Ricorda il tuo nome

Nicola Valentini

Ricorda il tuo nome

Premiato con Targa nella XXXVII edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni" – anno 2021

Descrizione

Al termine della Seconda guerra mondiale, due ebrei feriti sono ricoverati nella stessa clinica. Uno ha perso la memoria, l’altro l’uso delle gambe. Durante la degenza, tra i due si instaura una profonda complicità e insieme decidono di vendicarsi dei gerarchi nazisti di Buchenwald, in particolar modo dell’ufficiale Eike Aumann. I loro movimenti attirano però le attenzioni del comandante della polizia militare americana Berger e di un altro ebreo deportato, ormai noto come il Cacciatore di nazisti. Il destino dei quattro uomini si compirà al termine delle rispettive ricerche, quando giungeranno nel covo di Aumann.

L'Autore

Ricorda il tuo nome

Nella vita è un elicotterista dell’Aeronautica Militare e lavoro presso l’aeroporto di Milano Linate.
Alle spalle quattro pubblicazioni:
- Dossier Mozart, edito da DrawUp nel 2016, un giallo storico incentrato sulla misteriosa morte del musicista.
- La maledizione di Akhenaton, edito da DrawUp nel 2018, un romanzo di avventura che ruota attorno alla scoperta della tomba del faraone eretico.
- Ricorda il tuo nome, edito da Leone Editore nel 2019, un thriller storico ambientato in Germania al termine della seconda guerra mondiale e che ha ricevuto diversi riconoscimenti.
- La musica del diavolo, edito da Leone Editore nel mese di marzo 2021, un romanzo ambientato nel Mississippi di fine anni trenta, con protagonisti la musica di Robert Johnson e il razzismo. 

Leggi il primo capitolo

Prologo
Febbraio 2015,
Buchenwald, Germania
 
Ci sono voluto tornare ancora una volta prima di morire.
Sono ormai prossimo a passare a miglior vita, anche se ho già rischiato di farlo in diverse occasioni; una volta, in particolar modo. In realtà, per certi versi, mi considero già morto da settant’anni, da quando, quel giorno, è morta una parte di me; è rimasto in piedi, si fa per dire, solo il mio corpo avvizzito, un nudo involucro decaduto un po’ per volta ma che ancora adesso si rifiuta di estinguersi. Un involucro talmente attaccato alla vita da non volerla lasciare andare nemmeno ora, a novant’anni suonati, seppur ridotto a deambulare su una sedia a rotelle elettrica, debole e tremolante, con una protesi al posto dell’anca, un’altra in bocca al posto dei denti e incapace di trattenere l’urina, ormai cieco da un occhio ma ugualmente intenzionato a non staccarsi da lei perché per lei ha combattuto, ha sofferto e per lei ha visto altri corpi morire.
È talmente attaccato alla vita che comincio a dubitare anche che tra pochi mesi sarà morto sul serio come mi hanno invece assicurato i dottori; nel dubbio, come dicevo, ho deciso di tornare qui un’altra volta, perché questi miei occhi malandati possano fissare ancora e imprimere per sempre nella memoria ciò che è stato un tempo.
Questo luogo rappresenta l’esempio ideale di cosa l’uomo sia in grado di fare ai suoi simili, di come l’umanità sia fallita di fronte al delirio di un solo individuo, seguito da una nazione accecata dall’odio. Al termine della guerra ho conosciuto alcuni dei sopravvissuti; le loro storie erano simili tra loro, ognuno di loro aveva orrori da raccontare e tutti portavano anche dentro i segni di quel tempo. Uno, in particolar modo, me lo ricordo ancora adesso. In realtà la sua faccia l’ho dimenticata, confusa nel mare di volti incontrati nella mia lunga vita, così come il suo nome; mi è rimasta impressa, però, una cosa che mi disse e che rappresentava benissimo il trauma suo e di molti altri. Mi disse che per moltissimo tempo rifiutò di specchiarsi. La prima volta avvenne nel 1945, casualmente, nell’ospedale dove lo avevano ricoverato dopo la sua liberazione. Mi spiegò che la figura riflessa dallo specchio era una delle immagini che lo torturavano ancora a distanza di tanti anni, negli incubi ricorrenti di cui soffriva: un mucchio di ossa, piegato perché non riusciva a reggere il peso di quelle stesse ossa, e gli occhi terrorizzati che lo fissavano. Se solo ne avesse avuto la forza, mi confidò, l’avrebbe distrutto quello specchio maledetto, a calci e a pugni. Non poteva essere lui quel mostro che vedeva.
Dopo quell’esperienza rifiutò il confronto con lo specchio per moltissimo tempo. Si era limitato a sopravvivere, a trascinare le sue spoglie nel quotidiano, cercando di convivere con il terrore e l’annientamento di cui era stato vittima.
In seguito ho conosciuto altri ex deportati, e tutti avevano dovuto convivere con i ricordi di quel tempo. In una maniera o nell’altra, bisognava lasciarsi il passato alle spalle e imparare, dunque, a conviverci. Chi ci era riuscito, era stato in grado di rifarsi una vita, ma per ognuno di loro che ce l’aveva fatta ce n’erano stati altrettanti a non riuscirci; anche a distanza di molti anni dalla liberazione, molti sopravvissuti si tolsero la vita.
Tra chi era riuscito a crearsi una nuova vita, ricordo Shimon Philipkowski, che incontrai poco dopo la fine del conflitto.
Philipkowski trovò nella sete di giustizia la spinta per superare il trauma della deportazione. Il modo migliore, forse l’unico per non dimenticare chi era stato spazzato via dalla follia nazista, era quello di scovare i gerarchi che si erano resi responsabili dei crimini contro la razza umana, degli ebrei in particolar modo, e poi consegnarli alla giustizia. Dovevano ammettere davanti a tutto il mondo ciò che avevano fatto e per questo pagare la giusta pena. Soltanto in questo modo, il sacrificio dei milioni di morti poteva avere un senso, servire da monito per le generazioni future.
Lui si impegnò così tanto nella ricerca dei gerarchi fuggiti da guadagnarsi l’appellativo di Cacciatore di nazisti; in realtà furono diversi a essere battezzati con quel nome ma Philipkowski fu uno dei più conosciuti e determinati. All’inizio era stato tentato di dimenticarsi tutto, tenere i ricordi segregati in un angolo della propria mente, ma era stato inutile: puntualmente, tornavano in superficie, reclamavano giustizia, impedendogli di condurre una vita anche solo apparentemente normale. E allora aveva capito quale sarebbe stato l’unico modo per andare avanti; la sua missione divenne assicurare i nazisti ai Tribunali internazionali.
Ricordo che anche lui mi confidò la propria ritrosia a guardarsi allo specchio; riuscì a superare questo blocco solo quando aveva cominciato la sua nuova vita, quando aveva cominciato a dispensare la sua giustizia.
Ma anche dopo, il suo rapporto con lo specchio fu tormentato; i segni del trauma erano così profondi da non poter essere più cancellati, anche quando sembrava essere tornato un uomo normale, con i capelli che erano ricresciuti e con la carne che era tornata a riempire gli spazi intorno alle ossa, le spalle raddrizzate. Un uomo all’apparenza comune, ma Shimon aveva fissato quell’uomo e non si era riconosciuto. Non c’era più traccia dell’altro Shimon, quello prima della deportazione.
«Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima e io, fissando quegli occhi, ho visto il vuoto.»
Aveva avuto l’assoluta certezza di essere rimasto un semplice involucro.
«Erano occhi inespressivi, indifferenti. È questa la cosa peggiore che mi hanno fatto; in un certo senso, mi hanno reso simile a loro, e forse sarò dannato per sempre. Come loro, non ho avuto pietà, li ho cercati, studiati e rincorsi senza pietà, fino alla loro cattura.»
Il Male lo aveva logorato, diceva. Ai suoi figli avrebbe insegnato a non farsi sopraffare dall’odio:
«La vendetta corrompe il pensiero, e necrotizza il cuore.»
Quasi ogni notte veniva tormentato dagli incubi in cui sentiva le grida degli altri prigionieri; vedeva ancora occhi, le orbite vuote dei soldati che eseguivano gli ordini come macchine, quelle crudeli degli ufficiali e quelle disperate e rassegnate dei deportati. E ogni giorno non cessava di chiedersi perché fosse sopravvissuto, perché lui sì e gli altri no.
«Perché non me, perché non hai preso anche me.»
Questa fu una delle frasi che mi aveva detto quel Philipkowski la prima volta che lo incontrai durante una delle sue visite alla clinica dov’ero ricoverato.
Avrei voluto passeggiare attraverso i boschi e arrampicarmi sulla collina dove sono diretto, invece vengo portato a spasso da una macchina elettrica, frutto dell’avanzata tecnologia tedesca della ditta Hermann DTS.
Ho preso una camera a Weimar, a otto chilometri da qui. La città che ha incarnato l’Illuminismo tedesco, il luogo dove è nata la democrazia tedesca nel 1919, la casa di Johann Wolfgang von Goethe. Un’immagine stridente con quello che poi ha rappresentato durante il Nazismo, quando è diventata un tutt’uno con il campo di concentramento di Buchenwald.
Ed eccomi adesso sulla collina di Ettersberg. Sto attraversando il suo fitto bosco di faggi, Buchenwald in tedesco; è con la legna di questa foresta che sono state costruite le baracche. Tutt’intorno, qui, regnano il silenzio e la desolazione. La desolazione dell’uomo, abbandonato in un luogo così isolato, scelto all’epoca proprio perché nascosto da tutto e da tutti. Il bosco, infatti, nasconde molto abilmente l’interno del campo.
Buchenwald si trova in quella parte della Germania che diventò DDR dopo la guerra. Da questo lungo viale, la prima cosa che il visitatore vede è il monumento costruito per la memoria. Lo si vede a chilometri di distanza e la sua vista, unita alla consapevolezza di quello che è successo qui, sembra quasi un monito per tutta l’umanità.
Ho un attimo di esitazione, l’ansia mi assale quando in lontananza, dopo il monumento, vedo anche la grande ciminiera del forno crematorio, altro figlio della tecnologia ariana, della ditta J.A. Topf und Söhne di Erfurt, ma questa volta niente fumo dalle sue sei bocche. Dirigendomi verso la collina ho anche il tempo per ammirare alla mia destra un albero; non è un albero qualunque ma è quello sotto il quale Goethe amava fermarsi per pensare e scrivere le proprie opere. Credo che anche questo sia un enorme contrasto perché la poesia è vita mentre il terreno su cui quell’albero sorge è un luogo di morte.
Ho appena imboccato la strada principale, quella da cui tra poco potrò rivedere l’ingresso principale del campo. Dopo la guerra l’hanno battezzata Blutstraße, “strada del sangue”. E finalmente riecco davanti a me l’ingresso. Altre persone, in silenzio, sono dirette lì, stanno per entrare; alcuni giovani sorridono abbracciati mentre si fanno un selfie con lo sfondo del cancello e di quella scritta a me familiare: JEDEM DAS SEINE, “A ciascuno il suo”.
Adesso sono proprio sotto la scritta; non vedo più nessuna delle persone che mi sono attorno; i miei occhi ormai malati rivedono soltanto le immagini di allora: il campo con gli stessi colori, gli stessi odori di un tempo, scorgo divise e simboli delle SS, bandiere tedesche e stemmi nazisti, e ancora pigiami a strisce, stelle gialle, nere, azzurre, rosa, verdi, i braccialetti, le croci e i numeri, odo voci brutali che tormentano, rivedo cani che abbaiano e che azzannano, sento ordini e lamenti, pianti di bambini e di mamme disperate e implorazioni.
Il cielo è grigio come in quei mesi e per terra c’è un manto di neve sporca dello stesso colore. Invece il freddo mi sembra acuito, forse perché adesso sono molto più vecchio.
Avanzo ancora ed ecco il recinto di filo spinato: sono quasi tentato di andarlo a toccare per vedere se è ancora elettrificato. Mi guardo attorno e vedo anche le torrette di sorveglianza ma dentro non c’è nessuna guardia. Adesso ce ne sono in piedi soltanto due. Quando sono stato qui, erano ventidue.
Oltre il recinto, adesso posso ammirare prati verdi, mentre allora non faceva in tempo a crescere un solo filo d’erba perché veniva mangiata anche quella.
Volgo lo sguardo un po’ più a destra e sento il cuore perdere un colpo: ho appena messo a fuoco il famigerato bunker, la prigione del campo. È stata la mia casa, con le celle, gli uffici della direzione delle SS, l’edificio dove gli ospiti venivano rasati, disinfettati e catalogati.
E poi ecco il piazzale delle adunate.
Adesso non sono più convinto che sia stata una buona idea tornare qui un’ultima volta.
Decido di proseguire lo stesso. Prendo una guida con la cartina del campo e leggo. In realtà potrei fare la guida di me stesso, anzi, potrei raccontare alcune cose che su queste guide non sono riportate. Come quelle ad esempio: adesso sono ricoperte dalla vegetazione, ma in quella vallata lì in fondo si trovavano le autorimesse delle SS.
Dall’altra parte del viale si raggiunge la stazione ferroviaria, e quella che adesso è la fermata degli autobus che porta i visitatori all’epoca era la piazza d’armi delle SS.
Dalla parte della stazione e a nord del campo c’erano le fosse comuni e i terreni dove venivano sotterrati i resti provenienti dal crematorio. Mi sembra quasi di sentire l’eco delle voci di chi è stato abbandonato laggiù. Da una guida in lingua tedesca che mi passa vicino vengo a sapere che, ancora adesso, il terreno restituisce dei resti, come se il terreno stesso si rifiutasse di accoglierli.
Rispetto ad allora, molti edifici non esistono più, abbattuti nel corso degli anni. Forse l’intenzione iniziale era proprio quella di radere al suolo il campo, poi si è preferito lasciarlo in piedi come testimonianza.
A proposito di testimonianze, all’interno del campo si trova anche il Memoriale. E poi delle sale lettura e una biblioteca. Il percorso che è stato costituito dagli organizzatori del Memoriale, prevede un viaggio simbolico che va dalla morte alla vita, il percorso inverso dei prigionieri. In pratica il cammino porta dal crematorio alle fosse comuni, per finire al monumento: una torre che sta a rappresentare la libertà e la luce.
Rivedo i ragazzi che poco fa si stavano fotografando con lo sfondo dell’ingresso, appartengono a una scolaresca. Si avvicinano e mi chiedono se possono farsi una fotografia con me. Accetto. Un loro accompagnatore invita altri vecchi reduci, alcuni sono anche loro su delle sedie a rotelle, tutti hanno qualcuno che li accompagna. Giovani studenti, insegnanti e accompagnatori si stringono attorno a noi. Sorrido all’obiettivo, sono troppo stanco e vecchio per ricordare Buchenwald come l’inferno che fu e volti famigliari. Meglio lasciare tutto nel passato. Abbraccio quello che è al mio fianco, e proseguo il mio giro, senza voltarmi.
Il mio nome? Che importanza ha? Io stesso non sono nemmeno più sicuro che sia quello vero, l’ho dimenticato per troppo tempo, perché a Buchenwald, come in tutti gli altri campi, era obbligatorio dimenticarselo. Ad Auschwitz eri un numero marchiato sull’avambraccio, a Buchenwald eri un numero stampato su di un pezzo di stoffa; l’importante era togliere ai deportati l’identità, il primo rito della liturgia dell’annullamento umano.
In un certo senso, anche una parte degli aguzzini preferiva identificarsi con i numeri, quindi dimenticarsi della propria identità. In guerra i soldati vengono identificati con la matricola militare, così è più facile sfuggire a quegli atti indicibili; era come se, indossando divisa e numero di matricola, lasciassero la loro umanità, e ciò che erano stati prima della guerra, fuori dal lager.
Lì dentro, erano solo soldati che eseguivano ordini.


Presentazione del libro


Torna ai libri