
Giovanna Mozzillo
Ritorno in Egitto
Terzo premio ex aequo "Simonetta Lamberti" (Narrativa ragazzi) XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018
Descrizione
Il potere di Roma è al tramonto. Nell’Urbe regna l’angoscia perché i barbari premono ai confini, la criminalità impazza, dilagano le epidemie, proliferano insetti mostruosi e fenomeni inspiegabili accreditano la tesi che la fine dei tempi sia vicina.
Un mondo in sfacelo in cui sempre più capillarmente si diffonde il messaggio del Cristo, il profeta di Nazareth che all’umanità atterrita offre certezze e speranze, ma ribaltando criteri di giudizio validi da secoli e rivoluzionando il concetto di bene e di male. Accade così che Claudio e il suo concubino Ligdo d’improvviso scoprano come il loro rapporto – un rapporto da sempre ritenuto giusto e gradito ai celesti – ora per il nuovo dio sia turpe e peccaminoso. Si innesta così una vicenda che, ricca di episodi suggestivi o inquietanti, sfiora il confine tra razionale e irrazionale e si dipana incalzante verso un esito imprevedibile. Una vicenda in cui il pathos - implicito nell’impatto tra due concezioni della vita reciprocamente incompatibili, quella classica che esalta l’eros e quella cristiana che lo criminalizza - è potenziato anche dallo stile: alto e, al tempo stesso, avvincente. Il romanzo, pur ricreando un mondo lontano da noi ma all'origine della nostra storia e della nostra civiltà, affronta temi attualissimi: perché attuali sono il contrasto tra laicità e fondamentalismo e l'ansia di chi vede sgretolarsi il sistema di valori a cui da sempre ci si è affidati.
L'autrice
Giovanna Mozzillo vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato: Le alghe di Posillipo (1994, II ed. 2011), Tempo di cicale (1995), Recita napoletana (1999, Premio “Naples in the World”, da cui è stato tratto il lavoro teatrale “Tempo scaduto”, diretto e rappresentato da Gea Martire), La signorina e l’amore (2001, finalista al Premio Morante 2002), Lavinia e l’angelo custode (2003), Quell’antico amore (2004), La vita come un gioco (2007, finalista al Premio Melfi 2008), Malgrado tu sia altrove (2014). È coautrice del volume collettivo La guerra e le bambine: sedici nonne raccontano (2014). In edizione Marlin: Ritorno in Egitto (2017) e Il canto del castrato (2019). Collabora alle pagine culturali di vari quotidiani e riviste, tra cui “Corriere del Mezzogiorno” e “Leggendaria”.
La parola alla Giuria
Il romanzo descrive mirabilmente quel particolare periodo storico in cui si assiste al trascolorare del paganesimo, alla sua progressiva perdita d’ importanza, di fronte all’affermarsi del cristianesimo, al cui interno si manifestano sempre più frequenti episodi di intolleranza. Passaggio di consegne, questo, simboleggiato dal sorgere di chiese sulle rovine di templi abbandonati. La nuova fede trionfante è considerata, dal punto di vista giudicante dei personaggi rimasti fedeli ai vecchi dei, nei suoi aspetti più lugubri e protervi di intransigente rifiuto della gioia di vivere e appare ossessionata dal senso tutto cristiano del peccato. L’opera di Giovanna Mozzillo è una vera e propria miniera di notizie informative di carattere storico-antiquario (non mancano notazioni di storia dell’arte antica); tali informazioni non si presentano come sfoggio erudito o ricerca dei facili effetti di un estetismo d’accatto, ma sono ben rifuse nello sviluppo armonico della narrazione della vicenda di un amore contrastato e finito tragicamente, cui conferiscono carattere di veridicità; col risultato, non scontato e apprezzabile, di trasferire il lettore nella cupa atmosfera da basso impero che pervade tante pagine. Merito indubbio di questa robusta narratrice è anche di avere affrontato temi di stringente attualità: il fanatismo, l’omofobia, il concetto di giusto e di ingiusto, l’eutanasia; e altro ancora. Il periodare amplissimo e ricco di subordinate, funzionale a rendere le motivazioni dell’agire umano, si alterna a uno stile secco e paratattico, o addirittura ellittico e scorciato, assecondando adeguatamente il variare delle situazioni e degli argomenti. Un romanzo, Ritorno in Egitto, che si legge tutto d’un fiato e riesce a tener desta l’attenzione del lettore fino alla fine. E non è cosa da poco.
Fabio Dainotti
Leggi il primo capitolo
Tempo d’angoscia
Claudio
Ero bambino e, per mano alla nutrice, camminavo lungo la sponda di un canale, uno dei tanti che affluiscono al grande fiume. Doveva essere, credo, il tramonto, perché bagliori d’oro sciamavano in cielo, riflettendosi sull’acqua che pareva scintillare. E l’aria era tiepida e profumata di rose. Per questo la respiravo a pieni polmoni, golosamente, e mi sentivo felice. Felice di un’inebriante sconfinata felicità. Ma per forza: ineffabile è la dolcezza che, in terra d’Egitto, ammanta il mondo al declinar del sole. Quando a un tratto lo sguardo mi è caduto su un punto del flusso in cui la corrente formava come un mulinello – c’erano, mi pare, dei trucioli, sì, dei trucioli di legno, e un ramo di palma, e un colombo annegato, e il vortice li faceva girare in tondo, sembrava s’inabissassero, ma subito rispuntavano a galla per venir di nuovo risucchiati - e allora, osservandoli rotare in quella successione senza sosta, come impazziti, i trucioli, il ramo, l’uccello morto, oh, Dei del cielo, mi sono detto, quanto deve esser atroce ritrovarsi così, in balia di una forza che totalmente ci domina, e sentirsi ridotti all’impotenza, senza capacità di reazione, completamente alienati della propria volontà!
Questo mi è venuto in mente, e l’angoscia mi ha colto, un’angoscia così condizionante che mi son dovuto fermare.
“Che c’è?, ha chiesto la nutrice, cosa ti sta succedendo, gioia mia?”, e premurosa si è curvata verso di me, e mi sono visto di fronte il suo buon volto corrugato per l’ansia, e c’era una vena sottile che le batteva alla tempia, e sulle labbra rosse di henné stagnava una goccia di saliva, e sulle guance, ai lati del naso, i pori apparivano dilatati.
Santi Numi, ho pensato guardandola, com’è fragile la nostra carne, com’è intollerabilmente vulnerabile la nostra fisicità, in quanti modi il tempo e il fato possono avvilirla e sopraffarla e, sopraffacendola, travolgerci, travolgerci come il vortice travolge i trucioli di legno! E allora l’angoscia mi è cresciuta dentro, è cresciuta a dismisura, e mi ha allagato il petto, e non potevo più respirare, e il mio cuore è esploso.
Mi son sentito morire, e mi son svegliato.
L’Egitto: fu là che i miei fratelli e io trovammo rifugio dopo che per ordine di Cesare i nostri genitori si erano dati la morte. E là siamo rimasti sette anni. A Roma abbiamo fatto ritorno solo quando Cesare venne avvelenato e il nuovo Cesare acconsentì a richiamarci.
In Egitto però io non sono stato infelice. Anzi: l’Egitto della mia infanzia l’ho amato assai. Soprattutto perché intorno alla casa in cui eravamo ospitati c’era un giardino, un giardino a terrazze che digradava verso il fiume e che a me appariva immenso e intriso d’incanti e misteri. Ad ammaliarmi erano in particolare le grandi vasche dai levigati bordi di marmo pario: in esse nuotavano lenti e assorti pesci dalle sagome strane e levitavano ninfee dai bianchi petali su cui saltellavano le rane. In quelle vasche venivano a tuffarsi anche gli uccelli acquatici che poi, riprendendo il volo, mi investivano col vento delle ali.
Amneris sosteneva di capirne il linguaggio.
“Sai - mi diceva- raccontano di quel che hanno visto sulle montagne che si ergono ai confini del mondo, là dove il sole non tramonta mai e s’incontrano il serpente alato che dalle fauci erutta fuoco e l’unicorno nel cui sguardo si cela il segreto della vita.”
Amneris diceva di capire anche i discorsi delle scimmie. Mi spiegava che le scimmie volevano giocare con me e per questo desideravano che salissi sugli alberi. E io senza esitare mi arrampicavo su palme e sicomori, da bambino ero assai agile, solo che a un certo punto dovevo per forza fermarmi, e allora quelle se ne scappavano in cima ai rami più alti, e da lassù, altalenando e capriolando, ridevano e mi guardavano come prendendomi in giro. Ma Amneris mi raccomandava di non incollerirmi e di non insultarle, perché le scimmie amano molto scherzare, ma non sono cattive. “E comunque – aggiungeva - non è il caso di farsi nemico il loro dio perché, che ne sai?, proprio scimmia potrebbe capitarti di rinascere in una vita futura.”
In giardino passavamo il giorno intero, ma le ore più belle erano quelle del pomeriggio, quando schiavi e liberti riposavano e all’intorno non si udiva che il canto delle cicale. Allora Amneris coglieva un fascio di fiordalisi azzurri, ce n’erano aiuole intere, e con essi intrecciava due serti, graziosissimi, con cui cingeva la mia testa e la sua. Dopo di che c’inoltravamo in fondo alla tenuta dove, contornata da una rete di ferro, c’era la gabbia delle pantere nere. Perché, mi aveva detto Amneris, le pantere dopo il pasto son quasi inoffensive e, soprattutto, vedendoci col capo inghirlandato, ci avrebbero preso per dei e non si sarebbero azzardate a farci male. Perciò entravamo, Amneris aveva le chiavi in quanto suo padre era primo dispensiere, e io col cuore che mi batteva fissavo le pantere nei loro occhi abbaglianti e le carezzavo sul dorso.
“Però, mi raccomando- diceva Amneris- ricordati: che veniamo qui non bisogna dirlo a nessuno, perché, se mio padre lo sapesse, immediatamente mi toglierebbe le chiavi.”
Io ero lusingato di condividere un segreto con lei. In effetti Amneris è stata la prima creatura per cui ho provato amore. Certo, volevo un gran bene pure alla mia nutrice, ma si trattava di una cosa diversa. Da Amneris ero come ammaliato. E la sera, quando danzava e suonava il sistro in onore di Hathor, guardando le sue caviglie sottili e i suoi scuri capelli ondeggianti, mi accadeva di pensare che era bella quanto Afrodite.
Fu perciò che, quando tornammo a Roma e dovetti dirle addio per sempre, mi colse un’immensa malinconia e poco mancò che mi ammalassi. Tanto più che la nostra casa vicino ai Fori, - il nuovo Cesare nella sua magnanimità aveva voluto restituircela - pur essendo molto fastosa, dispone di un giardino che è piuttosto angusto e povero di profumi e suggestioni. Insomma a Roma ero sempre triste. Avevo perso l’appetito, rifuggivo dalla compagnia degli altri ragazzi e passavo ore e ore solo nel mio cubicolo a giocherellare con gli scarabei d’avorio che Amneris mi aveva regalato. Fu allora che il precettore e la nutrice proposero al tutore di prendermi un concubino. Il tutore acconsentì.
“ Già. In fondo Claudiolo ha quasi quindici anni. E’ giusto che non dorma più solo”.
Non passarono che pochi giorni e Ligdo entrò nella mia vita.
Mi sono accinto a scrivere queste note nella speranza che dialogare con me stesso mi aiuti a recuperar la serenità, a vivere ogni giornata come un dono del cielo, e insomma a risentirmi in sintonia col creato. Come accadeva in Egitto. O, almeno, come nel ricordo mi sembra accadesse. Per questo ho voluto rievocarla quell’epoca incantata, un’epoca in cui avevo l’impressione di trovarmi in comunicazione con tutte le creature, coi fiori, con gli animali, col grande fiume, e col sole, la luna, le stelle. Certo, in parte dipendeva dal mio essere ancora bambino, ma anche, credo, dall’atmosfera che si respirava laggiù, dove era come se gli umani non avessero smarrito il gusto di godere della vita. Un tempo era a questo modo anche a Roma. Ora non più. Ora, per quanto uno ogni giorno si rechi alle terme, e assista ai giochi, e frequenti i teatri, e con gli amici vada in barca, e canti, e danzi, e in villa se ne stia a banchettare e a libare sotto la pergola, il turbamento non cessa di assalirlo. Già. Il turbamento. A malincuore devo confessarlo: benché mi ritenga, e da tutti sia ritenuto, uomo razionale e concreto, sempre più spesso anche a me accade di sentirmi spaurito. Perfino mentre faccio l’amore con Porzia o con Ligdo, sì, perfino allora. Solo la lettura dei miei amati poeti riesce a sgomberarmi il cuore dall’ansia. Soprattutto la lettura di Omero. Sono così limpidi i versi di Omero e in essi, anche quando descrivono la morte, è implicita una tale forza tranquilla che, a leggerli o recitarli, mi riaffiora dentro una corroborante fiducia nella positività del reale. E mi sembra di respirare più liberamente e che i colori del mondo si ravvivino e che, senza indietreggiare, sarei in grado di far fronte a ogni avversario.
Ma stavo parlando delle angosce da cui al giorno d’oggi siamo travagliati quasi tutti. Ecco: è innegabile come in larga parte esse dipendano dal fatto che rispetto ai secoli trascorsi il mondo si è fatto assai meno sicuro. E non mi riferisco solo ai barbari che premono ai confini, o alle bande di criminali ed esaltati che, affilando le loro lame, ci attendono nel buio degli angiporti per atterrirci e seviziarci, o alle calunnie dei delatori in virtù delle quali ognuno di noi, benché del tutto innocente, può essere costretto a tagliarsi le vene per sfuggire all’ira di Cesare, com’è toccato ai miei stimati genitori. No, non solo di questo si tratta. E’ la natura che sembra adirata con noi viventi, e nessun sacrificio vale a placarla. Il mese scorso in Asia Minore il suolo si è spaccato, oh, non una ma mille e mille crepe, e da ognuna di esse uscivano fiamme e fumi roventi che incenerivano uomini e animali, sicché in pochi attimi di loro non rimaneva che un viluppo d’ossa contorte. E il mare? Il mare è come impazzito. Con tempeste quali mai se ne sono verificate. In autunno in Britannia, mentre le nostre guarnigioni acquartierate sulla spiaggia celebravano i giochi in onore di Ares, d’improvviso il cielo si è scurito, le acque si son gonfiate e onde gigantesche, alte come case, si sono rovesciate su soldati e cavalli, travolgendoli insieme agli armamenti. Si sono contati morti a migliaia. E non basta: chi è sopravvissuto ha narrato di aver visto agitarsi nella schiuma ribollente serpenti marini e altri esseri mostruosi. E le pesti? Nel corso dell’anno non c’è giorno che il morbo non imperversi in una o più regioni dell’impero. Né l’Urbe si salva dal contagio. Che, endemico nei quartieri popolari, ogni qual volta torna a esplodere il caldo estivo, dilaga a mietere vittime in ogni zona, e non risparmia le abitazioni dei ricchi. E ancora l’incredibile proliferare degli insetti. Insetti di tutti i tipi: formiche che, quando colonizzano una casa, spesso costringono i proprietari a evacuare, perché gremiscono ogni ambiente, s’infilano in ogni interstizio dei muri e dei mobili, invadono le cucine, rendono inutilizzabile ogni provvista. E poi ragni, raccapriccianti ragni neri e irsuti, i cui filamenti sono pregni di tossico siero urticante, e mosche, zanzare, scarafaggi. Ma anche topi talmente aggressivi che nel triclinio si arrampicano sui letti a strappare il cibo di mano ai commensali, e vipere – si tratta di quelle cornute, le più velenose - che hanno invaso l’intera isola tiberina. E non basta: nella zona del lago Albano sono comparse delle lucertole gigantesche – alcune misurano quattro spanne – le quali, pur non essendo carnivore, spesso attaccano l’uomo, sicché, per difendersi, è necessario corredarsi di mazze e bastoni. Un fatto inspiegabile, che ha avuto la conseguenza di incoraggiare, moltiplicandole, le voci che annunziano la fine del mondo. Già, la fine del mondo. O almeno quella del nostro mondo. Il mondo di cui da tanti secoli Roma è signora. Finora, a predirla come certa e imminente, erano soltanto i cosiddetti cristiani, i seguaci di Cristo, il profeta ebraico crocifisso ai tempi di Tiberio, e chi li ascoltava li prendeva per pazzi. Adesso invece a esserne ossessionati sono moltissimi che alla loro setta non aderiscono affatto e, anzi, la detestano con tutto il cuore. E uno si chiede come sia possibile che gente apparentemente assennata presti fede a quella che fino a pochi anni fa appariva solo una favola partorita da menti esaltate. Ma il peggio è che (come in una sorta di meccanismo perverso che, una volta innescato, si rivela inarrestabile) da questo diffuso convincimento stanno germinando nuovi terrori, anche più traumatizzanti di quelli dovuti a cause concrete. Fra i quali, e in primo luogo, l’assillo dei demoni. Già, i demoni: questi onnipresenti mediatori tra cielo e terra. In cui ormai credono tutti. E di cui neanche io, sì, neanche io, mi azzardo a negare recisamente l’esistenza. E tuttavia trovo inaccettabile che sempre più persone si facciano condizionare fino alla paranoia dalla smania di ingraziarseli. Com’è successo anche a quel pazzo sconsiderato di Ligdo. Il quale per poco non ci ha rimesso la pelle. E’ andata così. Che dovevano essere le calende di febbraio e comunque pochi giorni dopo erano fissate le mie nozze con Porzia. Da non so quale oracolo – adesso negli oracoli ci si imbatte a ogni piè sospinto, dentro ogni grotta, accanto a ogni fonte, vicino a ogni fenditura del terreno c’è qualche impostore che dei demoni pretende di ascoltare la voce e saper decifrare la volontà – insomma da uno di questi presunti interpreti del mistero gli era stato detto che con un bagno nel fiume, da effettuarsi prima dell’alba all’ora in cui l’acqua è più fredda, avrebbe ottenuto l’effetto di mandare a monte la cerimonia e far rinviare le nozze a chi sa quando. Allora lui si è tuffato, e non si è contentato di una breve immersione, no, ha nuotato dal ponte Sublicio al ponte Emilio e dal ponte Emilio al ponte Sublicio, insomma andata e ritorno, ed era una di quelle giornate in cui anche i lupi preferiscono starsene al riparo nella tana. Ne è conseguito che io non mi son goduto affatto la mia festa di nozze. E come avrei potuto, sapendo che per la violenza della febbre Ligdo non riusciva a respirare, e affannava e boccheggiava, benché, per cercare di liberargli i polmoni, il mio medico Massimino, che avevo convocato d’urgenza, gli avesse ripetutamente spalmato il petto di unguenti balsamici? La febbre è rimasta alta per un’intera settimana. Poi, con mio gran sollievo, si è andata attenuando, e infine è passata. Lui però non si è più ripreso. Ma per forza, giacché la gelosia non gli dà pace. E la conclusione di tutto questo è che a me ora accade di sentirmi tormentato non solo dalle ansie per la situazione collettiva, ma anche da un’ulteriore angoscia, tutta personale e privata. Perché proprio io, io che ho sempre ambito a essere un giusto, io che con incessante attenzione mi sono impegnato nel non provocare dolore a nessun essere umano – anche alle esigenze degli schiavi ho cercato di venire incontro, partendo dal presupposto che non è merito mio l’esser nato libero e patrizio – ebbene, proprio io adesso mi ritrovo costretto a infliggere tanta sofferenza a una creatura per la quale nutro infinita tenerezza. Costretto. Sì. Praticamente costretto. Perché parenti, amici, conoscenti, insomma tutti intorno a me, per mesi e mesi non avevano fatto che insistere affinché mi decidessi a contrarre matrimonio con una fanciulla degna della mia stirpe, con la quale avrei provveduto a generare un erede. Assicurarmi una discendenza, ripetevano, era un dovere verso la memoria dei miei genitori, un dovere a cui non potevo sottrarmi. Così è stato che mi son lasciato persuadere. E, certo, prevedevo che delle mie nozze Ligdo avrebbe sofferto, ma pensavo che in tempi brevi avrebbe superato il trauma e scoperto anche lui il piacere di giacere con una donna. Invece no. Ligdo è inconsolabile. E davanti alla sua disperazione io mi sento confuso e impotente. E non riesco a gioire per il figlio che sta per nascermi.
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