratterino, tranne, forse, sua sorella Agostina, spesso taciturna, che tra qualche anno si sarebbe maritata. Michele si sedette al suo posto a testa bassa:
<<Chi ave o picciridu?>> chiese suo padre, che solo ora pareva accorgersi dell’ostinato silenzio in quel muso ingrugnito di suo figlio.
<<Nenti, assettiti e mancia, ca’ si arrifridda>>, fu la risposta concisa della moglie. L’educazione dei figli era cosa sua e non aveva alcuna voglia di discuterne i metodi: i figli devono obbedire, anche se quello schiaffo al suo piccolino le bruciava più di quello che dava a vedere.
<<Como nenti? Michelino?>> e con una mano sollevò con ferma dolcezza il viso imbronciato del bambino. Ma niente, né una risposta né un sorriso che sciogliesse il silenzio. Capì che non era il caso di insistere, sarebbe passata da solo; era questo il bello dell’infanzia.
A tavola la zuppiera fumante di pasta, che in quella casa, sia pure modesta, non mancava mai, anzi era il piatto del pranzo e della cena, profumava di pomodoro fresco. Michelino ne era ghiotto, avrebbe mangiato pasta anche la notte per saziare la sua fame endemica, nonostante l’esilità del suo fisico delicato. Ma non avrebbe dato soddisfazione, non avrebbe mangiato, si sarebbero preoccupati… o forse no, forse sua madre l’avrebbe presa come una nuova provocazione e magari ci scappava anche un’ altra buffazza… magari un pugno allo stomaco davanti al piatto fumante che sua madre gli stava mettendo davanti, dopo aver servito il marito. Madonna mia, se aveva fame! Le corse all’aria aperta appresso al pallone facevano il loro effetto, suo malgrado e malgrado la rabbia e la mortificazione. Lentamente, senza guardare in faccia nessuno, prese a mangiare, dapprima piano piano, poi sempre più voracemente. Per un attimo sollevò lo sguardo e incontrò il volto di suo padre, che, mangiando mangiando, lo guardava col sorriso negli occhi, così simili ai suoi, grandi e dolci. Quello sguardo, quel sorriso lasciarono cadere completamente ogni malumore e continuò a mangiare con un appetito più felice.
Aveva terminato in fretta, prima di tutti quanti gli altri. Ma tanto erano tutti intenti a discutere e l’argomento non era dei più felici: sua madre e sua sorella non perdevano occasione, ─ e ogni occasione era buona ─ per criticare che suo fratello Nino frequentasse tanto la famiglia Matricia, <<gente di pescatori>>, poco adatta a loro, che per di più presentavano un pericolo in più: una figlia quasi in età da marito.
“Ma non erano anche loro povera gente?” pensava Michelino, mentre osservava Nino, che con forza difendeva le sue scelte. Ma, appunto, se l’era appena detto, le donne sono proprio insopportabili.
Nel clamore delle voci, che si accaloravano e si accalcavano, Michelino se ne stava lì col piatto ormai vuoto e ancora tanta fame da saziare, quando sentì la voce di sua madre, che con la testa chinata verso di lui:
<<Ne vuoi ancora?>> gli chiese con sua grande meraviglia. Allora non ce l’aveva più con lui? La guardò un po’ smarrito e non c’era più nulla del volto scuro e terribile di poco prima; sua madre lo guardava complice e invitante. Poteva osare: <<Sì, sì>>, disse piano, perché gli altri non sentissero, ma deciso. Eppure, la zuppiera era vuota! Con meraviglia ancora maggiore vide il gesto di sua madre, che lasciava scivolare dal suo piatto i maccheroni ancora avanzati in quello suo vuoto, accompagnando il gesto furtivo con un’espressione di incoraggiamento a mangiare. Era il suo modo di fargli una carezza sulla guancia ancora dolente. Michelino si sentì il cuore scoppiare di gioia, più ancora che per i maccheroni, per il fatto di aver ritrovato sua madre.
E sua madre, fimmina o non fimmina, era sua madre!

Booktrailer


I Luoghi del romanzo

Grand Hotel delle Terme
Il teatro comunale
L'antica Termini Imerese
Porta Messina
Resti archeologici dell'antica Himera
Stazione ferroviaria
download
panorama e Monte S. Calogero
piazza Sant'Antonio
scalinata di via Roma
via Roma
via errante

Gallery

I giorni della montagna bruna
I giorni della montagna bruna
I giorni della montagna bruna
I giorni della montagna bruna
I giorni della montagna bruna
I giorni della montagna bruna


Torna ai libri