La città che urla segreti

Franco Salerno

La città che urla segreti

Premiato con Targa alla edita XXXIV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2017

Descrizione

"Il nostro cuore è una terra di nessuno. E noi non sapremo mai da chi è abitato. Dall'amore? Dai ricordi? Dal Bene? O forse dal Male? Queste misteriose parole risuonano, nel clima surreale di una sera d'estate, nella Cappella Sansevero di Napoli, dando l'avvio alla conferenza di Elias Norton sul simbolismo dei Mostri. Ad ascoltarle, rapito dal loro fascino, è un antropologo napoletano, Giacomo De Marinis, il quale, come per un'illuminazione, inizia a comprendere il senso dello strano ritrovamento in cui per caso si è imbattuto: un plico contenente le liriche di una poetessa rinascimentale, Isabella Morra, uccisa nel 1546 dai fratelli insieme al suo presunto amante, Diego De Sandoval. Ad esse è allegato un epigramma in latino sul segreto di quattro testi chiamati "i codicilli", nascosti in altrettanti templi napoletani da uno degli assassini di Isabella. Il rientro di Giacomo a casa è l'inizio di un viaggio rivelatore attraverso i siti più conturbanti di Napoli per individuare i quattro misteriosi templi...

L'autore

La città che urla segreti

Laureato in Lettere classiche e in Sociologia, ha insegnato Italiano e Latino nei Licei e Linguaggio giornalistico all’Università di Salerno. Ha collaborato a diverse testate giornalistiche, tra cui Il Mattino, Roma, La Città, Campania Felix e Abstracta. Attualmente scrive per Albatros, MediaVox Magazine ed Eventi, e dirige la Rivista Lyceum. Autore di saggi di antropologia e di storia del folklore, è coautore di due storie della letteratura italiana; ha pubblicato, inoltre, un Commento integrale alla "Divina Commedia" e varie opere teatrali. Tra i riconoscimenti conseguiti si segnalano due “Premi della Cultura” banditi dalla Presidenza del Consiglio nel 1986 (per la saggistica) e nel 2003 (per la narrativa). Il suo manuale “Le tecniche della scrittura giornalistica” è citato nella VII Appendice del 2007 dell’Enciclopedia Italiana Treccani. Il romanzo “la città che urla segreti”, che inaugura la Trilogia “Campania misteriosa” (il sequel è stato pubblicato con il titolo “le Ombre non mentono”, un thriller storico nella Salerno misteriosa) è stato recensito da Franco Cardini, il quale ne ha elogiato lo stile come “nuovo e inatteso, tra l’ironico e il realismo magico: qualcosa che lo pone quasi a mezza strada tra Andrea Camilleri e Michail Bulgakov”.

Leggi il primo capitolo

Acque infernali

"Il nostro cuore è una terra di nessuno. E noi non sapremo mai da chi è abitato. Dall'amore? Dai ricordi? Dal Bene? O forse dal Male? Se il Male si fosse impossessato del nostro cuore, sarebbe un gran bel problema. Anzi un mistero. Un mostruoso mistero...Il mistero per eccellenza!"
 Mostri. Misteri. Coraggio di affrontarli. Di dire che ci sono. E che non bisogna avere paura della paura. La conferenza era stata sublime. Giacomo in genere non si sbilanciava con i giudizi. Ma, doveva ammetterlo, “sublime” era l’aggettivo giusto. Non aveva preso appunti, come era sua abitudine. Perché stavolta il testo se lo ricordava a memoria. Frasi, concetti, interrogativi, egli pensò, non li avrebbe dimenticati. Mai più. Gli sembrava di conoscerli da sempre. Eppure non li aveva mai sentiti.
In poco più di un’ora li aveva scoperti, pronunciati, fatti vivere il professor Elias Norton, un suo collega straniero, cinquantenne come lui, antropologo della Yale University. Il luogo poi parlava da solo: era lo spazio della Cappella Sansevero nella sua città, Napoli. Tutti i presenti avevano ascoltato rapiti. Anche l’applauso finale era partito in ritardo di qualche secondo. Perché tutti avrebbero voluto che quella conferenza sui Mostri dell'inconscio non finisse mai. E tutto l’ambiente circostante era ammantato da un clima di attesa. Di silenzio. Di tensione. Colui che aveva fatto costruire quella Cappella era uno dei personaggi più strani e misteriosi che si fossero aggirati in terra di Napoli. Un genio? Un criminale? Un creatore di misteri? Raimondo di Sangro era questo e tanto altro.
Anche Giacomo era uno studioso di simboli e di miti. Ma quelle parole gli avevano dischiuso altri orizzonti, prima di allora a lui sconosciuti. Capita talvolta, pensò, che una parola, pronunciata o ascoltata per caso, ti apra porte inaspettate. Che prima erano chiuse. Serrate, come se da secoli una forza superiore le avesse sigillate. Inchiodate. Avvitate con un bullone che ti entra dentro la carne del cuore.
Giacomo conosceva bene il professore Norton e alla fine della sua lezione lo aveva salutato con affetto, ma con un lapidario “Grazie, Elias, sei uno svelatore di arcani”. Poi i suoi occhi si erano rivolti al labirinto che era disegnato sul pavimento della Cappella. L’aveva visto cento volte. E cento. Ma quel pomeriggio era speciale. Il labirinto sembrava un serpente. No, un ragno. Anzi la sua tela che lo avvinghia. E la nostra anima, gli venne da riflettere, non è forse il ragno che tesse il nostro corpo? E l'ordine stesso del Cosmo non si realizza forse in forma di labirinto? E la natura non è forse un percorso a labirinti, a spirali che si avvolgono su sé stesse? Così avanzano i cicloni, così si avvolgono le onde burrascose, così in teneri contorcimenti crescono le viti. E, se vedessi due corpi avvinghiati a fare l’amore, non sembrerebbero essi stessi un’elica che si contorce?
Giacomo, travolto dalle sue stesse domande, chiuse gli occhi. Una sensazione di capogiro. La perdita dell’equilibrio. Il pavimento gli ruotava intorno e le statue che erano nella Cappella si levavano dal loro piedistallo e si muovevano. Le figure che erano imprigionate nel marmo divennero creature. Bianche. Trasparenti. Fantasmi che venivano da chissà dove. E una di loro, quella del Desinganno, si liberò della rete che la avvolgeva e si mise a danzare. Sudava gocce di sangue. Ma sorrideva. Riso e sangue. Sangue e riso.
Giacomo era trascinato da quella musica. Che gli risuonava nella testa. Ossessiva. Pulsante. Martellante. Era prodotta da invisibili mani. Le vedeva solo lui, Giacomo, quelle mani. Che agitavano strumenti a percussioni. Tammorre e nacchere. Nacchere e tammorre. Tum. Tum. Tuuuuum. Come le suonavano nei vicoli. Nel ventre di Partenope. Nel corpo di Napoli. Poi un unico tum. Tutti a terra. Un colpo di tamburo potente. Deciso. Definitivo. Un colpo che lo fece sobbalzare e destare. E Giacomo vide solo le mani di Elias che lo scuotevano e lo riportavano alla realtà.
“Giacomo,” disse Norton, scuotendolo. “Tutto bene?”
“Sì, Elias, solo un piccolo capogiro”.
“Meno male, ti volevo ringraziare. Per il tuo giudizio su di me. Sei stato troppo buono con me. Chiamarmi svelatore, nel tempio dove trionfa il Cristo velato, mi sembra una bestemmia. O, di certo, una lode eccessiva”.
Giacomo, che si era ripreso dallo stordimento, si era messo a guardare proprio il Cristo velato che era al centro del tempio. Non se lo era mai chiesto e se lo stava chiedendo adesso: come era possibile che il Dio che fa vedere il suo volto, che mostra le sue piaghe, che dice in maniera chiara le sue parole miti e terribili fosse avvolto da un velo?   
“E’ una lode che meriti. Tu crei nuovi mondi. Anzi fai ancora di più: ci dai nuovi occhi per guardare il mondo. Adesso, però, devo lasciarti, devo rientrare.”
“Ti faccio accompagnare?” suggerì con gentilezza l’amico straniero.
“No”, rispose Giacomo. “Preferisco fare una passeggiata. Voglio prendere un po’ di aria fresca. Tra mezz’ora sarò a casa. E’ una bella serata. Ci vediamo domani in Facoltà. I miei studenti ti aspettano con ansia. Hanno un sacco di domande da farti sull’argomento del mistero”.
Giacomo salutò rapidamente i presenti, prese la sua borsa ed uscì dalla Cappella. Una volta fuori, diede solo uno sguardo fugace alla Chiesa di San Domenico Maggiore. Un monumento inquietante: questo, era stato sempre per lui. Da quando il padre gli aveva fatto visitare per la prima volta i luoghi segreti della Napoli antica.
Nella sagrestia di quella Chiesa vi era il Sepolcro dei Principi. E il pezzo più bello di tutto il tesoro era l’ostensorio d’argento, che custodiva il cuore di Carlo II d’Angiò. Quante notti egli l’aveva sognato, il cuore del re Carlo. Era grande. Violaceo. Sanguinante. E il rombare del sangue lo sentiva fin nel profondo delle arterie. L’aveva solo sognato, perché in realtà non lo aveva mai visto: i guerrieri francesi, infatti, qualche secolo prima, per trafugare il prezioso contenitore, avevano gettato via ciò che rimaneva di quel cuore rinsecchito e contratto. All’improvviso, una voce.
“Professó,” lo appellò da lontano il vecchio custode di San Domenico, un ottantenne, che aveva chiesto, dopo essere andato in pensione, di rimanere a far da cicerone per i turisti, “non entrate anche stasera in chiesa, a contemplarvi tutti i capolavori che ci stanno qua dentro?”
“No, don Sebastiano, vado di fretta”.
“Strano, voi non andate mai di pressa, quando passate davanti alla vostra chiesa. L’altro ieri stavo chiudendo la cancellata d’ingresso e solo per caso vi vidi attento al ritratto di quel condottiero Francesco d’Avalos, morto in battaglia…”
“Don Sebastiano, ormai siete diventato un critico d’arte”.
“Bontà vostra, professó,” rispose lusingato Sebastiano. “Mi sarebbe piaciuto scambiare quattro chiacchiere con voi”.
“Non posso. Ci vediamo domani, don Sebastiano.”
“Ma, insomma, si può sapere che tenete da fare oggi di così urgente?”
Giacomo sorrise, salutò il vecchio custode e accelerò il passo. Le prime ombre della sera stavano lentamente cadendo. Tutto sommato, questa parte di Napoli era abbastanza tranquilla. Certo, qualche presenza anomala non mancava; ma questo non lo impensierì più di tanto.
“Ué, dottó,” lo chiamò una persona con voce suadente e trucco marcato, “se non avete nessuno, vi posso fare compagnia. Vi vedo solo; forse ne avete bisogno. Il mio corpo costa poco: facciamo cento. Ma dai, cinquanta: sono in vena di sconti, stasera. Ma le prestazioni sono sempre all’altezza”.
Giacomo, sovrappensiero, non rispose. Le parole gli giungevano da un mondo lontano. In realtà, non riuscì nemmeno a decifrare bene il volto e il sesso dell’interlocutore. E tirò dritto per la sua strada.
Dieci metri dopo, un’altra voce: “Volete fumo o qualcos’altro?”. “Non fumo”: fu la banale e distratta risposta di Giacomo. Che intanto aveva imboccato via Nilo. Un nome straniero al centro della città. Che cosa ci facesse mai glielo chiedevano tutti. Di sicuro, la statua del dio Nilo era beneagurante: aveva una cornucopia in mano. Simbolo di abbondanza. Era un segnale positivo? Chissà. Forse no. Tutti dicevano che per molto tempo questa statua era rimasta decapitata.
E poi proseguì per via Corpo di Napoli. Corpo. Corpo. Corpo. Insomma, quella sera tutto riguardava il corpo. Infine, deviò per la discesa di Mezzocannone. Giacomo era come guidato da qualcuno lungo un corso d’acqua. Su cui procedeva spedito. Perché avrebbe dovuto fermarsi? Tutto andava liscio. Verso l’estuario. Verso il mare. Acqua. Acqua. Acqua dappertutto. Tanta acqua -a ripensarci- era entrata qualche tempo fa anche nella Cavea sotterranea della Cappella Sansevero. E avevano chiamato anche lui, il professore Giacomo De Marinis, a salvare i libri antichi di Raimondo.
E ora, dinanzi a lui, ancora acqua. Di acqua parlava, a Mezzocannone, il bassorilievo di Cola Pesce. Leggenda? Storia? E chi lo sa. La leggenda diceva che era un fanciullo di nome Cola, che, in seguito alla maledizione della madre, assunse un corpo strano: era divenuto un uomo-pesce. Era capace di rimanere per ore e per giorni sott'acqua. Si faceva anche ingoiare da grossi pesci, il cui ventre egli poi tagliava con un coltello per uscirne ed ispezionare il fondo marino. Gli fu fatale la ricerca di una palla di cannone nello stretto di Messina. Sembrava un'impresa facile; se non che, il giovane si trovò all'improvviso in uno strano luogo. “Non è né terreno né marino” egli pensò, “strano: è privo di onde. L’acqua è calma, ma non riesco a nuotare”. E così il povero Cola restò murato vivo in una prigione sottomarina. Vitrea e impalpabile. In compagnia di tutti i mostri delle acque sotterranee.
Giacomo intanto era arrivato sulla Via Marina, ma non se n’era nemmeno accorto. Lo scosse lo squillo del cellulare: era Isabella, sua moglie. Lo avvisava che stava andando dal suo psicoanalista, il dottore Antonio Ferreri. Dalla loro abitazione, nei pressi di Piazza Mercato, fino a Porta Nolana, erano quattro passi: ci andava a piedi.
Il dottore Ferreri era bravo, ma Isabella non migliorava. Almeno per il momento. L’altra notte aveva fatto un sogno.
Lui e Isabella su un traghetto. Sbarcano in un posto macabro. Oscuro. Puzzolente. Nuvole grigie e pesanti. Devono andare in un castello. Un palazzone antico. Dentro, al piano terra, donne. Molte donne. Che vogliono fare del male. Palazzo umido con pareti che gocciolano. Bisogna salire le scale del castello. Ma più si sale, più si soffoca. Muffa che aggredisce le narici. Artiglia la gola. Satura i polmoni. Via, via, bisogna scendere. Ai piedi delle scale si avvicinano le donne. Lei inizia a vedere fantasmi. Una vecchia megera si guarda in uno specchio. Si tira i capelli, si graffia il volto, si morde la lingua. Cercano di fuggire con un trolley. Alcune vogliono fermarli per costringerli a fare scommesse a una macchina da gioco. E una di essa con un dialetto strano li offende. Li aggredisce. Cerca di afferrarli. Essi si liberano di tutte con uno strattone. Arriva altro traghetto. Lo prendono. Partono. Fuggono. Piangendo.      
Giacomo intanto continuava per Via Marina. E si faceva una strana domanda: ma il mare bagna Napoli? O forse è il contrario: è Napoli che bagna il mare. Con le sue lacrime. Con il suo sudore. Con il suo sangue. E il mare -notò quella sera- aveva colori e calori diversi, a seconda del rione che esso lambisce. E così, il mare di Piazza Mercato, dove abitava, è il mare fondo e cupo, che ha visto tante grandi tragedie. Egli preferiva il mare di Santa Lucia, amante e amato, risonante dei canti delle donne sotto il sole ardente. O il mare del Chiatamone, al punto opposto in cui Giacomo si trovava. Quello doveva essere il mare dei nostalgici, dei malinconici, degli innamorati dell'Infinito.
Mentre Giacomo rifletteva su come il mare di Napoli cambiava o, meglio, come cambiava un viaggiatore per le strade di Napoli che costeggiavano il mare, un’auto frenò bruscamente e gli si accostò…     


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