Ombra mai più

Stefano Redaelli

Ombra mai più

Primo premio Narrativa edita XXXIX edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2023

Descrizione

"Quando torni nel mondo, del mondo ti devi fidare." Per tre lunghi anni Angelantonio è stato ospite della struttura psichiatrica Casa delle farfalle, con sé porta il libro che ha scritto sulla follia standoci dentro, e ora c'è un fuori che lo aspetta. Il tempo ha lasciato segni profondi, sui suoi genitori improvvisamente anziani da cui fa ritorno, sul platano che aveva adottato quando era ragazzo, in una società che adesso lo guarda con sospetto perché "è stato lì". Non sempre si comprende ciò che è vitale, ma c'è una fragilità che accomuna tutti - matti e sani, buoni e cattivi - che parla una lingua misteriosa, e dice parole che Angelantonio dovrà imparare insieme a chi incontrerà. In "Ombra mai più" Redaelli continua il suo racconto sulla follia del mondo e la saviezza dei folli, sul rimosso della nostra società, e lo fa con il suo tatto, la sua poesia, la sua inconfondibile scrittura.

L'Autore

Ombra mai più

Stefano Redaelli è professore di Letteratura Italiana presso la Facoltà “Artes Liberales” dell’Università di Varsavia. Addottorato in Fisica e in Letteratura, s’interessa dei rapporti tra letteratura, medicina, scienza e spiritualità. Tra le sue pubblicazioni scientifiche: A 40 anni dalla legge Basaglia: la follia, tra immaginario letterario e realtà psichiatrica (DiG, 2020), Nel varco tra le due culture. Letteratura e scienza in Italia (Bulzoni, 2016), Le due culture. Due approcci oltre la dicotomia (con Klaus Colanero, Aracne, 2016). Per la narrativa ha pubblicato la raccolta di racconti Spirabole (Città Nuova, 2008) e il romanzo Chilometrotrenta (San Paolo, 2011). Per Neo Edizioni ha pubblicato il romanzo Beati gli inquieti, Selezione Ufficiale “Premio Campiello”, “Premio Napoli” e “Premio Flaiano” 2021.

Leggi l'incipit

«È stato » dicono, non appena li supero.

Non si curano neppure di abbassare la voce, o forse vogliono che li senta. Con la coda dell’occhio colgo il gesto di un dito che si avvicina alla tempia. È un gruppo di ragazzi del quartiere.

Fino a qualche anno fa giocavano a pallone per strada, ridevano: quella confusione allegra in cui molti della mia età sono cresciuti, quando non c’erano cellulari né recessione, quando le madri si affacciavano al balcone per dirti di rientrare a fare i compiti.

Fino a qualche anno fa sembravano felici.

Ora tramano strategie contro la noia.

Si fanno selfie, navigano, per lo più bevono. Lo evinco dalle bottiglie sotto la panchina, ne ho contate sette.

Non dicono: “È tornato a casa”, a sottolineare il ritorno.

Non dicono neanche: “È stato ed è tornato a casa”, accrescendo la tensione tra “” e “casa”.

Io sono quello che “è stato ”. Punto.

Ne prendo atto.

Ma non me la prendo. È solo un gruppetto di ragazzi annoiati: cosa non si direbbe per strappare una risata.

In ogni modo, io ci sono stato per tre anni.

Nulla da nascondere, niente di cui vergognarmi.

Se un giorno i ragazzi me lo chiedono, gli racconto anche come ci sono finito e come ci si cura , nella Casa delle farfalle.

Magari hanno in mente scenari alla Qualcuno volò sul nido del cuculo, semmai l’hanno visto. Forse conosceranno la follia mainstream di Shutter Island o quella dark di Gothika. Penseranno che ho subìto elettroshock, lobotomie e altre violenze inenarrabili, cui si sopravvive – se si sopravvive solo al prezzo di una perdita definitiva della ragione.

Se ce ne sarà l’occasione, gli dimostrerò che la ragione funziona benissimo e che le cose sono cambiate, almeno dentro i centri di riabilitazione psichiatrica. Si chiamano così, oggi.

Fuori, vedremo. 


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