Padre, figlio e fatemi santo

Edizioni Artestampa

Padre, figlio e fatemi santo

di Paolo Guerra -2020

Editing e impaginazione: Paolo Guerra

Premio "Gelsomino D'Ambrosio" (migliore copertina) XXXVII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2021

La mia vita da perfetto omino di casa va che è una meraviglia. Per esempio approfitto della pausa pranzo per fare lavatrici e per dare lo straccio in modo accurato e dettagliato; chi non lo farebbe negli unici momenti liberi della giornata in cui si potrebbe riposare, guardare inutili serie tv americane, suonare un po’ la chitarra per diletto? Immagino proprio tutti.
Prima di pronunciare la fatidica frase “faccio una vita normale” bisognerebbe aprire a caso qualche pagina di questo esilarante resoconto di ordinaria bellezza, che raccoglie sul filo dell’ironia un inventario pressoché inesauribile di quelle piccole e tragicomiche situazioni quotidiane, difficoltà e soddisfazioni, delusioni e sorprese, che popolano la vita dei trentenni di oggi.
Di quelli, almeno, che si sono abbandonati coraggiosamente alla più folle delle avventure: metter su famiglia.

L'Autore

Paolo Guerra ha decisamente troppi omonimi, ma di così indeciso esiste solamente lui. Nato trentun anni fa da madre solierese e padre nonantolano (giusto per farlo sembrare un viaggiatore), Paolo cresce e vive nella ridente Soliera, dalla quale giura non si separerà mai. Una laurea in storia ed una chitarra acustica l’hanno portato ad arredare le case altrui (cosa poteva aspettarsi da una laurea senza sbocchi lavorativi ed un sogno comune a troppi?) anche se il lavoro a cui ambisce, quello racchiuso nel cassetto del suo comodino, è diventare un pirata trattorista.
L’arrivo di Giulia ha cambiato in maniera irrimediabile la sua vita, e quello di Matilde l’ha capovolta. Adesso mangia verdure dai nomi sconosciuti e guarda cartoni animati nel tempo libero. 

Padre, figlio e fatemi santo

La parola alla Giuria


Leggi il primo capitolo

Articolo 1 - La fragilia
[…] in seguito alla Sua grave mancanza e alla violazione del contratto prematrimoniale sarà tenuto a concedere la guida esclusiva della vettura famigliare alla consorte.
Vi ricordate il mattino del vostro diciottesimo compleanno? Io sì. Avevo il piumone fin sotto il naso e le dita dei piedi intrecciate dalla felicità. Era un sabato mattina e mi svegliai prima del tempo per gustarmi il sapore della maggiore età: puzzava ancora di adolescenza. Facevo la quinta superiore, avevo tre peli di barba in faccia e aspettavo con tutto me stesso quella gita di classe che, qualche mese dopo, mi avrebbe fatto scoprire la terribile bellezza di Berlino.
Aspettavo quel giorno come adesso aspetto il 15 di ogni mese per poter prendere la busta paga (meglio non si può descrivere) e, tralasciando tutta la poesia legata alla maturità, all’età fatta di vera libertà, responsabilità, diritto e doveri, quello che a me interessava veramente era conseguire la tanto desiderata patente di guida. Poi veniva anche il resto sì, ma sono cose impalpabili finché si vive coi propri genitori sotto lo stesso tetto, e fino al momento in cui non si abbandona il nido è dura sentirsi davvero liberi e davvero responsabili.
Mentre guidare un’automobile è qualcosa di reale, giornaliero, tangibile, atteso, viscerale. Non si aspetta nient’altro così impazientemente come la patente a quell’età, perché quando puoi finalmente guidare puoi finalmente avere anche la ragazza e passare con lei risicati pomeriggi al mare grazie anche al tuo primo stipendio di duecento euro in voucher. È un concatenarsi di avvenimenti che necessitano del tassello iniziale per essere messi in moto.
Prima di allora ho passato i miei anni migliori a pedalare su una bicicletta da donna rossa, con tanto di cestino spelacchiato mal avvitato davanti e con il pedale di sinistra che faceva un repentino scatto verso il basso facendomi sembrare claudicante agli occhi dei passanti.
L’ho usata sotto la pioggia autunnale, sotto il sole estivo di mezzogiorno, sulla neve e nella notte, senza fanale, controvento dopo essermi nuovamente addormentato sul divano della fidanzata. Ci sono caduto da fermo, passando sotto i portici ghiacciati della piazza e anche quando, tirato dallo scooter bianco di Daniele, avevo raggiunto finalmente i 50 km/h come scommesso con altri amici. Fino ad allora avevo avuto solo una scelta: pedalare.
Ma quando presi la patente cambiò tutto e la prima cosa che feci fu accelerare a più non posso e asfaltare quella maledetta bici rossa: «Non ti userò mai più, da ora solo ed esclusivamente automobile! Per andare a Canicattì o per andare dal gelataio, in retromarcia, a venti metri da casa, la macchina sarà il mio unico mezzo di trasporto!» urlai istericamente in mezzo al cortile di casa mentre le tapparelle dei vicini lentamente scendevano dalla paura.
Per conseguire quella benedetta patente ci vollero mesi di studio, migliaia di euro e decine di inutili guide che duravano solamente venti minuti: cosa puoi imparare in un lasso di tempo così risicato se ci metti cinque minuti per sistemare gli specchietti, cinque a immetterti sulla strada principale, cinque per inserire la seconda e i restanti cinque per capire come togliere il freno a mano?
Ma cosa importa?! Tu intanto vai, sereno e felice, inebriato dalla puzza e dal fumo sprigionato dalle pastiglie dei freni surriscaldati, sordo ai versi dei passanti intimoriti dalla colonna nera che sprigioni e talmente assorto nei tuoi pensieri da non accorgerti che l’istruttore che scorgi dallo specchietto retrovisore si sta sbracciando per intimarti la sosta e non per augurarti buon viaggio salutandoti. Finché hai il foglio rosa lui deve venire sempre con te!
Sei felice davvero, senza riserve.
Sulla macchina dell’autoscuola però si vive anche un incredibile imbarazzo e arrivi a passare i venti minuti di guida con la speranza che gli altri automobilisti non si girino verso di te, che non sbircino all’interno della vettura nella speranza che il novellino alla guida cada in fallo in qualche modo, cosa che puntualmente avviene davanti a un infimo passaggio pedonale sul quale avresti asfaltato almeno due nonnine se l’istruttore non avesse frenato al posto tuo.
Tu, che non puoi distrarti più di tanto, provi a passarci sopra, non ai pedoni curiosi eh, ma alle paranoie: mani piantate con la sparachiodi sul volante alle h.10:10, schiena perfettamente dritta in quanto hai perso mezz’ora a sistemare col goniometro il seggiolino e via, cercando di capire le indicazioni dell’istruttore che ha passato le prime guide a dirmi “tieni frenato”.
Ma cosa significa? Devo dare gas, ma tenere frenato? Stile rally col tallone sul gas e la punta del piede sul freno? O tenere frenato significa andare piano? Ancora adesso non riesco a spiegarmelo, ma lui insegna ancora e con lui, dall’alto dei suoi (almeno) ottantacinque anni di onorata carriera, cresce la scuola di rally solierese.
Ho passato teoria al primo colpo per poi acquisire esperienza a suon di guide nel parcheggio della zona industriale, mettendo a frutto tutti gli insegnamenti, frustando le frecce direzionali, sgasando a non finire durante le partenze per poi staccare bruscamente il piede dalla frizione facendo compiere salti incredibili all’auto. Mio padre, che mi accompagnava nelle guide, preferiva venire a digiuno poiché, essendo già passato per le grinfie di mia sorella anni prima, non si sarebbe fatto trovare impreparato una seconda volta.
Gli chiedevo «Papà sono bravo? Guido bene?» e lui, guardandomi, mi ha sempre risposto nello stesso indecifrabile modo: «Guidi molto bene sul viale», citando una celebre frase dal film Rain Man. Ancora oggi, a distanza di dodici anni, mi risponde allo stesso modo quando per scherzo gli chiedo come ho guidato e, non riuscendo ancora a capire la sua risposta, non mi è chiaro se mi stia prendendo in giro o se non se la senta ancora di ammettere che guido decisamente male.
Facevamo pratica andando a Nonantola, dove abita la nonna paterna e dove potevo assicurarmi un’ora buona di guida nella zona artigianale scorrazzando tra le aziende chiuse e i parcheggi deserti del sabato mattina. Non c’erano distrazioni, persone curiose o passanti da falciare. Solo io, mio padre e una serie di cancelli chiusi. Usavamo la nostra famigliare blu, bellissima. Benzina, 1.6 cc, comoda, la macchina che più ricordo con nostalgia e sostituita nel 2010 con quella che ancora oggi, spesso (sempre), continuo a usare a sua insaputa in quanto parcheggiata nel garage di casa mia. Sui finestrini c’erano i nomi dei componenti della famiglia, ognuno in corrispondenza del proprio seggiolino: un modo romantico per dire che era la macchina dei viaggi di famiglia, apripista dei moderni stickers collocati sul baule di ogni vettura col nome del papà, mamma, figlio, figlia, cane, gatto, topo, iban, codice fiscale, irpef, imu e isee. Con lei ho imparato a guidare e a fare i primi passi di montagna tra l’Emilia e la Liguria in grande stile, con guida fluida e vomitate eccezionali da parte di mia sorella alloggiata nei seggiolini posteriori. Le nausee perduravano per tutta la vacanza e, una volta svanite, riprendevano poiché era il momento di rincasare.
Poi mio padre al lunedì rompeva l’incantesimo, la prendeva per andare a lavorare, e io? Bicicletta rossa e pedalare.
Ma facciamo un passo indietro, perché i miei complessi adolescenziali sono iniziati ben prima, precisamente nell’estate del 2002.
Io e mia sorella tornammo contemporaneamente da due “colonie vacanziere” di due settimane ciascuna sugli Appennini modenesi, visivamente tristi, malinconici, perché dopo una vacanza con gli amici tornare a casa suona quasi come sentenza: compiti estivi da iniziare e finire nel giro di poche settimane, serate con gli amici di scarsa durata “per riprendere il ritmo scolastico”, caldo afoso, zanzare insopportabili. Insomma, non era proprio il momento per ricevere altre pessime notizie, anzi.
«Abbiamo una sorpresa!» disse mia madre con un sorriso bellissimo e, invitandoci a scendere tutti in cortile, ci parcheggiammo davanti al nostro garage verde scuro dove era solita sonnecchiare la sua vecchia Fiat Panda indistruttibile. Sollevarono il portone di scatto e... «Macchina nuova!». Mancavano striscioni e coriandoli per l’enfasi con cui la annunciarono ma noi, non battendo ciglio, rimanemmo pietrificati davanti a quello scempio, un po’ come se ci avessero riempito le scarpe di cemento a presa rapida.
Era una scatola, una specie di cubo e le sue gomme sembravano quattro ruotini di scorta da quanto erano sottili. «Sorpresa! L’abbiamo vista in concessionaria e ci è piaciuta subito!» squillò mia madre. Ma “ci è piaciuta subito”… a chi? Ancora oggi devo capire se mio padre fece scegliere esclusivamente lei o se ne fu complice.
Mia sorella, allora neopatentata, era visibilmente disperata e girandosi verso destra mi guardò e precisò che, quando avessi compiuto la maggiore età, quella roba sarebbe stata solo mia. Proprio un bel pensiero altruista da parte sua ma non credo di averla ancora ringraziata a dovere e non credo lo farò.
Non partimmo proprio bene io e questo macinino grigio topo, ma i nostri destini erano ormai troppo vicini per non collidere definitivamente. Benzina, 1.2 cc e la bellezza di 90 cavalli: un ippodromo inutile su una macchina che in rotonda rischiava di volare via come fosse magneticamente attratta dal fosso più vicino. Venne soprannominata Fragila dai miei amici, un po’ perché richiamava il suo nome di fabbrica e un po’ perché sembrava davvero tutto tranne che sicura e affidabile.
Era ufficialmente la macchina di mia madre, ma divenne in men che non si dica ufficiosamente mia, in quanto lei, lavorando a trenta metri da casa, era solita andare a piedi. Aveva dei pregi credo, ma inizialmente non li reputai tali. Per esempio, quando c’era da uscire la sera, non mi si contava mai: «Bene chi prende la macchina stasera?» chiedevano, «Io poss..» e venivo sempre interrotto, forse per evitarmi l’imbarazzo di scortare i miei amici a Modena a bordo di una scatola di tonno con le ruote. In più la Fragila non era molto prestante e mi si accusava costantemente di andare troppo piano. Ero sempre il primo a partire, ma l’ultimo ad arrivare e, anche se provavo a giustificarmi dicendo che rispettavo la segnaletica stradale, i limiti di velocità, che avevo fatto benzina lungo il tragitto, scortato una vecchietta da un ciglio all’altro della strada e salvato un agnellino da un lupo, non avevo nessuno dalla mia, poiché tutti odiavano la Fragila e nessuno, me compreso, le dava credito. Adesso che ci penso i miei amici non è che avessero proprio delle fuoriserie fiammanti, ma paragonate a lei sembravano tutte dei bolidi.
In realtà aveva tutto il necessario e, dato che era quello che passava il convento, avrei dovuto accettarla in tutta la sua semplicità ed essenzialità. Intanto aveva ben quattro ruote (quantomeno questo la accomunava alle altre macchine), il volante, il cambio e soprattutto l’autoradio, considerata indispensabile e fondamentale per un vero e proprio amante della musica come me. Solo che la musica rock o metal che ascoltavo allora non le si addiceva proprio per niente. Immaginate la scena: un passante che cammina per strada sente arrivare una musica forte, assordante, cattiva. Dapprima si intimorisce un po’, cerca consensi tra gli sguardi degli altri come per dire: “Sentite anche voi? Dobbiamo preoccuparci?”, cerca di spostarsi lontano dalla carreggiata per evitare il pericolo incombente. Poi, vedendo arrivare ai 30 km/h un macinino con dei fanaloni quadrati pallidi pallidi, si fa quattro risate.
Proprio incoerente direi, ma almeno potevo ascoltare quello che preferivo, nel tentativo di dimenticare definitivamente l’audiocassetta delle tabelline che per anni mio padre mi aveva propinato in ogni viaggio sperando di sopperire alle mie lacune in aritmetica. Le aveva registrate a voce, tutte, una per una, su una musicassetta che col tempo abbiamo logorato e ricomposto con la solita penna di plastica che custodiva gelosamente nel vano cruscotto della sua Fiat Regata. In macchina ascoltavamo solo lei, dall’inizio alla fine, andata e ritorno, e quella cura mi permise in poco tempo di diventare una specie di automa matematico difettato e limitato: per rispondere alla domanda “quanto fa 7x8?” dovevo ripetermi in fila prima tutte le altre, in quanto erano diventate come una simpatica canzonetta e non riuscivo proprio a saltare da una strofa all’altra.
Ora finalmente la musica la decidevo io dentro al mio tank personale, quadrato, pratico, buono (un po’ come lo slogan della cioccolata). Mi ero quindi preparato un porta-cd con tutta la discografia dei gruppi più assordanti e arroganti presenti in circolazione ma poi, inserito il primo, la Fragila non me lo restituì più.
Non ho capito se le piacesse così tanto da volerlo ascoltare in continuazione o se l’autoradio, pur essendo nuova e non di serie, fosse difettosa in qualche modo, fatto sta che in macchina da me si potevano ascoltare solo quelle dieci canzoni che adesso, anche a distanza di dodici anni, sarei pronto a cantare con una super performance davanti a centocinquantamila persone osannanti.
La seconda scelta era ascoltare la radio, con l’unico difetto che, non avendo la possibilità di memorizzare le stazioni, si passava tutto il tragitto alla ricerca di qualche frequenza decente. Neanche da dire che quando trovavo la stazione di mio interesse ero arrivato a destinazione: un classico! Spenta la macchina, la radio si resettava obbligandomi, al ritorno, a ricominciare tutto da capo. Dopo qualche anno, poi, iniziò ad accendersi da sola. Avendo un cervello da uomo medio non particolarmente veloce nel ricordare le cose, immancabilmente, ogni volta che aprivo il garage, finivo col farmela sotto e dare la caccia alle streghe con la scopa.
Avendo un baule microscopico non potevo caricarci granché, ma, abbassando i seggiolini posteriori, si trasformava in un minivan dove si poteva stipare una famiglia di otto persone con tanto di passeggini e sporte della spesa. Il più era poi convincerla a ripartire. Le sue sottilissime ruote sembravano piegarsi verso l’interno, un po’ come quelle dell’Ape Piaggio, e quando davo gas la macchina rifiutava di collaborare, non si muoveva di un millimetro e sembrava di schiacciare a vuoto i pedali come nei videogame delle sale giochi.
Ne abbiamo combinate di tutti i colori io e la mia Fragila: ho amici che l’hanno fatta partire in quinta per farmi vedere che poteva dare di più e l’ho prestata a tutti, per scoraggiarli affinché non me la richiedessero nuovamente. Ci sono andato ovunque, in lungo e in largo, ma sempre con parsimonia, con rispetto, come se fosse anziana, delicata, fino a quando, in altre mani, veniva maltrattata e tirata al “massimo”, diventando scattante, rabbiosa, raggiungendo in discesa anche il picco dei cento all’ora in soli ventidue minuti! Andare oltre era da veri incoscienti e da amanti delle vite troppo brevi alla James Dean.
Successe una volta sola, una soltanto e fu sufficiente per tutti. Era un giovedì notte, lo ricordo ancora con estremo terrore, tatuato nei miei ricordi in maniera indelebile come dopo una maratona di film horror guardati in un capannone abbandonato e scricchiolante nel pieno di una notte piovosa. Io, Giulia e mia sorella Gloria andammo a un concerto a Padova proprio con la Fragila perché, purtroppo, la macchina delle belle occasioni serviva a mio padre. All’andata guidai io, pilota professionale e ufficiale di quella vettura ma, al ritorno, l’ora tarda mi costrinse ad affidare il volante a quella nottambula di mia sorella e io mi assopii senza troppi pensieri. Ricordo soltanto che mi svegliai in autostrada, nei pressi di Vicenza, per colpa di un rumore assordante che avvolgeva tutto l’ambiente e delle vibrazioni che schakeravano l’auto. Era circa ai centotrenta all’ora, velocità ritenuta da me inaffrontabile, ma al tempo stesso sconsigliata da qualsiasi persona sana di mente. La Fragila non era stata progettata per sostenere velocità elevate, lo diceva il telaio, troppo squadrato e poco aerodinamico, le ruote ma, soprattutto, lo diceva la lancetta del carburante, che scendeva vertiginosamente in picchiata come un base jumper che si lancia nel vuoto. «Cosa stai facendo? Bip bip bip» urlai a mia sorella in maniera visibilmente terrorizzata, ma lei niente, era ormai in balia della velocità, come incarenata dentro a un bombardiere in picchiata verso terra, con le mani piantate sul volante. Le mancava solo la maschera coi contorni in cuoio e poteva essere arruolata dall’aviazione giapponese.
Giulia, seduta accanto a me, aveva gli occhi sbarrati, iniettati di paura e incredulità. Sgranava un rosario. La Fragila era stata scambiata per un cavallo da corsa mentre io, fino a quella notte, l’avevo trattata come una mucca al pascolo.
Temevo che per lo sforzo i bulloni delle ruote si svitassero sparando i copri cerchione al di là del guardrail, che il cofano, dopo un rumore sordo, finisse con l’aprirsi lasciando impressa la scritta GAME OVER sul parabrezza.
Fortunatamente, affidandoci a tutti i santi del paradiso, arrivammo a casa anche se, in balia dell’adrenalina, non riuscii a dormire, un po’ come dopo un lancio col paracadute.
La Fragila è sempre stata così, fragilmente indistruttibile, precaria, ma allo stesso tempo riusciva a stupire chiunque nelle sue sporadiche ed esaltanti prestazioni. Poteva stare ferma per giorni, settimane, ma non ha mai mancato un’accensione e spingendo il pulsantino del telecomando da cento metri si apriva tranquillamente come se al posto della pila dentro avesse un dadino di uranio.
Si apriva e non si chiudeva, ma questi sono dettagli irrilevanti.
Io parlo al passato, perché ormai non la guido più con costanza, ma lei c’è ancora e vive sorniona e monolitica nel cortile dei miei genitori, incastonata nell’asfalto, impassibile, immobile. «Usatela ogni tanto, altrimenti le gomme diventano quadrate» dicono i vicini di casa, ignari del fatto che le sue gomme sono state progettate per il calore dell’inferno e per assumere tutte le forme geometriche differenti dal quadrato.
La Fragila, dall’alto dei suoi diciassette anni, ha poco più di centomila chilometri e potrebbe seppellirci tutti, uno a uno, contrariamente a quei bolidi fiammanti che, dopo dieci anni di manutenzioni e cambi gomme costosissimi, vengono venduti al primo acquirente disperato in cerca di macchine di case automobilistiche blasonate con più di trecentomila chilometri.
Mai rifatto la frizione, non ha bisogno del radiatore, tanto per le tratte che fa l’acqua non si scalda e se usi lo spruzzino lavavetri bagni tutto anziché il tuo parabrezza. Ma non importa, perché probabilmente è un accessorio alla James Bond per far sbandare le macchine che sorpassano dopo aver lampeggiato in maniera assillante per chilometri. Lei ha un valore di mercato di duecento lire circa, gomme da neve da quattro anni, perché tanto in estate non viene usata, come una specie di gatto delle nevi in semi congedo. Magari viene spostata due metri poco più in là per dar modo a mio padre di potare l’albero di cachi e tagliare l’erba che le cresce sotto e che pian piano la abbraccia morbidamente.
Iscritta mia figlia al nido, abbiamo deciso di installare anche sulla Fragila un seggiolino perché “nella vita non si sa mai”. Una settimana dopo eravamo già in giro, io, Matilde e la cara vecchia Fragila. Un vero passaggio di testimone perché, tanto lo so già, quando Matilde dovrà prendere la patente ci sarà lei a insegnarle come si guida con parsimonia.
Speravo solo di non doverla vedere per un po’ sinceramente, e di non dover chiedere nuovamente aiuto ai miei genitori rimasti finalmente senza il peso dei figli da sole 24h (diciamo che non furono poi così contenti di vedermi).
Quel che è certo, è che la Fragila porterà sempre racchiuso in sé il mistero di come possa essere stata acquistata a tradimento in quella maledettissima estate del 2002, di come possa essere stata pagata, di come possa essere stata venduta senza vergogna dalla concessionaria e disegnata da ingegneri tedeschi che, evidentemente, presi dalla noia di un pomeriggio di lavoro poco produttivo, giocavano a fare costruzioni coi mattoncini colorati fino a quando uno di loro avrà esclamato: «Somiglia a una macchinen, vediamo se qvalcuno la compra!».
Noi, appunto.




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