Il tocco del maestro

Annalisa Pardi

Il tocco del maestro

Terzo premio ex aequo Narrativa edita XXXVII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2021

Descrizione

Svezia, 1899. Il giovane falegname Jan Axelsson coltiva il sogno ambizioso di diventare uno scultore. Quando uno dei maggiori artisti svedesi giunge a fargli visita nella bottega del paese, Jan resta incredulo di fronte alla sua proposta: è infatti invitato a trascorrere sei mesi nella residenza estiva del maestro Arthur Wadenius, per divenire suo apprendista e aiutarlo nella realizzazione di un trittico marmoreo. Il celebre scultore è ormai stanco, oppresso dall’asma e provato dal troppo lavoro e resta affascinato dalle capacità del ragazzo prodigioso. Ma la presenza del giovane sta compromettendo il fragile equilibrio familiare e Wadenius organizza il matrimonio di sua figlia Nora con il medico Gustav Lind, affinché la loro unione possa impedire l’avvicinamento tra lei e l’umile artigiano. Attraverso la dedizione, lo studio e la pazienza, Jan Axelsson si troverà a dover fronteggiare le trappole, le umiliazioni e il complicato carattere del suo maestro. Il giovane apprendista dovrà orientarsi tra i segreti, gli inganni, i tormenti e le vicissitudini che è costretto a subire, per portare a termine il lavoro e raggiungere la sua consacrazione artistica, senza mai cedere al desiderio di conquistare la giovane amata.

L'Autrice

Il tocco del maestro

Annalisa Pardi è nata a Pisa nel 1981. Laureata in Lettere, si è specializzata in Storia del Teatro e della Drammaturgia. Nel 2003 ha fondato la compagnia teatrale Quieta Movere per la quale compone numerosi testi drammaturgici. Nel 2018 ha dato vita allo spazio Balabiòtt-tana d’artista, sede dell’omonima associazione di promozione sociale per arte, teatro e cultura. Con Leone Editore ha pubblicato Trio (2014) e A solo (2016). Attualmente insegna teatro, danza e burlesque e tiene corsi di dizione e scrittura creativa.

La parola alla Giuria

Un romanzo sui generis, insolito per le vicende narrate, intrigante per i risvolti psicologici, addirittura inquietante per ciò che di oscuro, di ambiguo ed enigmatico fa emergere dall’abisso dell’inconscio e dal mistero impenetrabile della psiche.
L’autrice scandaglia le latebre più inaccessibili della mente, che producono comportamenti sconcertanti, atti imprevedibili, situazioni impressionanti, lasciando il lettore col fiato sospeso e tenendolo, fino alla fine, sul “filo del rasoio”.
L’incontro tra uno scultore svedese famoso ed un giovane apprendista, che sogna di diventare come lui, dà inizio alla storia, che via via si complica e, poi, si dipana fino alle soluzioni finali, che riservano ancora colpi di scena e sorprese, in un gioco folle, ossessivo, a volte crudele, che ha del tragico e dell’incredibile.
Una narrazione avvincente, che si avvale di uno stile di scrittura attento, estremamente accurato e calibrato.

Maria Olmina D’Arienzo



Leggi il primo capitolo

Il fascino dell’ignoto domina tutto.

(Omero)


Dedalo, mitico architetto e inventore ateniese figlio di Metione e discendente di Eretteo, era un ottimo fabbro e scultore. La Dea Atena stessa l’aveva iniziato a quelle arti. A Dedalo si attribuiva la costruzione di statue con occhi e arti mobili, oltre che la creazione del trapano, dell’alberatura navale e dell’ascia. Tuttavia suo nipote Talo già all’età di dodici anni lo superò nella scultura, inventando tra l’altro nobili strumenti come la sega, il compasso e il tornio.
Dedalo, roso dalla gelosia, condusse Talo su una rupe, e con il pretesto di mostrargli qualcosa che si muoveva a grande distanza, lo spinse giù dall’Acropoli; poi si recò sul luogo dove giaceva il cadavere, lo mise in un sacco e, per disfarsene liberamente, disse di aver catturato e ucciso un grosso serpente.
Nonostante questo stratagemma, il suo omicidio fu scoperto, e Dedalo venne condannato all’esilio.
Fuggito perciò da Atene, riparò presso il re cretese Minosse, e a Cnosso costruì vari edifici, tra cui il famoso labirinto.
I.
Eccola. L’Occasione.
Lì, a portata di mano.
Nitida, simile a un paesaggio assolato, e misteriosa come solo il futuro prossimo può mai essere.
Alle tre del pomeriggio, sotto un cielo limpido solcato da rare nubi, Jan Axelsson posò finalmente gli ingombranti bagagli di fronte all’entrata della proprietà.
Non c’era possibilità d’errore: la grande casa rossa che spiccava in lontananza in mezzo alle querce secolari del parco, unica costruzione nell’intera zona, doveva essere per forza la residenza estiva del professor Arthur Karl Wadenius.
Vi si accedeva da un sentiero poco battuto che si perdeva nella macchia, dissestato da ingombranti radici di faggi e roveri.
Il maestoso cancello di ferro con il cartiglio recante la scritta “Nell’ultimo giorno, quando nulla sarà più saldo né in cielo né in terra, anche Bifröst andrà in frantumi”, avrebbe potuto intimidire qualsiasi ospite, ma il giovane parve non farci caso, tutto preso com’era da diverse preoccupazioni, quali la sciatteria allarmante del proprio vestito, la stanchezza del viaggio e la fame. Non aveva pranzato, e ora la natura reclamava con prepotenza i suoi diritti, tanto che persino l’odore dei funghi misto a quello di resina d’albero concorreva ad aumentare notevolmente il suo appetito.
Per introdursi nell’enorme parco sarebbe bastato girare la chiave imprudentemente lasciata nel    cilindro della serratura, ma Jan esitò: aveva paura dei cani e non sapeva se il padrone di casa ne possedesse; inoltre, ora che si trovava vicino all’obiettivo tanto ambito, preferiva attendere ancora un poco e calmare in solitudine il cuore agitato da una violenta eccitazione.
Trascorrere un’intera estate al fianco del celebre artista rappresentava per lui un onore che non avrebbe mai sperato di ottenere in tutta la sua esistenza. Vivere solo di scultura da aprile a ottobre, respirando la stessa aria del maestro e condividendo con lui ogni attimo; apprendere tutte le tecniche per provare ad affrancarsi dalla mediocrità del suo destino: questo non era più un sogno stupefacente, ma una realtà alla quale ancora Jan stentava a credere.
Da mesi non faceva che pensare al momento in cui sarebbe penetrato nella dimora, e da una settimana addirittura non riusciva a dormire, tanto era esaltato dalla prospettiva di incontrare Arthur Wadenius. Esaltato e anche preoccupato: sarebbe andato d’accordo con il professore? Avrebbe trovato accettabili i suoi modi e le sue abitudini?
Nella valigia più grande, da bravo paesano Axelsson aveva stivato scalpelli, spatole, strumenti per intagliare e incidere, e anche un paio di blocchi da disegno: li teneva riposti con precisione scrupolosa, giacché conosceva il valore di quegli oggetti e sapeva anche metterlo in relazione con le ristrettezze economiche della sua famiglia. Alcuni arnesi appartenevano al padre Jacob, falegname alacre quanto modesto, come prima erano appartenuti al nonno e al bisnonno; altri scalpelli e sgorbie invece li aveva acquistati lui stesso, con i risparmi di tutta la sua giovane vita.
Era un artista precoce, Jan—un abile scultore del cui valore nessuno, in famiglia, si era mai curato. Tuttavia, certi segnali di una predisposizione fuori dal comune si potevano già intuire da alcuni comportamenti infantili assai significativi: per esempio, da neonato le sue piccole dita erano parse inquiete alla madre che lo allattava, sempre pronte a stringersi sui suoi generosi e a manipolare senza sosta dei piccoli giocattoli. Il farmacista del paese si divertì a pronosticargli un futuro da prestigiatore; il pastore della chiesa, che ne lodò da subito l’indole estroversa e amichevole, sperò per lui una carriera da maestro di scuola—tuttavia, entrambi ben presto furono costretti a ricredersi: già verso i cinque anni Jan aveva perduto ogni intraprendenza, trasformandosi in un bambino ritroso e schivo. Si comportava istintivamente in modo beneducato ma era assai poco loquace e per nulla incline a corteggiare il favore degli adulti con quelle scenette smorfiose che sono tipiche negli infanti: preferiva piuttosto scherzare con gli insetti, sfogliare i fiori di campo, oppure perdersi per lungo tempo in estasi indecifrabili. Non appena ebbe l’età sufficiente per entrare nella falegnameria del padre, si smarrì totalmente nell’osservazione dei dadi, dei carillon e delle trottole che Jacob Axelsson talvolta fabbricava per diletto, e il suo carattere si fece ancor più contemplativo di prima.
Parallela a questa necessità di raccoglimento si andava sviluppando in lui una sorta di tensione spasmodica delle dita;poiché c’era un bisogno nelle sue mani simile a quello che conduce i bambini verso la tastiera del pianoforte o l’archetto del violino, i genitori, pur di farlo stare buono, gli regalarono dei gessetti. Con questi Jan dapprincipio provò a disegnare per terra e sui muri, ma in un secondo momento scoprì che grattando con le unghie la superficie del gesso poteva modellarla fino a conferirle un profilo piacevole.
Un giorno, quando aveva all' incirca sei anni, fu colto da un’improvvisa illuminazione: gli capitò di percepire che la forma del gessetto era straordinariamente somigliante a quella della cavalletta, e subito provò a riprodurre il corpo dell’animale nella materia friabile. Quel tentativo rappresentò la sua prima delusione artistica, cui negli anni sarebbero seguite molte altre, di vario tipo.
Rimase a lungo memorabile, per esempio, la serata in cui si beccò due schiaffi dal padre per aver utilizzato gran parte del pane che si trovava in dispensa al fine di plasmare la morbida sagoma di un gatto acciambellato.
Incoraggiato tuttavia da piccoli segnali che confermavano la sua istintiva abilità (con la raffigurazione del gattino aveva infatti suscitato, oltre all’ira del capofamiglia, anche l’entusiasmo della madre, la quale aveva conservato la mollica fino al momento della muffa), a soli sette anni Jan aveva più volte espresso il desiderio lavorare nella falegnameria paterna, magari cimentandosi nella semplice decorazione di sedie e tavoli.
Nel timore che potesse ferirsi, Jacob gli aveva proibito di toccare qualsiasi attrezzo dotato di lama, ma a otto anni il bambino, che trascorreva ore a corteggiare con gli occhi sia i procedimenti di manipolazione del legno sia gli strumenti da intaglio, si impuntò per provare a sbalzare la cornice lignea destinata a sostenere un grande specchio. Si era messo in testa, testardo quale era, di riprodurre nella linea secca dell’intelaiatura il movimento delle foglie e dei rovi che in natura si avviluppano in modo scompigliato.
Ricevuto l’ennesimo diniego da parte del padre, in quell’occasione Jan decise di disobbedirgli e scappò dalla sua camera per rifugiarsi nel buio del laboratorio: trascorse così l’intera nottata a incidere more e spine nel legno della cornice alla luce di una sola candela.
L’attività dell’intaglio gli risultò immediatamente facile, anzi, si potrebbe dire connaturata, dato che la sua mente era in grado di pianificare un motivo decorativo come quella di un adulto, e le sue mani, sebbene inesperte, riuscivano con devozione e pazienza a trovare la giusta direzione per le immagini da rappresentare.
In quel caso, l’ingenuità della sua vista infantile creò un capolavoro di figurazione, vicina alla realtà e insieme astratta come solo un’interpretazione artistica può essere.
Una straordinaria beatitudine s’impresse da quella notte epifanica nell’animo del bambino, e nemmeno le botte che giunsero puntuali a sancire la fine della sua disobbedienza riuscirono a distoglierlo da quella nuova potentissima determinazione. Nel suo cuore si insediò un intimo stupore, una gioia perenne che rischiarava la triviale condizione della sua esistenza, che egli talvolta percepiva con chiarezza nonostante fosse ancora un fanciullo.
La fuga notturna e i frutti del lavoro di intaglio non gli procurarono soltanto parecchi lividi e una rinnovata consapevolezza delle sue possibilità, ma anche una sorta di rispetto da parte di Jacob, che da quel momento, volente o nolente, fu costretto ad ammetterlo come lavorante in falegnameria.
Per il momento Jan si sarebbe occupato soltanto di insignificanti dettagli delle decorazioni lignee—ma al piccolo questo bastava fintantoché potesse maneggiare sgorbie, scalpelli e martelli.
Quando ebbe quattordici anni, le sue responsabilità nell’officina crebbero e il genitore iniziò a riporre fiducia in lui, fino a pagargli qualcosa per il lavoro.
Il giovinetto metteva da parte quasi tutto ciò che guadagnava, e rinunciava volentieri ora a un cappotto più caldo, ora a un paio di guanti, ora a una serata di svago in compagnia degli altri ragazzi del paese, soltanto per comprare nuovi utensili o per fuggire qualche volta a Stoccolma dove, nei giorni liberi, andava per perdersi nella gipsoteca del Museo Nazionale. Era diventata per lui una necessità, dispendiosa quasi come mantenere un’amante in un appartamento: prendeva il treno e giungeva strapazzato nella capitale; lì, camminando, consumava un panino preparato al mattino da sua madre, e pagava il biglietto d’ingresso per il museo. La pittura lo annoiava, ma per contro non si stancava di ammirare sempre le stesse statue, anche un paio di volte al mese: nei bronzi, nel marmo polito, in ogni tentativo pieno di fatica e d’eroismo, egli riconosceva la propria volontà più profonda. L’osservazione di quei modelli immortali diventava una fonte d’ispirazione inesauribile: qualsiasi minimo dettaglio lo riempiva d’idee. Tornava con la testa ingombra di immagini, forme, e nomi di artisti antichi o viventi che piano piano gli erano diventati familiari; e nell’esaltazione tipica dell’adolescenza si arrischiava invano a riprodurre a casa, nei ceppi di betulla, tutto ciò che durante la giornata lo aveva attratto e incuriosito.
Vagheggiava il marmo come una chimera irraggiungibile, e nei momenti più estatici sognava addirittura un viaggio in Italia, perché soltanto lì era possibile ammirare le opere migliori della sua arte prediletta.
Finalmente, a seguito di innumerevoli prove artistiche da autodidatta che nessuno in famiglia vedeva di buon occhio, all’età di vent’anni Jan riuscì a scolpire nel legno qualcosa di compiuto: un busto di donna che rappresentava un’idealizzazione della Giovinezza (o forse della Primavera).
Quella figura finemente cesellata, incorniciata di delicatissimi fiori, era tanto seducente e placida che destò persino una certa ammirazione nel vecchio Jacob, di solito critico e freddo nei confronti del figlio: così fu esposta in un angolo appartato dell’opificio in cui i due Axelsson si stancavano quotidianamente.
Non c’era cliente che non apprezzasse l’opera, trovandola assai matura per essere stata concepita e realizzata da un ragazzo. Era come se gli occhi muti della Giovinezza fossero capaci di mandare un potente richiamo: chiunque li guardasse, si trovava suo malgrado soggiogato come un marinaio ammaliato dal misterioso canto d’una sirena.
Tutti la lodavano in modo aperto e spontaneo; molti addirittura proposero di acquistarla. Invano, perché Jacob, per quanto fosse avido e per quanto potessero offrigli, ne era diventato geloso e, per qualche imperscrutabile capriccio, non intendeva venderla.
Tra tutti gli avventori della falegnameria fu l’avvocato Nicklas Enqvist a mostrare la reazione più entusiasta di fronte al busto femminile. L’uomo di legge, che era entrato nel magazzino per scambiare due chiacchiere con l’anziano proprietario a proposito della commissione di una madia, era rimasto in silenzio per un buon quarto d’ora a fissare il viso intagliato nel legno e, colpito, aveva voluto conoscerne il creatore, rifiutandosi sulle prime di credere che una mano così esperta potesse appartenere a un neofita e non a un affermato maestro.
«È impressionante!», esclamò Enqvist notando la perfezione dell’ovale femminile, che pareva protetto dalla benedizione d’un serafico Apollo. «Ha qualcosa del primo Wadenius!»
Enqvist non arrivò a promettere denaro in cambio della scultura, ma fece di meglio: ne parlò ovunque, ne parlò a chiunque incontrasse, a tal punto che le voci riguardo alla bellezza del busto si diffusero rapidamente in tutta la regione.
Nelle locande, nelle strade e nelle piazze, ogniqualvolta si parlasse di scultura, sempre veniva fuori una storiella che si modificava di bocca in bocca, assumendo via via contorni più mitici e fiabeschi: si diceva che in un paese sperduto, lontano da qualsiasi nucleo abitato di una certa rilevanza, esistesse una falegnameria in cui prestava servizio un giovane artista, e si narrava che costui incidesse il legno tanto bene quanto, ai suoi tempi, il giovane Wadenius scolpisse il marmo.
La Giovinezza perciò fu visitata da molte persone (fanciulle, maestre, preti e illustri professionisti: tutti volevano contemplare quel volto sublime) e portò di conseguenza svariate commissioni alla falegnameria—tuttavia, per lunghi mesi non fruttò altro se non nuove ordinazioni di sedie, tavoli o comodini.
Un mattino però, gli Axelsson si videro raggiungere nell’officina da un distinto sconosciuto. L’individuo, che si appoggiava a un bastone da passeggio dal pomo d’argento, portava un pregiato cappotto tutto tempestato sulle spalle da minutissimi fiocchi di neve, e mostrava a prima vista l’aspetto epicureo e gli scatti improvvisi d’un temperamento focoso, insieme all’insidiosa severità dei gesti tipica dell’aristocratico. Lo si sarebbe detto un docente, oppure un bevitore accanito, e in entrambi i casi si sarebbe andati poco lontani dalla realtà.
Il suo ingresso profumò l’aria di un sensuale sentore muschiato—profumo da ricchi.
Jan sollevò il viso dalla tavola che stava piallando, per osservare meglio il visitatore. Notò subito la rigogliosa barba rossiccia, il dritto naso e gli occhi mobili, sormontati da due sopracciglia esuberanti—unita a questi dettagli, lo colpì la piega altera della bocca, arcuata in un’espressione di disgusto che pareva quasi irreversibile.
Né Jan né Jacob avevano mai visto prima quell’uomo: non figurava nel novero dei clienti abituali, e neppure dei paesani, e non sembrava interessato ai pochi mobili esposti nell’officina per invogliare gli acquirenti. Doveva perciò essere venuto per un altro motivo.
Questionato con garbo sulla ragione della visita, egli non tardò a confessare che veniva da Stoccolma per osservare la Giovinezza.
«Vediamo l’opera che somiglierebbe a quelle del Wadenius giovanile!», borbottò con un incomprensibile accento di sdegno.
Introdotto dinanzi alla statua dal capomastro, l’estraneo vi rimase per lungo tempo. Qui l’increspatura di riprovazione delle sue labbra si addolcì misteriosamente, stemperandosi in un’espressione intenta e acuta; nessun lampo di soddisfazione errò mai nel suo sguardo, neppure per un istante. Infine lo sconosciuto ruppe il silenzio.
«Chi l’ha fatta?», chiese in un tono sbrigativo che però celava una certa tensione.
Jan provò a farsi avanti, ma il padre glielo impedì e parlò al suo posto:
«Mio figlio.»
«Quanti anni ha?»
«Venti appena compiuti. È assai giovane.»
L’ignoto si corrucciò.
«Non direi: a ventitré Bernini ha scolpito l’Estasi di Santa Teresa. Ma lasciamo andare. Ha intagliato altro, il ragazzo?»
«Qualcosa.»
«Me lo mostrate?»
Jacob esitò, tremando lievemente di soggezione.
«Impossibile, signore. La maggior parte delle sculture di Jan le abbiamo gettate nel camino.»
«Nel camino?»
«Non valevano nemmeno la metà di questa, non aveva senso tenerle.»
Lo sconosciuto annuì soddisfatto, come se il fuoco fosse un’ottima soluzione per placare i primi entusiasmi creativi.
«Vorrei vedere suo figlio incidere qualcosa nel legno, ora, sotto i miei occhi.», asserì.
«No di certo. Non abbiamo tempo. Dobbiamo finire dei lavori.»
«Voglio capire cosa sa fare.»
«Se il signore si contenta, ho dei pezzi di cornice appena intagliati da lui.»
Il signore si contentava.
Jacob gli recò quindi un paio di cornici da esaminare.
Una di esse era decorata con motivi di conchiglie e cavallucci marini—l’attenzione dell’estraneo si focalizzò sui dorsi degli ippocampi e sulla perfetta ruota delle code, attorte in modo spiritoso e pieno d’armonia; l’altra intelaiatura era ornata invece di rami di rosmarino, aghi di pino, bacche e foglie puntute, e tra di esse si nascondeva, mimetizzata come se fosse stata viva, una incredibile triade di lucertole minutamente squamate e colte in atteggiamenti diversi. Il primo ramarro era addormentato, adagiato su una rosa spampanata, con la viscida pancia esposta e le zampe ripiegate alla maniera dei cani rilassati; il secondo era colto nell’atto di arrampicarsi lungo la linea di fiori e foglie, per mangiare, goloso, un acino di ribes; la terza lucertola era invece stata raffigurata in una posa aggressiva, con le frogie dilatate, la lingua saettante tra i denti aguzzi e la zampa unghiuta.
L’uomo analizzò con interesse le cornici e mormorò un suono gutturale, come di muta approvazione, nel renderle al capomastro.
«Il ragazzo è andato a scuola?», chiese poi.
«Non proprio, signore. Ma il pastore della chiesa ha pensato per qualche anno alla sua educazione.», ammise Jacob, un po’ imbarazzato senza capire il perché.
«Dunque sa leggere? Sa scrivere?»
«Ci può giurare, signore. È lui che scrive e legge per tutti.»
«Scrive e legge per tutti…», ripeté l’altro, sovrappensiero. La neve sul cappotto si era ormai sciolta bagnandogli tutto il colletto. Si tolse i guanti di pelle e per qualche minuto restò trasognato ad accarezzarli meccanicamente; poi si riscosse e guardò indietro, alle sue spalle, dove Jan attendeva a occhi bassi e in silenzio.
«È questo?», domandò indicandolo.
Jacob annuì.
Il gentiluomo iniziò a squadrare il giovane. Lo scrutò a lungo e non lasciò sfuggire neppure un commento. Terminata la sua ispezione, lo elogiò:
«Hai buoni occhi.»
Il ragazzo rispose:
«La ringrazio, signore, lei è molto generoso. Ma direi piuttosto 'buona mano'.»
Colpito dalla precisazione, che gli parve in qualche senso quasi provocatoria, lo sconosciuto attese un istante e poi domandò:
«Che intendi, con questo, ragazzo?»
Fu questa volta Jan a temporeggiare.
«Non saprei, signore… Mi scuso… È che quando intaglio mi sento cieco. Cerco la direzione… non sono in grado di spiegare, signore. Cerco non con gli occhi, ma con le mani.»
«Ah», considerò l’altro, rude. «E questo senza dubbio si vede da quanto goffamente risolvi il problema dell’anatomia umana.»
Con ciò l’uomo considerò terminata la conversazione, e consegnò nelle mani del vecchio Axelsson un cartoncino. Sembrava vivamente colpito da qualcosa, e si mostrava calmo e teso nello stesso tempo, come un mare prima d’un terremoto subacqueo. Senza rivolgere più neppure un’occhiata a Jan che si era avvicinato in modo impercettibile e che ora gli stava quasi accanto, disse:
«Signor Axelsson, suo figlio ha molto da imparare, ma forse, se non è troppo stupido, gli si potrà insegnare qualcosa. Lo mandi da me ad aprile.»
Aveva pronunciato queste parole come se il giovane non fosse presente lì nella stanza; Jacob Axelsson replicò sempre tenendosi sulla stessa linea.
«Da lei, signore? E per cosa?», domandò con freddo scetticismo.
«Per scolpire il marmo sotto la mia guida.»
«E dove?»
«Si faccia leggere da suo figlio l’indirizzo scritto sul mio biglietto da visita.», concluse l’altro. Dette quindi un breve colpo di tosse e fece per andarsene, ma Jacob Axelsson gli gridò dietro vigorosamente:
«Ma nemmeno per idea.»
L’estraneo si voltò, scandalizzato all’idea di poter essere contraddetto:
«Prego? Che sta dicendo?»
«Dico che mio figlio non si perderà nella scultura. Sono tutte sciocchezze. Qui in officina non posso fare a meno di Jan neanche per una settimana. E chi me lo paga il suo lavoro?»
L’interlocutore tremò di impazienza.
Intanto Jan, che non era stato autorizzato a pronunciare una sola sillaba, aveva però strappato di mano al padre il biglietto da visita e, leggendone l’intestazione, per poco non era venuto meno: sul cartoncino campeggiava infatti la stampa del nome incredibile di Arthur Karl Wadenius, le cui opere Jan aveva così spesso ammirato al Museo Nazionale. Il giovane iniziò a fremere cadendo preda d’una tachicardia potentissima.
«Sarebbe mio ospite.», spiegò il professore ostentando una calma olimpica. «Intendo dire, se devo essere più esplicito, che gli offrirei vitto e alloggio da aprile a ottobre. Le assicuro che vi converrebbe alquanto.»
«Convenire? E chi mi manda avanti l’officina nel frattempo? E chi mi paga un operaio che rimpiazzi il suo lavoro?», controbatté Jacob.
Il maestro non si aspettava una resistenza così strenua. Un occhio iniziò a vibrargli dal nervosismo: si vedeva che cercava di restare calmo, ma anche che i modi volgari del vecchio lo stavano irritando.
«Non si rende conto del valore straordinario della mia offerta? Suo figlio ha un certo talento.», sbottò tentando di dominare i suoi istinti. «Potrebbe un giorno portarle molti più soldi che quelli che le procura ora, lavorando da operaio.»
«Del futuro non mi interessa nulla, signore.», concluse il falegname. La sua voce cominciava a diventare stridula e violenta, e l’interlocutore temette di non riuscire più a concludere quella trattativa che doveva interessargli molto più di quel che sembrasse.
Jan aveva seguito quello scambio di battute con il cuore in gola. Allontanarsi dall’officina paterna per dedicarsi alla scultura gli pareva una prospettiva miracolosa che lo riempiva di sacra smania: era come se Apollo fosse sceso dall’Olimpo e con un cenno gli avesse mostrato la via per diventare sovrano del mondo intero—ma purtroppo il giovane non poteva intromettersi nella contrattazione in alcun modo. Certo, non poteva chiedere il permesso di andarsene perché sapeva che avrebbe pagato caramente una simile trasgressione e non si azzardava a fiatare, ma volentieri si sarebbe gettato in ginocchio di fronte allo sconosciuto, supplicandolo di liberarlo dal fardello della sua quotidianità mostruosa. Si limitò a implorarlo con due occhi carichi di aspettativa, simili a quelli di un cane randagio che cerchi di farsi togliere dalla strada costringendo alla pietà un ignaro passante con buffe smorfie.
Il maestro intercettò lo sguardo pieno di speranza del ragazzo e tacque, riflettendo: sapeva che i popolani possono essere scioccamente caparbi, e ora temeva di irritare il vecchio con qualche frase fuori posto, vanificando l’intera negoziazione.
«Potrei pagarle un operaio, per il tempo in cui suo figlio starà da me.», azzardò alla fine, incerto. A Jan quella parve un’ottima mossa, ma purtroppo Jacob, approfittando dell’insicurezza che trapelava da quelle ultime parole, affondò ancora:
«Non va bene. Non si può fare una cosa simile. Dopo, mio figlio tornerebbe pieno di strane idee in testa e non si adatterebbe più all’officina.»
«Se dovessi comprendere che suo figlio non ha la stoffa», attaccò a sua volta l’artista, «sarei il primo a volerlo dissuadere. Lo rimanderei a casa spiumato e senza più alcuna ambizione. In tal modo, il ragazzo poi non penserebbe che al lavoro, e lascerebbe da parte ogni velleità. Non intaglierebbe più alcuna Giovinezza, glielo assicuro.»


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