Il ricamo mortale

Pironti Editore

Il ricamo mortale

di Patrizio Fiore -2016

Editing e impaginazione: Gennaro Regina

Premio "Gelsomino D'Ambrosio" (migliore copertina) XXXIV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2017

Una giornata come tante, nell'ambulatorio per extracomunitari dell'ospedale "Loreto Mare". Orazio Niccoli, che ha fatto del suo lavoro una missione, si trova di fronte a un caso singolare: un mesotelioma pleurico in una ragazza di 28 anni, patologia insolita per quell'età, solitamente riscontrabile in chi è stato per lungo tempo esposto alle fibre di amianto. Poco più avanti, nel suo ufficio Roberto Andolfi, autorevole esperto sui rischi collegati proprio all'amianto, è in fibrillazione per l'imminente arrivo di Arthur Danson, massima autorità in materia di malattie professionali. Intanto, nell'hinterland partenopeo si consuma un delitto misterioso, destinato a suscitare grande clamore: il corpo senza vita del notaio Romano Contri, rampollo di una delle famiglie della Napoli che conta, viene ritrovato nella sua auto, sull'asse mediano, all'altezza dello svincolo per Aversa. II giornalista Lorenzo Grimaldi, pur tormentato da problemi familiari, si mette alla ricerca della verità, chiedendo aiuto alsuo vecchio maestro, il "cane sciolto" Attico, al secolo Geremia Tolino, direttore del giornale "Camera con vista" e custode di tanti segreti della capitale del Mezzogiorno. Sarà proprio Attico a collegare tra loro i vari fili intessuti da colui che ha ordito un raccapricciante ricamo, foriero di morte: il misterioso "duca", personaggio spietato e senza scrupoli.

La parola alla Giuria

Il libro di Patrizio Fiore è realizzato della Tullio Pironti Editore, casa editrice di lungo corso, radicata sul territorio partenopeo a partire dal 1972, le cui origini possono essere fatte risalire però addirittura al periodo preunitario “…I suoi avi iniziarono l’attività libraria dopo la persecuzione subìta nel regno borbonico da Michele Pironti, magistrato, imprigionato insieme a Luigi Settembrini, Carlo Poerio e altri patrioti, che fu poi ministro della Giustizia dopo l’Unità d’Italia...” Proseguendo l’attività del padre e del nonno, Tullio Pironti (classe 1937) ha creato una casa editrice attenta e sensibile alle diverse anime che agitano il capoluogo campano, con particolare attenzione a nomi che hanno contribuito in maniera forte e decisa al giornalismo italiano, primo fra tutti, il compianto Giuseppe Marrazzo che con il suo Il camorrista ha aperto uno squarcio sulle dinamiche che agitavano la delinquenza organizzata e le insane relazioni di essa con la politica in quegli anni. Oltre agli italiani, Pironti ha fatto conoscere opere di autori stranieri del calibro di Don De Lillo, Bret Easton Ellis, Raymond Carver e del premio Nobel egiziano Naghib Mahfuz, letteratura e reportage giornalistici di grande spessore come quelli di David Yallop, John Cornwell, Philipp Willan, Leopold Ledl, Richard Hammer, sulle clamorose vicende finanziarie del Vaticano e sulla morte di Papa Luciani.
Descrizione della copertina: la copertina per il volume di Patrizio Fiore appare essenziale e semplice, sia in termini compositivi che cromatici. In essa è rappresentato, nella parte mediana ed in modo stilizzato, il Vesuvio, da cui fuoriesce un pennacchio di fumo che taglia verticalmente la parte superiore della copertina in due parti, cui si sovrappone una ulteriore eruzione che ricorda, per la conformazione che assume, un albero simile alla modalità frattale con cui Bruno Munari ci raccontava graficamente la sua crescita, ma ricorda anche la struttura alveolare dei bronchi umani, (forse un omaggio all’attività di Patrizio Fiore) ed allo stesso tempo la modalità secondo la quale è possibile fare ricerca nella rete.
La forma “eruttata” dal Vesuvio, inoltre, ricorda anche la struttura fragile e complessa di certi merletti ricamati all’uncinetto (chiacchierino o macramè). Fumo e “ricamo”, dicevamo si sovrappongono, ma le diverse intensità cromatiche di essi conferiscono alla composizione profondità e volume. A richiamare la forma dei rilievi montuosi, nella parte bassa della copertina, un triangolo (simbolo alchemico del fuoco) all’interno del quale, in caratteri minuscoli lineari, è inserito il logo della casa editrice. In alto a sinistra, il nome dell’autore ed al centro, sovrapposto alla base del pennacchio/albero/ricamo, il titolo dell’opera. Cromaticamente, la copertina è caratterizzata dal gioco di contrasti di colori complementari arancio/blu cobalto-blu oltremare sfumato, a formare il mare ed il cielo, separati dal rilievo montuoso del monte Somma. Lo stesso triangolo, su sfondo nero, lo ritroviamo nella quarta di copertina, solo che al posto dell’arancio e del logo, è inserito un frammento dei rami/ricami che compongono il “pennacchio” della prima di copertina, come se stessimo spiando attraverso un foro triangolare aperto su questa. Anche le bandelle laterali  e il dorso sono neri, accentuando così l’effetto di straniamento e di isolamento che la prima di copertina ha rispetto al resto.
L’opera è stata realizzata su carta in acrilico, tecnica dalla campitura densa ed eterea allo stesso tempo, ben lontana però dalle calde pastosità della pittura ad olio, che ben si presta quindi ad una composizione apparentemente irreggimentata, ma, in realtà, inquietante e metafisica, a metà strada tra il calor di fiamma del golfo partenopeo (l’arancio) e il freddo glaciale e sotterraneo (il blu) dei troppi misteri che vivono, convivono e sopravvivono in esso, contrasto che ben si presta alla trama del noir costruito dall’autore. L’autore della copertina, Gennaro Regina non è nuovo ad incisioni pittoriche che abbiano come tema lo skyline del Vesuvio. Ricordiamo le sue serie limitate “Le eruzioni del Vesuvio di Gennaro Regina” realizzate anch’esse in acrilico su carta, ma cromaticamente più libere, i cui titoli, a parità di immagine (sorta di cifra stilistica dell’autore), ironicamente citano alcuni dei topoi tipici della napoletanità (Acqua, Aglio, Anima), in un percorso personale di fatto originale ed innovativo.
Claudia Imbimbo

Il ricamo mortale

Leggi il primo capitolo

venerdì, 23 marzo 2008
L’ampio sterrato mal illuminato e disseminato di asfittici ciuffi d’erba, che fungeva da parcheggio dello Yachting Club Varcaturo, fu per qualche istante illuminato dai fari delle due auto che, in fila indiana, erano appena giunte e cercavano dove sostare. Quello che era alla guida della prima auto, una Mito, appena ebbe individuato un posto libero, con rapidità e scioltezza fece manovra, per inserirsi in retromarcia tra altre due vetture di grande cilindrata. Poi, con altrettanta rapidità, aprì lo sportello, lo richiuse, pigiò sul telecomando dell’antifurto, si avvicinò all’auto che lo aveva seguito, che, nel frattempo, si era fermata a motore acceso nelle immediate vicinanze e, rivolto al conducente, che aveva abbassato il finestrino dal proprio lato, disse:
«Gaetano, non c’è bisogno che tu mi segua dentro. D’altronde, non ti farebbero entrare. Resta qui. Cercati un posto e spegni il motore. Io non credo di fermarmi a lungo. Non dovrai attendere molto. Se c’è Gerardo, il cameriere, vedo di farti portare qualcosa da bere, tanto tu non sei un militare, puoi bere anche in servizio».
Queste ultime parole furono accompagnate da un leggero sorriso che qualcuno, se fosse stato presente, avrebbe forse potuto definire malinconico. Ma, se veramente qualcuno avesse assistito alla scena, sarebbe stato ben altro a stupirlo. Difatti, quanto raffinato ed elegante appariva l’uomo che aveva parlato, altrettanto sgraziato era chi lo ascoltava, seduto nella propria vecchia e scalcinata Punto, con le grosse mani che ghermivano il volante, il volto decisamente ebete e lo sguardo che, sebbene rivolto al suo interlocutore, sembrava perso nel nulla.
L’uomo rimasto alla guida della propria auto annuì senza proferir parola e, mentre l’altro, con passo degno dell’eleganza che esprimeva, si allontanava rapidamente, si guardò intorno alla ri-
cerca di un posto dove parcheggiare. Trovatolo, uscì dall’abitacolo e si appoggiò al cofano, accendendosi una sigaretta. L’osservatore precedente ora sarebbe rimasto ancora più convinto della sua prima impressione: addossato alla Punto vi era uno sgradevole ammasso di muscoli. Ma, forse, il sordo rumore metallico avvertito quando l’uomo si era poggiato all’auto, prima di accendersi la sigaretta, gli avrebbe consentito di afferrare la situazione.
Gaetano, come l’aveva chiamato l’uomo distinto, era una guardia del corpo e quel rumore indicava che al fianco portava una pistola sicuramente pronta all’uso, se ce ne fosse stato bisogno. Ma perché un uomo tanto raffinato doveva aver bisogno di una guardia del corpo? E poi, perché non prenderne una più professionale?
Le sigarette accanto all’auto divennero presto più d’una. Gaetano con un piede le allontanò. Fu in quel momento che sentì il proprio nome. Si voltò. L’uomo da sorvegliare era tornato. Aveva un’andatura ancora più veloce di prima. Non gli si rivolse neppure, andò diritto verso la Mito parlando a voce alta:
«Lo sapevo», riuscì a sentire Gaetano, «che non c’era da fidarsi di quell’uomo... ma perché mi ha fatto venire sin qui stasera? Appena torno, mi sente. Con chi crede di avere a che fare?».
Stava per entrare in auto quando si voltò verso il suo bodyguard che lo aveva seguito e riacquistato un tono più pacato gli disse:
«Gaetano, continuiamo il nostro programma. Ci reimmettiamo sull’asse mediano in direzione Piazza Garibaldi. Quando siamo alla Stazione Centrale ci separiamo. Io sarò fuori per qualche giorno. Non ho bisogno di te. Ti faccio un colpo di telefono quando rientro».
L’ammasso ambulante di muscoli annuì nuovamente e tornando sui suoi passi salì anch’egli in auto e si accodò alla Mito. Questa, reimmessasi sull’asse mediano, iniziò a percorrerlo a velocità sostenuta. Poco prima dello svincolo di Aversa, la Punto
ridusse di molto la distanza e fece lampeggiare i fari azionando in contemporanea la freccia di destra. L’uomo distinto frenò e azionò anch’egli la freccia destra imboccando subito dopo lo svincolo, immediatamente seguito dalla Punto.
Erano sicuramente le 15,00.

martedì, 13 maggio

Era facile capirlo. A quell’ora, l’angusta stanza che funzionava da sala d’attesa, nell’ambulatorio per extracomunitari dell’Ospedale Santa Maria di Loreto Mare, si gremiva con una rapidità che allo spettatore all’oscuro di quel “rito” sembrava davvero sorprendente. In pochi minuti, in quello spazio di tre metri per tre, si accalcavano persone di ogni nazionalità che vi giungevano praticamente in contemporanea. Gente di ogni razza ed età, vestiti alla meno peggio, con volti e corpi segnati dalla fatica e dalla malattia, accompagnati spesso da bimbi, che molte volte erano il motivo della presenza in quel luogo. In genere, s’incontravano dinanzi all’ingresso dell’ospedale dalla tarda mattinata. Le guardie giurate non facevano neanche più caso ai piccoli gruppi che si formavano lì davanti, suddivisi per etnia. A volte, preoccupati di giungere in tempo, vi restavano in attesa per ore. E sì perché, nei giorni di apertura, presso l’ambulatorio non si potevano fare più di 25 visite alla volta. Un carico di lavoro davvero gravoso per i due medici di turno, che li costringeva spesso a far tardi la sera, specialmente quando il caso sotto esame, per gravità della patologia o, più semplicemente, per la difficoltà di capire cosa l’interlocutore lamentasse e farsi comprendere da questi, assorbiva molto più dei dieci minuti previsti dalla Direzione Sanitaria, sulla scorta della letteratura relativa all’altisonante “Medicina dei migranti”.
Due volte, ogni settimana, si ripeteva questa liturgia della salute che aveva i propri canoni: l’attesa, la visita, il dopo. Chi aveva partecipato almeno una volta a questo rito e quindi aveva appreso i rudimenti della difficile tutela della propria salute, sapeva ormai che in quella circostanza bisognava essere due volte fortunati. Se la prima fortuna era quella di rientrare tra i 25 che
sarebbero stati visitati quel pomeriggio, la seconda, immensamente più importante, era, invece, capitare con lui, il dottore gentile e disponibile, che si faceva chiamare per nome, Orazio, che stava lì ad ascoltare gli stentati racconti dei loro mali, che non si spazientiva, a differenza degli altri colleghi, se non si facevano comprendere o magari litigavano tra loro per trovare le parole giuste per farsi intendere. Il dottor Orazio, Dorazio o Dorazo, come, a seconda della propria lingua, i pazienti lo chiamavano, era sempre pronto ad attendere, con quel suo sorriso bonario, la fine dei conciliaboli familiari che sancivano la sequela di sintomi e dolori; a fare domande, anche in inglese o francese se l’italiano era ancora troppo ostico; a visitare, a dare cure e soprattutto consigli. Incarnava la speranza di salute per quella gente, per qualcuno addirittura la speranza che vi fossero tanti altri “dottor Orazio” in quel tessuto sociale così diverso dal proprio d’origine e con il quale dovevano fare i conti giorno per giorno.
Inizialmente il dottor Orazio era di turno il martedì, così che, sparsasi la voce, questo giorno, a differenza del venerdì, era caratterizzato da un grande assembramento che spesso sfociava in veri e propri tafferugli. Ma la Direzione Sanitaria era corsa ai ripari: aveva imposto al sanitario che solo a inizio settimana fosse deciso quale giorno dedicare all’ambulatorio. In questo modo, anche se a malincuore, ai frequentatori dell’ambulatorio non era rimasto che sperare nella doppia fortuna.
«Direttore, c’è il professor Danson in linea da Londra, te lo passo?».
La voce di Giulia, la sua segretaria, fu per Roberto Andolfi quasi una liberazione. Attendeva con ansia quella telefonata. Dalla risposta che il suo interlocutore telefonico gli avrebbe fornito, dipendeva una buona parte del proprio futuro. Arthur Danson, professore di Medicina del Lavoro nella London School of Public Health, era considerato la massima autorità internazionale sulle malattie professionali dei videoterminalisti e lui era riuscito a strappargli, dopo un’asfissiante corte durata un anno, una promessa: avrebbe valutato attentamente l’incarico di supervisore dell’indagine che la fondazione per lo Studio delle Malattie Professionali, di cui era il team leader per l’area di ricerca, stava conducendo su oltre tremila addetti ai videoterminali in tutta Italia. In ballo c’era un finanziamento per la fondazione da parte del Ministero della Salute di un milione e mezzo di euro, che avrebbe potuto consentire l’avvio di altre linee di ricerca, meno battute ma altrettanto interessanti.
Roberto prese la comunicazione, cercando di dissimulare l’ansia.
«Hi Arthur», esordì, «how are you? When will you arrive in Naples?».
Seguì un attimo di silenzio, rotto da una sonora risata:
«Roberto», rispose il luminare anglosassone, «mi sto esercitando a parlare la tua lingua. Che significa questo?».
«Che hai deciso di venire a mangiare la pizza e a sentire i miei meravigliosi assoli di mandolino».
«Il cielo mi aiuti a evitare le tue penose esibizioni musicali. Se suoni il mandolino come hai suonato il piano qui a Londra, allora mi rimangio la mia decisione».

lunedì, 19 maggio
«E allora non tenermi più sulle spine: cosa hai deciso?».
«Accetto, accetto. Ho già comunicato qui all’istituto che nei prossimi mesi farò la spola con Napoli».
Roberto tirò un grande sospiro di sollievo. Sperava in questa risposta, ma non ne aveva la certezza. Si alzò dalla sua sedia e cominciò ad andare avanti e indietro per la stanza. Non era più nella pelle, il lavoro di tanti anni stava finalmente dando i suoi frutti.
«Arthur», aggiunse raggiante con un tono di voce decisamente più rilassato, «sei un vero amico. Ti ringrazio anche a nome dei miei collaboratori. La tua presenza a Napoli significa tanto per la nostra fondazione, è una sorta di esame superato a pieni voti. Convoco subito il comitato direttivo per comunicare la bella notizia. Sai già anche quando inizierai?».
«Non ancora. Ho alcune situazioni da sistemare. Ti richiamo la prossima settimana e ti faccio sapere».
«Ok my wonderful friend. Let me know about you».
«Dimentica l’inglese, Roberto. Ho bisogno di un maestro di napolitano».
«A vostra disposizione, mister. Con l’accento sulla e, com’è d’obbligo dalle nostre parti».
«Mistèr. Bene, farò tesoro della prima lezione. A presto Roberto».
«A prestissimo Arthur e grazie ancora».
C’era riuscito. Sì, le cose giravano davvero nel verso giusto. Arthur in Italia e i fondi del Ministero nelle casse della fondazione. Che cosa poteva volere di più in questo momento? Niente. Il tanto tempo dedicato al lavoro aveva finalmente sortito gli effetti desiderati. Dodici ore al giorno per almeno cinque giorni settimanali negli ultimi tre anni non erano trascorse inutilmente. Aveva investito tanto, rinunciando anche alla vita privata, ma ora riusciva a vedere tutto in un’ottica diversa, caratterizzata da orizzonti vasti e senza limiti. Il tempo per sé? Una dimensione a lui praticamente ignota. Da quando aveva finito gli studi ed era diventato medico interno volontario, nell’Istituto di Medicina
del Lavoro della facoltà di Medicina, aveva sempre e solo lavorato, per imparare prima e per i suoi studi di ricerca poi, acquisendo una dimestichezza e un’esperienza, che gli avevano consentito di far emergere una sua innata capacità, quella manageriale, in cui convogliare competenza e gestione delle risorse umane e strumentali.
Più di una volta, negli ultimi mesi, pur risucchiato dai molteplici impegni, si era fermato a chiedersi se ne valesse la pena, giunto ormai alla soglia dei 50 anni. Aveva rimandato ogni risposta a tempi migliori, forse preoccupato per l’esito.
Sull’altare del successo aveva immolato una parte di sé. “Single per scelta e per necessità” era solito definirsi. Sì, qualche storia l’aveva avuta, anche di un certo spessore. Ma nessuna donna era riuscita a scalfire la passione quasi morbosa per le carte e gli studi. Quando alla fine lo capivano, tutte, regolarmente, lo piantavano. Forse l’unica storia più coinvolgente era stata con Giulia. Non era durata moltissimo, ma l’aveva convinto a considerare seriamente l’eventualità del matrimonio. Poi, di punto in bianco, tutto era tramontato per tornare nell’alveo più normale di una solida amicizia, fatta anche di complicità. Oggi Giulia era la sua più valida collaboratrice. Formalmente era la segreteria dell’area, in pratica gli manteneva i contatti dentro e fuori la fondazione. Giulia aveva imparato a conoscerlo e, pur non condividendo tanti aspetti, sapeva interpretare il suo pensiero. Raramente aveva dovuto discutere con lei per motivi di lavoro e questo gli lasciava più tempo da dedicare agli impegni sostanziali.
Gli impegni sostanziali. Sì, appunto come quelli che derivavano proprio dalla telefonata di Arthur. Non bisognava perdere tempo. Alzò il cordless e digitò il due. Gli rispose Giulia:
«Direttore, dimmi».
«Ma perché ti intestardisci a chiamarmi direttore?».
«È una buona abitudine, anche nei confronti degli altri. Cerco
sempre di far attenzione a quando darti del tu e quando del lei». «Mah, fai come vuoi. Senti, Giulia, abbiamo fatto centro.
Arthur Danson viene a Napoli».
«Complimenti, ancora una volta hai avuto ragione».
«Il merito non è solo mio, ma di tutti, te compresa. Dai, convoca il comitato direttivo. Mi fa piacere comunicarlo a tutti e decidere il da farsi».
«Ma sono le quattro, non è un po’ tardi?».
«No, approfittiamo che oggi ci sono tutti in fondazione. Tanto non impiegheremo molto. Convocalo tra un’ora, alle sei avremo terminato. Con l’occasione parleremo anche dei progetti da sottoporre al Ministero».
«D’accordo, ma io non mi trattengo fino alla fine». «Perché?».
«Perché oggi è lunedì e, come al solito, non ti ricordi che sta-
sera c’è il burraco a casa di Sandro e Caterina. E certo non mi posso presentare in disordine. Lo sai come ci tengono tutti a presentarsi sempre alliccati a casa D’Ercole. Tutti tranne te».
«Ed è per questo che io non vengo quasi mai. Anche stasera scanserò questa botta in fronte. Fai tu le mie scuse ai padroni di casa. Ormai ci hanno fatto l’abitudine».
«Sei proprio un orso. Con gli anni non sei migliorato».
«Non ci credo che pensi questo di me. Altrimenti perché continueresti a farmi da angelo custode?».
«Vedi c’è chi adotta un cane, un gatto, un uccellino. Io ho adottato te. Questo però non m’impedisce di vedere tutti i tuoi difetti e sono proprio tanti».
«Ah, allora cambia tutto. D’ora in poi ti chiamerò mammina».
«Non ti permettere. Sono più giovane di te, ma portami comunque rispetto».
«Va bene, va bene, non litighiamo, altrimenti sembra proprio che stiamo assieme».
«Ho scansato una volta questo rischio e mi basta», e riprendendo un tono più formale, aggiunse: «Allora direttore mi conferma il comitato direttivo per le 17,00?».
«Certamente signora», Roberto assecondò il tono di Giulia.
«E mi conferma anche l’impossibilità a partecipare al burraco di casa D’Ercole stasera?».
«Confermo. Anzi», riprese in tono più confidenziale, «facciamo così, stasera quando torni a casa dopo il burraco chiamami e mi racconti due inciuci. Lo sai che mi distraggono un po’».
«Ma si farà tardi. Noi finiamo intorno alla mezza».
«Non c’è problema, lo sai che resto sveglio fino a tardi». «D’accordo».
«Giulia, senti, non farmi disturbare in quest’ora. Vorrei eva-
dere un po’ di posta elettronica e leggere la relazione che mi ha preparato Ruggiero».

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Il ricamo mortale
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