Il bambino del treno

Paolo Casadio

Il bambino del treno

Primo premio Narrativa edita XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018

Descrizione

Era una valle innocente, popolata da famiglie semplici, pacifiche, frugali. Una valle dove nulla era stato lasciato al caso e ogni gesto, ogni pietra e ogni persona aveva il suo significato e la sua storia. E i suoi istanti di felicità.
C’è una promessa di dolore nella felicità, una promessa puntualmente mantenuta. Si chiama destino.
Nel ‘35, quando la famiglia Tini giunse alla stazione rosa perlino, sentì l’innocenza di quella valle come garanzia della propria sicurezza e così fu per lungo svolgersi.


Nel frattempo il mondo antico andava in dissoluzione, le regole si frantumavano nel nome di un ordine nuovo e pericoloso che suddivideva le persone in due categorie: chi nasceva dalla parte giusta e chi da quella sbagliata.
Una sera d’inverno in quella valle innocente arrivarono persone nate dalla parte sbagliata. Arrivarono in un modo che si pensava dimenticato.
“Siamo fermi in una stazione di montagna che si chiama Fornello”, tentarono di comunicare, e fu inutile. Quella gente era diretta verso il vuoto, verso il niente, verso luoghi di cui nessuno poteva cogliere le autentiche dimensioni.
Chi, invece, apparteneva alla parte giusta, non avrebbe rischiato nulla, a condizione di non vedere, non sapere, non opporsi.
Ma i sentimenti – al pari degli eventi – sono incontrollabili, e il destino diventa imprevedibile. L’innocenza è perduta, anche per i bambini. Non sarebbero tornati mai al punto di partenza, perché non esiste una partenza e un arrivo. C’è soltanto il viaggio, e qualcuno che ti tiene per mano.
E qualcuno che li avrebbe ricordati.

L'autore

Il bambino del treno

Nato a Ravenna nel 1955, figlio di una generazione cui i genitori non insegnavano il dialetto, s'interessa da anni alla lingua e ai racconti della sua terra. Esordisce come coautore con il romanzo Alan Sagrot (Il Maestrale, 2012). La quarta estate, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, è il suo primo romanzo come autore singolo.

La parola alla Giuria

“Il bambino del treno” di Paolo Casadio è un romanzo ambientato durante gli anni terribili della dittatura fascista e della Seconda Guerra Mondiale. Il dramma degli ebrei e della deportazione nei campi di concentramento, è visto attraverso gli occhi di chi assiste “dall’altra parte del binario”, consapevole di una immeritata salvezza che nasce da una mera formalità anagrafica. E’ un libro che approfondisce i drammi della coscienza di tanti italiani costretti a subire una storia che non hanno scelto, vittime di una dittatura che non sempre riusciva ad imperare anche sulle coscienze. Il protagonista, un capostazione, vede passare sui binari, concretamente e metaforicamente, i treni dell’odio e della violenza. La sua ribellione, per quanto possa apparire titanica, isolata e inconcludente, non è vana: ragione e amore vincono sempre per l’intera umanità, anche nella mente di pochi individui isolati. “Il bambino del treno” ci ricorda che quando la Storia con la s maiuscola va dritta verso l’orrore c’è sempre la possibilità di arrestarne la corsa, seppure per l’unico binario del destino proprio e di quanti compiono insieme a noi uno stesso tratto di strada.
Concita De Luca

Leggi il primo capitolo

Quando Romeo Tini

Quando Romeo Tini arrivò alla stazione di Fornello, il mattino del diciotto giugno 1935, era stato concepito da circa sei mesi. Suo padre Giovannino avrebbe voluto farlo nascere a Faenza, nella casa di famiglia dov’erano venuti al mondo tutti i Tini da oltre un centinaio d’anni e dove, di regola, avrebbero dovuto continuare a venire al mondo.
Ma il telegramma delle ferrovie è perentorio e non lascia alcun margine: “Presa di servizio immediata”. E l’aggettivo è sottolineato. Se tanto non avviene dovrà rinunciare al posto di capostazione e continuare nel lavoro di casellante fino al prossimo concorso.
La differenza di stipendio, ragiona Giovannino, è troppo elevata e giustifica tanto sacrificio, e allora ubbidisce e parte con moglie incinta, un cane silenzioso d’incerta razza nominato Pipito, due biciclette e le masserizie. Tutti e tutto a bordo di un vagone bagagliaio verde sporco trainato da una locomotiva 875, uno sgraziato bruco nero da manovra che ha nei biellismi un’artrite devastante.
Giovannino Tini non sapeva ancora che suo figlio si sarebbe chiamato Romeo. Lui, per la verità, pensava di perpetuare la tradizione familiare appartenuta a suo padre, ai suoi nonni e così via: Giovannino era il babbo del suo babbo e il babbo del nonno faceva Anselmo, quindi a quel figlio primogenito – ché doveva essere un maschio – avrebbe imposto il nome di Anselmo. Così si era usato e così si sarebbe sempre usato, perché le tradizioni reggono il domani.
Lucia Assirelli, la moglie del futuro capostazione, aveva sei anni in meno del marito - il che veniva a dire ventuno - e un carattere testardo da cittadina. Possedeva anche altre qualità interessanti, quel tipo di qualità in grado di far perdere le coordinate a un uomo. Ben tornita, la pelle di pasta bianca e soda, caviglie sottili da ballerina e seno alto, ricordava decisamente le provocanti signorine di Gino Boccasile che rallegravano la fantasia degli italiani dalle copertine del settimanale “Grandi Firme”. E ballerina era davvero, non mancando alcuna delle feste in cui c’era musica perché amava essere giovane, amava la vita, amava essere corteggiata e desiderata. Ma il gioco - e di gioco si trattava - finiva lì e bóna: Lucia era innamorata del suo Giovannino, credeva con fermezza in quel matrimonio tra una ragazza della piccola borghesia faentina e il figlio di un ferroviere, e non aveva dubbi sul presente e sul futuro. Per assicurarsi un futuro a volte occorre incoraggiarlo e i pantaloni in questo caso li indossava lei.
Giovannino, di suo, lavorava. Lavorava e studiava per quel concorso che gli avrebbe consentito il salto di carriera, passare da un casello sperduto nella bassa romagnola a una stazione vera, dove sarebbe stato il capo. Per incoraggiarlo – e per incoraggiare il futuro – Lucia non aveva smesso un istante di raccomandare al marito:
« Prendi quella cimice».
Perché i tempi erano quel che erano e a poco valeva meritare, esser bravi sul lavoro, dimostrare serietà e capacità. L’avanzamento, tutti lo sapevano, si riservava ai tesserati del PNF, a chi poteva ostentare all’occhiello della divisa ferroviaria quel distintivo a forma ovale che ricordava le cimici.
Così l’adesione venne. Un’adesione, però, non pienamente convinta, provenendo Giovannino Tini da una famiglia di socialisti che socialisti restavano: nessuno di loro a sognarsi di voltar gabbana a imitazione dell’invitto capo.
Così la promozione, a sua volta, venne. Una promozione anch’essa non pienamente convinta, data la tardività dell’adesione, e che aveva il sapore della beffa.
Fornello.


Una pagina letta da Peppe Basta


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