Questa scuola non è un albergo

Pino Imperatore

Questa scuola non è un albergo

Secondo premio Narrativa edita XXXVI edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" anno 2019

Descrizione

Un ingegnere che approfitta di una Pianura in via di edificazione, un giovane medico che riceve un pericoloso regalo di laurea, un direttore d’orchestra alle prese con uno spartito molto particolare, un giornalista che scopre che il suo cane è uno strano postino, il gallerista che nasconde un inconfessabile segreto, il vecchio avvocato che aiuta il figlio poliziotto a risolvere due delitti con metodi sbrigativi ma efficaci, dark ladies in grado di decidere le sorti dei propri amanti ed anche un maldestro borseggiatore che collabora a sventare un omicidio. Sono questi alcuni dei personaggi, gli indigeni appunto, che l’autore utilizza per raccontare la propria città. Il modello utilizzato è quello cinematografico del grande Hitckock de La finestra sul cortile solo che questa volta al centro non c’è un palazzo con le storie di chi ci abita ma un’intera città, in cui quelle figure che ne Il Ricamo Mortale erano di contorno diventano protagoniste con i loro pregi e i loro difetti, con il proprio modo, spesso raffazzonato, di parlare o di correlarsi con gli altri personaggi. È il caso del commerciante Giovanni Proconi, presente nel racconto “Schiamazzi notturni”, o dell’attempato ladruncolo Ernesto Pappacoda di “Corrida al terminal”, del deforme ma affettuoso Carluccio di “Zio Carlo” o ancora dello sfortunato suonatore ambulante Giovanni Cuzzo di “Le note insulse”. Accanto a queste figure ci sono altre tipologie ricorrenti: giornalisti, poliziotti, avvocati, medici nonché camorristi, faccendieri, truffatori, uomini politici collusi. E non manca anche lui, Geremia Tolino, alias Attico, agli albori della sua iniziazione giornalista.

L'autore

Questa scuola non è un albergo

Pino Imperatore è nato a Milano nel 1961 da genitori emigranti napoletani e vive in Campania dall’infanzia. Ha vinto i maggiori premi italiani per la scrittura umoristica ed è autore di opere teatrali, racconti, saggi umoristici e romanzi bestseller. Con DeA Planeta ha pubblicato Aglio, olio e assassino e Con tanto affetto ti ammazzerò, di cui sono protagonisti Scapece, Improta e i Vitiello.

Leggi il primo capitolo

Una famiglia poco normale
Ogni volta che guardo questo video, la mia mente esplode e perdo il controllo dei pensieri. Le immagini sono di due estati fa. Le girai col telefonino sulla spiaggia di Palinuro, alla vigilia di Ferragosto. C’è mio padre seduto sotto un ombrellone a leggere un giornale, a pochi passi dal mare. Mia madre e mia sorella gli arrivano alle spalle, gli rovesciano addosso un secchiello d’acqua e scappano. Papà non si arrabbia, fa finta di niente. Si alza, si asciuga con un telo e all’improvviso scatta a correre. Raggiunge mamma, la solleva di peso e la lancia fra le onde. Mia madre riemerge, inclina all’indietro la testa, si ravvia i capelli e va ad abbracciare mio padre. Mano nella mano, tornano sulla battigia, dove mia sorella è pronta a colpirli con due palle di sabbia. Poi vengono verso di me, per coinvolgermi nei loro scherzi. E qui la registrazione si interrompe.
Ogni volta che guardo questo video, non riesco ad accettare l’idea che quella sia stata l’ultima volta che ho visto mia madre ridere, giocare, vivere.
Io mi chiamo Angelo. Angelo D’Amore. Bella accoppiata di nome e cognome, vero? Me lo dicono tutti. In teoria dovrei essere un messaggero di sentimenti positivi. Una grossa responsabilità. A farlo, lo faccio, e mi viene pure facile. Non sempre, però; ho i miei momenti no, come tutti; momenti di chiusura, solitudine, rabbia. Gli adulti a noi ragazzi dicono: «Avete tutta la vita davanti e tantissime cose da fare, siate felici!». L’incoraggiamento è lodevole, ma bisogna valutare caso per caso. Io ho quasi diciotto anni, e la vita che ho davanti dovrò viverla senza mia madre. Se mi volto indietro, i miei ricordi si fermano al quindici agosto di due anni fa, quando lei perse tragicamente la vita. La sua morte, che non ho mai accettato e mai accetterò, ha spaccato in due la mia esistenza. E non solo la mia. C’è un prima e un dopo quel giorno, una barriera scura che ha diviso il passato dal presente; c’è un vuoto che niente e nessuno riuscirà mai a colmare.
Vivo con mio padre e mia sorella al terzo piano di un palazzo affacciato sul mare, tra il Vesuvio e il golfo di Napoli. Nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Ogni mattina mi sveglio con il rumore delle onde sulla scogliera. D’inverno, con l’arrivo delle tempeste, la pioggia e il vento ci portano in casa la salsedine. Sui mobili, sui vestiti, sui capelli, sul viso. Chi abita accanto al mare ha addosso un sapore intenso: di acqua salata, di alghe, pesci e tesori sommersi nei fondali.
Un tempo San Giovanni era una zona industriale. Fabbriche, cantieri, laboratori artigianali. Non è rimasto quasi nulla. Molti capannoni sono abbandonati da decenni. Da piccolo ci andavo a giocare con altri bambini; inventavamo storie, mestieri, strumenti di lavoro; io ero il capomastro. Un pomeriggio in un cantiere in disuso trovammo dei martelli e dei chiodi, recuperammo un po’ di assi di legno e in una settimana costruimmo una barca. Ci procurammo dei barattoli di vernice e dei pennelli e la dipingemmo di rosso e di blu. Con un’asta facemmo l’albero maestro e ci piazzammo sopra la bandiera dei pirati. Poi scrivemmo su dei pezzetti di carta i nostri desideri, li sistemammo a prua in una scatola di latta, portammo la barca sulla spiaggia e la mettemmo in mare. Ho ancora in mente la scena: noi allineati sulla riva, impettiti e orgogliosi, e la barca che pian piano prendeva il largo. Portando verso l’orizzonte i nostri sogni.
Mio padre è un uomo bellissimo. Ha quarantacinque anni, è architetto e lavora per una società immobiliare. Si chiama Lorenzo. Ha i capelli e gli occhi scuri e la pelle ambrata, ed è molto dolce e comprensivo. Glielo dico sempre: «Sei più buono della Nutella».
Fisicamente gli assomiglio molto, ma ho i capelli ricci di mia madre. Quant’era bella, anche lei. Aveva un sorriso che faceva squagliare. Si chiamava Alessia e lavorava nell’ospedale Loreto Mare come neurochirurga. Quante vite ha salvato, prima di perdere la sua.
La più estroversa della famiglia è mia sorella Gioia. Sembra uscita da un film comico. Fa battute, imitazioni, smorfie, non sta ferma un attimo. Va in terza elementare, le piace molto leggere ed è campionessa di puzzle; studia l’immagine da comporre, sparpaglia i pezzi sul pavimento, si accovaccia e in pochi minuti li incastra in modo corretto.
Per intelligenza e padronanza di linguaggio, i suoi otto anni vanno moltiplicati per tre. Se la sfidi sulla dialettica e non mantieni la massima attenzione, ti mette kappaò.
Il suo martire preferito è Alfonso, mio miglior amico e mio compagno di scuola. Di cognome fa Attanasio, ma tutti lo chiamano ’o Muscio perché è di una lentezza esasperante. Moscio nei movimenti, nella parola, nella comprensione di qualsiasi concetto. Guai a mettere alla prova il suo cervello. Se gli domandate la differenza tra un angolo acuto e un angolo retto, sviene. È un gigante buono; ha la testa di un bambino posata su un corpo alla Frankenstein. È alto un metro e novanta e pesa più di cento chili. Quando mi abbraccia o mi dà una pacca su una spalla, perdo il respiro.
L’ultima volta che mi è venuto a trovare a casa, Gioia lo ha osservato da capo a piedi ed è partita all’attacco: «Come speri di conquistare una pupa, con quell’aria mezza addormentata?».
«Una pupa?» ha chiesto Alfonso guardandomi. «Ma tua sorella come parla?»
Gioia lo ha tirato per la camicia: «Ehi, perché lo chiedi ad Angelo e non a me?».
Io ho cominciato a ridacchiare.
Alfonso ha abbozzato una risposta: «Perché sei piccola». «E tu saresti grande?»
«Rispetto a te sì.»
«Ma non farmi ridere! Sei solo uno spilungone addormentato.»
«Spilungone a me non l’ha detto mai nessuno.»
Gioia gli ha puntato un dito sulla pancia: «Ora te l’ho detto io, ok? E se proprio vuoi sapere un’altra cosa, hai pure un buco dietro i pantaloni, da cui ti escono dei brutti pelazzi».
Ho controllato: in effetti i jeans di Alfonso avevano, sul didietro, uno squarcio che metteva in brutta mostra un ciuffo di peli. «Alfo’, che tieni al posto delle mutande, un pezzo di moquette?»
«Mo’ ti metti pure tu, Angelo?»
La mia sorellina lo ha tolto dall’imbarazzo: «Comunque,
Alfonso, mi sei simpatico. Ora prendimi in braccio, facciamo naso contro naso e dammi un bacetto».
Alfonso l’ha sollevata, l’ha abbracciata forte e se l’è sbaciucchiata tutta, mentre io facevo il solletico a entrambi.
Il nostro appartamento è grande e luminoso. Mamma e papà lo comprarono prima di sposarsi. Ogni sabato pomeriggio ci vengono a trovare i miei nonni paterni, Giulio e Agnese. Hanno una stanza tutta per loro; spesso si trattengono a dormire e stanno con noi fino alla domenica sera. Sono pensionati e abitano al lato opposto della città, in un’altra ex zona industriale a contatto col mare: Bagnoli.
Nonno Giulio è stato un insegnante di scuola elementare. Papà lo venera. È magro, ha una barba alla Babbo Natale, è sempre elegante e profumato. Parla poco, e quando lo fa dà prova della sua saggezza. È collezionista: a casa sua ha vecchie stampe, decine di album di francobolli e tante monete antiche.
Nonna Agnese, invece, è un’instancabile chiacchierona. Conosce centinaia di barzellette e ci fa fare un sacco di risate. Prima della pensione faceva la parrucchiera. A Bagnoli aveva un negozio sempre pieno di belle ragazze e signore. Ogni mese inventava un’acconciatura diversa, ispirata al mondo vegetale: all’ananas, al carciofo, al salice piangente, alla noce di cocco. Quando lanciò la moda della pettinatura al fico d’India, ebbe la fila per tre giorni.
Nel nostro stato di famiglia occupa un posto di riguardo un pennuto: Cico, un pappagallo cenerino parlante, spasso di tutte le nostre giornate. È grigio e bianco, ha la coda rossa e gli occhietti vispi. Lo teniamo in cucina in una grossa voliera, da cui esce quando gli pare e piace: con una zampa apre la porticina e se ne va in giro per le stanze, svolazzando o passeggiando. Se desidera qualcosa, ci chiama per nome. Ha un’intelligenza straordinaria, ripete tutte le parole che pronunciamo e conosce varie espressioni; la sua preferita è: «Pappa subito!».
È un uccello amante della privacy. In un angolo della voliera, Gioia ha piazzato un lettino di una delle sue bambole e l’ha nascosto con una tendina. In questo ambiente riservato Cico si ripara quando è infreddolito o vuole dormire. Oppure quando deve ospitare qualche pappagallina del quartiere. In tal caso ci caccia gridando: «Fuori dalle palle!».
Nonostante goda della massima libertà, non si allontana da casa per più di mezza giornata. In una sola occasione, la primavera scorsa, sparì per una settimana, facendoci precipitare nella disperazione. Organizzammo delle ricerche, girammo per tutti i palazzi della zona, chiedemmo notizie all’intero vicinato, avvisammo i pompieri, attaccammo per le strade un manifestino con la sua foto a colori e la scritta: Cico Missing.
La mattina dell’ottavo giorno, quando ormai eravamo convinti che avesse avuto una disgrazia o fosse stato sequestrato da una banda di trafficanti di volatili, piombò in picchiata in cucina, atterrò sul tavolo, abbassò la testa e disse: «Perdono, non faccio più». Poi ci fece capire che era stata una fuga d’amore finita con un tradimento, perché per tre volte ripeté le parole «Cocorita stronza» e si ritirò dietro la tendina della sua alcova, dove restò per ventiquattr’ore in dignitoso silenzio.
Spesso Cico aiuta Gioia a comporre i puzzle. Mia sorella gira attorno ai pezzi sparsi sul pavimento, lui la segue zampettando e ogni tanto si ferma, afferra un tassello col becco e glielo porge. In una serata sono capaci di mettere insieme duemila pezzi di un disegno che raffigura un paesaggio innevato. Con o senza sciatori.
Credo proprio di appartenere a una famiglia poco normale. Pappagallo compreso.

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