Padre Camorra

Vittorio Vavuso

Padre Camorra

Descrizione

Antonio, quattordicenne ragazzino figlio di Gennaro, gestore di una avviata "kebaberia" nel cuore di Salerno, cresciuto senza mamma e con poca scuola, comincia a porsi delle "strane" domande sulla reale attività del padre, che è in realtà un piccolo boss camorrista. La sconvolgente conferma arriva quando si trova a contatto con un uomo ucciso e scopre che il padre e i suoi amici sono ben coinvolti, tanto da dover preparare una fuga strategica.

L'autore

Padre Camorra

Vittorio Vavuso nasce a Salerno il 19 agosto del 2000 e dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo Tasso di Salerno, intraprende la carriera giuridica presso l’Università Federico II di Napoli.
Fin da piccolo ha esternato la sua passione per la lettura e la scrittura creativa, ottenendo  diversi riconoscimenti in concorsi poetici e letterari nazionali. Fin dal primo anno del liceo ha partecipato alla giuria del festival salernitano Linea d’Ombra, del Festival Salerno Letteratura e alla redazione del giornale scolastico Kaos. Appassionato della musica e della pittura, entrambe corredate da numerosi successi. La lettura di romanzi o di testi classici è il suo passatempo preferito, infatti fin dalle scuole elementari ha mostrato il suo interesse partecipando a tornei di lettura.
Oltre a targhe ed attestati, vanta la pubblicazione di alcune sue poesie in rima baciata sull’antologia Sentire (ed. Pagine), poesie presenti anche su youtube e la pubblicazione della poesia “I nonni” sull’antologia Argento Vivo curata dall’UTE di Cava de’ Tirreni. Nel 2018 presenta il suo primo romanzo intitolato Padre Camorra, edito Il Quaderno edizioni, in cui si esternano temi importanti come lo scontro generazionale tra padre e figlio, un urlo ribelle contro la criminalità organizzata, una storia d’amore ed un’alleanza contro la violenza. Insomma Vittorio Vavuso crede fermamente nella Cultura che pensa possa essere l’unico spiraglio per la collettività e soprattutto per le nuove generazioni.

Leggi il primo capitolo

Era una bella mattina primaverile e stavo camminando lungo una strada del centro cittadino. Salerno è piccola, rispetto a tante altre città, però non conoscevo ancora tutte le strade, i viali, o i vicoli. Avevo pur sempre quattordici anni.
Il sole splendeva nel cielo e un profumo di pane si librava nell’aria. Infatti, dopo pochi minuti incontrai sulla mia strada un grande panificio. Vi entrai, c’era tanta gente, troppa, non sopportavo di fare la fila. Approfittai del mio basso ed esile corpicino da quattordicenne e mi infilai tra la gente. Mentre eseguivo questo illecito tentativo di fare il furbetto, mi sentii tirare dal colletto posteriore della mia camicetta rossa, appena comprata. Mi girai, spaventato perché sapevo che molto pro- babilmente ero stato scoperto, ma anche arrabbiato per la mia camicetta nuova. Era un signore di media statura, sulla cin- quantina, con un naso sporgente e delle sopracciglia marcate. Aveva un cappello nero, uno di quelli “da anziano”; mi guar- dò intensamente prima di urlare: – Ehi, ragazzino! Dove credi di andare? C’è una fila da rispettare, non vedi?
Odiavo le persone che urlavano e le odio ancora.
– Scusi, signore, ma a lei chi ha detto che sto facendo quello
che lei pensa? Non potrebbe esserci mia mamma più avanti?
– Certo – bofonchiò – li conosco bene i ragazzini come te. Pensate di essere già furbi prima ancora di poterlo esse- re. Devi solo chiedere scusa e tornare subito indietro, capito? Oppure ci penso io a fartelo fare, con una bella pizza in faccia. Amavo la pizza, ma non quella che intendeva lui. Lì vicino c’era una signora, sulla quarantina: al contrario del goffo si-
gnore, era bella nell’aspetto e distinta nella forma; aveva un vestitino corto, rosso, proprio il mio colore preferito, abbina- to alla mia camicia, della stessa tonalità. Aveva i capelli bion- di, gli occhi di un azzurro intenso e dei tratti somatici molto eleganti.
– Ma lei come si permette di parlare a mio figlio in questo
modo?
Sorrisi e feci uno dei miei sguardi di superiorità che di solito rivolgevo alle persone che odiavo e che pensavano di essere chissà chi.
– Mi scusi, signora, non pensavo fosse suo figlio, l’avevo scambiato per uno di quei teppistelli di quartiere che amano fare i furbi... Scusa, ragazzino!
Usciti fuori dal panificio, la gentile signora si presentò. Si chiamava Delfina, avevo sentito tante volte quel nome ma mai riferito ad una persona, mi piaceva, a lei stava benissimo. Era un’assistente sociale, lavorava quasi dodici ore al giorno con i ragazzi, ecco perché mi aveva difeso.
– Bada, ragazzino, quello che hai fatto è sbagliato, però pro- prio non mi andava di permettere a quell’uomo di trattare un ragazzino in quel modo!
– Grazie, signora, non lo farò più, promesso!
– Bravo, ma tu a quest’ora non dovresti essere a scuola?
– Ehm, sì, dovrei, ma io non vado a scuola!
A quelle parole Delfina cambiò espressione, si incupì e quel
suo sorriso a quarantasei denti scomparve.
– Ma come, non vai a scuola?! Tutti ci devono andare alla tua età! Quanti anni hai?
– Quattordici e qualcosa.
– E tu sai che hai l’obbligo di andare a scuola?
– Sì, lo so, infatti io non è che non vado proprio, vado circa
una volta ogni quattro giorni, perché papà dice che altrimenti vengono i carabinieri a casa.
– Ah, così dice papà? Lo vorrei conoscere, sai? Mi sembra un gran brav’uomo...
– E lo è, infatti. Se vuoi, possiamo fare la strada di casa in- sieme, io abito proprio qui vicino, lui ha un negozio di kebab sotto casa, ma, non lo dire a nessuno, è solo una copertura.
– Una copertura per cosa?
– Boh, anche io ho sempre desiderato capire cosa significa, lui dice sempre così: “Antò, a papà, nun te preoccupà, quando papà non ci sarà più il negozio andrà a te, ma non dovrai fa- ticà veramente, è solo ‘na copertura!” Ci tiene tanto che io lo capisca, per questo acconsento sempre quando lo dice.
– E tua madre dov’è?
– Mia madre non è qui.
– Ah, è fuori per lavoro, forse? È un’imprenditrice?
– Cosa dovrebbe essere? Un’imper... che?
– Imprenditrice! Non sai cosa significa?!
– No, però mi sembra qualcosa di brutto, quindi non voglio saperlo, comunque è morta.
– Scusami, non lo avevo capito, mi dispiace tanto!
– A me no, papà dice sempre che era una poco di buono e che è meglio che ci abbia lasciati, a lei non piaceva il negozio di kebab! Ma ora andiamo, oppure faccio tardi e papà si ar- rabbia.
Dopo qualche centinaio di metri arrivammo, le indicai la mia casa, ma lei non fu proprio contenta, forse non le piaceva. Beh, devo dire che era messa male.
– Cosa hai? Non ti piace la mia casa? Ti vedo preoccupata.
– Chi sono quelle persone?
– Ti sei spaventata per loro? Ma no, quelli sono amici di
papà, qui sono tutti suoi amici, gli portano tutti rispetto, sono sempre al negozio, entrano, escono, in continuazione. E a me fa piacere. Almeno papà è sempre in compagnia.
– Mi togli una curiosità? Come mai, se non vai a scuola quasi mai e se tuo padre, da come mi hai fatto capire, parla solo in dialetto, tu invece parli così bene in italiano?
– Zitta, questa cosa non devi dirla a nessuno, soprattutto a mio padre, lui non vuole che parli così. Dice che, se gli altri mi sentissero parlare in questo modo, soprattutto i suoi amici, crederebbero che sia uno scemo, un senza palle, e io non vo- glio. Sarei la sua rovina, quindi in loro presenza parlo sempre in dialetto, mi piace anche.
– Ancora non hai risposto alla mia domanda, però: come fai a parlare così bene l’italiano?
– Devi promettermi che nemmeno questo dirai mai a nes- suno!
– Te lo prometto, di me ti puoi fidare.
– Quando avevo sei anni, mio padre fu coinvolto in una spa- ratoria e fu arrestato, allora venne a casa mia uno proprio come te, un assistente sociale, un uomo, ma non era bello come lo sei tu.
Arrossii e arrossì un po’ anche lei.
– Era bravo, simpatico, disse che dovevo andare a stare per un po’ di tempo con lui, io accettai e quello stesso anno mi iscrisse alla prima elementare. Feci cinque anni di scuola e lì imparai molte cose, guai se saltavo anche solo un giorno, po- tevo fare festa solo se ero malato. Poi ho iniziato le medie, ma a metà anno mio padre uscì di prigione e tornai con lui. Da allora non sono più andato tutti i giorni come prima, ma ho continuato a leggere qualcosa, e comunque va bene così, papà dice che non serve a niente andarci!
– Senti... Antonio... giusto?
– Come fai a sapere come mi chiamo?
– Me l’hai detto tu prima inconsapevolmente!
– Inco...che? Ma perché dici cose strane?
– In-con-sa-pe-vol-men-te! Significa fare o dire qualcosa senza volerlo, quasi per caso. Ma, tornando a noi, io ora devo andare a lavoro e sono già in ritardo. Ti lascio il mio numero, chiamami per qualsiasi cosa. Ti verrò a trovare presto, tanto ora so dove abiti.
–Va bene, quando vuoi, per me sarà solo un piacere, e mi raccomando: non dire a nessuno le cose che ti ho detto, mio padre se sapesse che ti ho raccontato tutto questo mi picchie- rebbe. Forse mi caccerebbe pure di casa.
– Non preoccuparti, a presto, Antonio, baci!
Baci. Questa parola mi risuonò nella mente per giorni, e per giorni la aspettai alla finestra, ma invano. Ci rimasi un po’ male all’inizio, poi mi passò. Preso dalla mia vita di tutti i giorni, la dimenticai, mi dimenticai di quell’incontro e di quel “baci”, detto con tanta dolcezza da far invidia a chiunque.
Mi alzavo alle dieci, scendevo, giocavo con i ragazzi del quar- tiere, a volte andavo a fare un giro, perché bisognava tenere la situazione sotto controllo, sempre, come diceva papà, e io lo facevo. A volte inoltre consegnavo dei pacchetti che papà mi dava, mi faceva accompagnare da qualche suo amico, che mi portava a destinazione. Io bussavo o chiamavo la persona a cui dovevo dare il pacco, lei mi diceva una “frase segreta”, come la chiamavano tutti quando parlavano con me. Se la fra- se era giusta, potevo consegnare e la mia missione era finita. Mai consegnare se la frase era sbagliata, era la regola base, ma mi chiedevo: come avrei mai dovuto comportarmi in quel caso? Io, un ragazzino di quattordici anni, di fronte a un adul-
to, che per la maggior parte delle volte era alto e robusto. Una volta lo chiesi a papà, ma lui mi rispose in modo molto ap- prossimativo che mai ci sarebbe stata quella necessità. Le in- formazioni sui “compagni”, come li chiamava lui, erano certe, e le persone erano sempre le stesse, impossibile sbagliarsi.
Un giorno come tutti gli altri mi toccò come al solito andare con un amico di papà da un suo “compagno”.
Arrivai a destinazione, il palazzo era a dir poco cadente, c’e- rano crepe ovunque e da alcune di esse usciva un’infinità di scarafaggi.
Bussai al citofono che mio padre mi aveva chiaramente in- dicato prima di partire, quello in alto a destra, dato che tutti i nomi erano sbiaditi, alcuni cancellati. Bussai di nuovo, ma niente, nessuno rispondeva. Alla fine mi appoggiai al portone e mi accorsi che era aperto. Forse avevano risposto e non me ne ero accorto, ero sempre con la testa da un’altra parte.
Entrai in ascensore, ma appena appoggiai un piede cominciò a cigolare, dunque decisi di andare a piedi. Arrivai al secondo piano: prima porta a destra del pianerottolo, anche questo mi aveva riferito mio padre, era un tipo molto preciso quando si parlava dei suoi affari. Vidi che la porta era aperta, quasi per metà; era strano che qualcuno mi invitasse ad entrare dentro casa. Di solito consegnavo fuori la porta, ma forse questo era un compagno speciale.
Entrai. Vidi tanto disordine, ma non era una novità per me il disordine. La mia casa era tre punti peggiore; percorsi un corridoio, la casa sembrava deserta, non si sentivano rumori, in fondo vidi una porta chiusa, era rosso pompeiano.
Mi avvicinai, bussai.
L’ansia cominciava a salire, c’era qualcosa che non andava, me lo sentivo, avevo il desiderio di andar via, ma non potevo,
mio padre non me lo avrebbe mai perdonato.
Non rispose nessuno, allora la aprii. “Mai lasciare un lavoro a metà...” Non avrei mai dovuto farlo.
Sangue. Sangue ovunque, sembrava che qualcuno avesse uc- ciso un maiale là dentro. Retrocessi subito, ero impaurito, non avevo mai visto tanto sangue in vita mia.


Ma perché mio padre stava dicendo tutte quelle bugie?
Mio padre era un bugiardo. La mia mente si annebbiò, non sapevo cosa dire, me ne andai, mi chiusi in camera mia.

Booktrailer

Galdi  De Filippis


IIS Della Corte Vanvitelli


Liceo Scientifico Genoinlo 1F


Liceo Scientifico Genoinlo 4C


Lettura


Gallery

Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra
Padre Camorra


Torna ai libri