Un tesoro di contadina

Alfonso Francia

Un tesoro di contadina

Premiato con Targa alla XXXIV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2017

Descrizione

Nella tranquilla Trezzano (Cilento) del primo dopoguerra, una splendida contadina (la più bella del paese) sta per sposarsi con un ricco possidente. Tutto sembra andare per il verso giusto quando a causa di uno spiacevole contrattempo il matrimonio verrà rimandato di un mese. In quel mese accadrà di tutto ed il libro si trasforma da un romanzo in stile verghiano in una commedia all'italiana...

L'autore

Un tesoro di contadina

Leggi il primo capitolo

UN MATRIMONIO CHE S’AVEVA DA FARE.


• Vitalia statti attenta, questo è l’ultimo controllo: venti lenzuola, dieci di sopra e dieci di sotto
• Eccoli papà
• Venti asciugamani
• Ci sono
• Venti fazzoletti da uomo
• Non li vedo… No un momento, stanno qua sotto
• Cinquanta chili di lana
• Mamma li ha messi nella stalla
• Come nella stalla? E se la lana si bagna? E se le bestie ci dormono sopra?
• Ma no che non ci capita niente Gaspare. L’ho infilata sotto il telo in cima alla scala, appena fa giorno la vado a prendere
• E invece mi preoccupo eccome! E se il ciuccio sale per la scala e me la mangia? Poi finisce che lo accoppo e oltre che senza lana Vitalia mi va in chiesa a piedi invece che in groppa! Ho fatto sposare cinque figlie senza la minima mancanza e vedi se per colpa tua devo fare brutte figure proprio ora!
Era evidente che il cinquantaseienne Gaspare Caccavella, reduce della Prima Guerra Mondiale, croce al merito e cavaliere di Vittorio Veneto, ci teneva a togliersi di torno dignitosamente pure la figlia più piccola. Aveva già portato all’altare Vincenza, Carmela, Rosaria, Assunta e Angela Maria, e quel 9 maggio 1940 stava per mettere fine alle sue fatiche maritando Vitalia, che avrebbe dovuto essere la meno amata della famiglia. Era l’ultima femmina, quindi già sgradita di suo, e per di più guastata da un difetto fisico imperdonabile: anche se i genitori le avevano tolto il pane di bocca per irrobustire del fratellino Aniello, più piccolo di un anno, lei era cresciuta fino a raggiungere la sconveniente statura di 168 centimetri. In paese, Trezzano di sotto (quello di sopra era stato abbandonato dopo il terremoto del 1638), risultava la più alta non solo tra le donne ma anche tra gli uomini. Era inoltre una delle più belle: all’età di ventun anni ne dimostrava ancora ventuno – neanche fosse una signorina di città - e non cinquanta come le sue coetanee in paese. E però pur nell’imbarazzo di aver prodotto qualcosa di così notevole il padre e pure la madre alla fine avevano preso a essere orgogliosi di una figlia tanto piacente.
• Vieni qui, fatti sistemare i capelli che mi pari una pazza. Ah che bella che sei con la treccia, domani sembrerai una regina!
• Eehh sì regina, ve lo ricordate mo che me ne vado. Mammà ma che fate, piangete? No che poi comincio pure io!
Ma la mamma mica piangeva perché la figlia era bella, piangeva perché stava per diventare la donna più invidiata del paese. Il suo matrimonio con Raffaele Mezzomo era un evento che i trezzanesi aspettavano più di una festa comandata, soprattutto per malignarci sopra. Non tanto perché Reluccio, come rivelava involontariamente il cognome, fosse cresciuto pochino, undici centimetri meno della sposa, ma perché la sua era la famiglia più ricca della piana. Abitavano a Trezzano nuova, un’estensione del paese voluta dal vecchio podestà per convincere qualche contadino a coltivare nella pianura paludosa che si estendeva verso il mare. Di quindici famiglie che vi provarono, solo i Mezzomo non ebbero i maschi falcidiati dalla malaria. Riuscirono così ad accaparrarsi i terreni lasciati liberi dai meno fortunati compagni di lavoro e divennero dei ricconi. Si raccontava che alla loro tavola venisse servita carne tutti i giorni compresi i venerdì, selvaggina il sabato e sugo di castrato per condire i fusilli tirati a mano la domenica. Insomma Vitalia aveva fatto cinquina: si era trovata un marito facoltoso che però avrebbe potuto guardarla dall’alto in basso giusto salendo su una sedia. I paesani non vedevano l’ora di scrutarli e giudicarli una volta arrivati all’altare: per lui si sarebbe costruita una pedana? Avrebbero messo un inginocchiatoio più alto?
Era comunque ovvio che la futura sposa tenesse a che tutto fosse perfetto per il giorno del suo sì, soprattutto per quel che riguardava il corredo. Anche se i Mezzomo mai avrebbero utilizzato i quattro stracci che la famiglia Caccavella si apprestava a portare in dote alla figlia, era importantissimo fare ogni sforzo affinché l’insieme risultasse dignitoso. La sventurata che si fosse presentata con un lenzuolo tarmato o un paio di mutande in meno rispetto alla regola si sarebbe meritata il disprezzo di suocera e cognate finché morte non le avesse separate. Dopo l’ennesimo controllo, rassicuratasi sulla sorte della lana, la novella Cenerentola si accasciò su una sedia accanto alla nonna paterna Onorata e si calmò un poco.
• Maronna forse ci siamo riusciti. Domani facciamo st’altra fatica e non ci pensiamo più. Papà l’avete dati a don Catarino i fiori per la chiesa? E l’offerta per il Santissimo nome di Maria?
• Si che gliel’aggio dati, con i santissimi soldi che mi so’ guadagnato in nove mesi schiattandomi la schiena da zi’ Mario, puozzi jettà ‘o sango tu e chillo strunz ‘e don Catarino
• Papà!
• E già, tu sei la cocca del prete tu. Ma che ne sai tu di quanto mi ha fatto soffrire a me, che ne sai! A me quello ha fottuto l’unico figlio maschio che tenevo, gli ha riempito la capa di santi trinità e paternostri e quello mo se ne è andato a fare il dottore della Chiesa a Padula. Gli piace andare in giro in sottana mo
Il signor Gaspare, in effetti, aveva concreti motivi di rancore nei confronti del parroco: l’adorato Aniello, il tanto atteso maschietto, era scappato da casa all’età di quattordici anni per entrare in seminario. Per il padre il dolore era stato atroce: aveva faticato un decennio per farsi venire un figlio che portasse il nome di famiglia, desse seguito alla stirpe e soprattutto si prendesse cura dei genitori quando questi fossero stati vecchi e inabili. Gli erano rimaste solo femmine, che man mano che si sposavano se ne andavano di casa, e ora che toccava a Vitalia Gaspare sarebbe rimasto solo con la moglie a sputare sangue e sudore pure da settuagenario invece di essere servito e riverito dal figlio maggiore come sarebbe stato giusto. E pensare che aveva fatto tanti sacrifici per far arrivare quell’Aniello! Venendogli una prole tutta del sesso debole, nella disperazione, si era persino risolto a tentare un metodo casalingo in voga nell’antichità e consigliatogli da Dante, professore di scuola ed erudito ufficiale del paese: ovvero la legatura del testicolo destro con un cordino perché si riteneva fosse da quello sinistro che usciva il seme che faceva figli maschi. Sarà stato un caso ma il sistema aveva funzionato. O meglio aveva funzionato in parte, perché pur essendo nato maschio Aniello aveva preso pochi attributi virili. Non gli piaceva parlare volgare, correre e saltare, lanciare sassi e fare a botte. Se ne stava sempre quieto quieto in un angolo a fantasticare e, pur non essendo uno che si lamentava, si vedeva che pativa tantissimo il faticare con la zappa, messagli in mano appena aveva imparato a camminare decentemente. Pareva contento solo quando armeggiava tra altari e sacrestie servendo la messa per don Catarino. Era quindi se non giustificabile almeno comprensibile l’odio anticlericale di Gaspare, di fronte al quale persino la signora Giuseppina, solitamente arrendevole con il marito perché colpevole di averlo tradito scodellandogli sei femmine e un pretino, si sentì in dovere di intervenire.
• Gaspare, ti prego, statti citto. Almeno stasera, che domani devi fare la comunione
• E che mi dovrebbe rappresentare il corpo di nostro Signore quello schifo di ostia che si appiccica sulla lingua e non ti scende manco col vino? Ma non si poteva continuare a usare un po’ di pane come ai tempi miei? E che ha paura di andare fallito sto prete a comprare una pagnotta?
• Papà, state calmo per favore. Vogliamo rilassarci a fare un’altra volta la conta delle cose del corredo?
A sentire per l’ennesima volta la parola “corredo” nonna Onorata, che fino a quel momento era stata buona e zitta a guardare le ombre degli alberi fuori dalla porta come se fossero parenti in visita, si riebbe all’improvviso, sorridendo perché finalmente le era venuto in mente quel che voleva dire da almeno mezz’ora ma non riusciva proprio a ricordare.
• A proposito, mi stavo chiedendo…
• E no per pietà mamma non ti ci mettere anche tu, abbiamo contato tutto trenta volte, c’è tutto!
• Tutto tutto?
• Appunto, dicevo ma non è che per caso…
• Mamma per favore. C’è tutto tutto. E mo vatte corica che domani la giornata è lunga, è un ordine!
Gaspare cercava disperatamente di troncare i discorsi con la madre con direttive militaresche: da giovane, prima di sposarsi, era stato carabiniere del Re. Anzi, avesse saputo che si sarebbe ritrovato la casa piena di donne forse carabiniere – e scapolo – sarebbe rimasto a vita. Ma era dura farsi obbedire dalla madre. Coi suoi 78 anni aveva perso magari in lucidità, ma la capa tosta le era rimasta. E pure se i figli avevano passato i quaranta lei ogni tanto se ne dimenticava e li interpellava come fossero stati ragazzini. Gaspare era costretto ad ascoltarla perché sapeva che quella vecchia cocciuta gli aveva salvato la vita, a lui e a suo fratello Carmine, quando il padre era morto di malaria in un precedente e fallito tentativo di bonificare la piana. Senza neanche provare a risposarsi si era adattata a fare tutti i lavori di questo mondo, faticando nei campi di giorno e filando la notte. Quindi se ora era consumata come una noce secca e col cervello che andava e veniva era stato per dare da mangiare a lui, che pure se esasperato cercava di sopportare le omelie materne. Così se la teneva pazientemente in cucina tutto il giorno, nonostante lei una casa a neanche duecento metri da quella del figlio ce l’avesse. Ma ci andava giusto per dormire.
• Maronna mia ma mi volete ascoltare un attimo pure a me? Scusa cara, ma mi è venuto in mente che mentre ripetevi la lista non mi è sembrato di sentire una cosa…
• Che cosa nonna, ditemi
• Mi pare insomma… ma l’uncinetto per lavorare a maglia l’hai preso? Sennò che ci fai con tutta quella lana?
• Oddio che serviva pure l’uncinetto? Gesù Gesù, non ce l’ho l’uncinetto!
• Ma no tesoro. L’uncinetto non è previsto nella dote, stai tranquilla. Mamma che pensieri mettete in testa alla criatura?
• Eppure ai tempi miei si metteva sempre, e lo sapete che il corredo deve essere completo per essere gradito
• Oddio ecco lo sapevo
• Ma su ma su, che sarà mai. Ho il mio di là, ti do quello
• No no, deve essere nuovo, nel corredo si mettono solo cose nuove. Mettere roba vecchia è cattiva sorte
• E smettetela di fare tanti problemi per nulla! Andrò a bussare all’emporio da Carmelo, quello sta in bottega fino a tardi! Peppina, prendimi la mantella che esco!
• Gaspare aspetta, Carmelo non è in paese, è andato a Perdifumo a trovare il nipote
• Oddio sono rovinata, adesso la mamma di Reluccio mi odierà, mi schiferà, mi darà della stracciona e mi dirà che sono indegna del figlio, mi…
• E statti quieta un attimo! Voi donne state sempre pronte a fare le sceneggiate per poco! Possibile che non si possa trovare un uncinetto nuovo da qualche parte?
• In effetti un posto ci sarebbe…
• Ecco vedi? Su Peppì, dimmi dove devo andare che prima esco prima torno
• Ecco, sicuro qualche uncinetto nuovo ce l’ha la zia Anita, le sono rimasti da quando faceva i centrini a cottimo…
A sentire questo nome Gaspare, che stava già sulla soglia col cappello in mano, abbassò la testa, bestemmiò a mezza voce perché solo il Padreterno lo sentisse e tornò a sedersi. Anita, l’odiata bigotta zia di Giuseppina, aveva riempito la testa del piccolo Aniello con storie raccapriccianti sulle vite dei santi e lo aveva convinto a fare il chierichetto che quello aveva appena sette anni. Quando parlò la sua voce era così cupa che la moglie non resistette alla tentazione di farsi il segno della croce.
• Vità, vattenne da tua zia e fatti dare quel cazzo di uncinetto
• Ma papà è notte, se mi vede qualcuno in strada da sola la sera prima del matrimonio, che diranno in giro? Perché proprio io?
• Te lo devo dire io perché? Perché tua nonna è vecchia, tua madre senza di me non esce e io m’aggio rotte ‘e ppalle appresso a te. Vai e sbrigati!
Con certi ordini non c’era da disputare, e stavolta Vitalia ubbidì senza far troppe storie. In fondo era l’ultima sera che il padre la comandava. Il giorno dopo avrebbe cambiato padrone, e quello nuovo si annunciava molto più malleabile del primo. Si buttò uno scialle pesante sulle spalle, diede un bacio veloce alla mano della nonna e uscì nella campagna, rassegnata a fare al buio, da sola, il chilometro e mezzo di salite e discese che separava la casa dal paese. Il cielo era coperto, e senza luna non era facile indovinare le curve del viottolo, ma Vitalia andava a memoria, ricordava pure l’esatta posizione dei sassi sporgenti. Oltrepassò il torrente già mezzo secco senza bagnarsi le scarpe, tagliò per la vigna di Ciccio Piscitiello nonostante si dicesse che il proprietario avesse minato il terreno con le tagliole, e sbucò sulla carrozzabile dietro il cimitero, sotto casa dello zio Carmine.
Si fermò un attimo a riprendere fiato, accovacciandosi con la testa fra le ginocchia. Rialzò la testa e quasi si spaventò vedendo uno spettacolo che le si era presentato davanti agli occhi centinaia di volte ma mai con quel preciso aspetto: la cresta del monte Giapeto sopra Trezzano, puntellato di massi come se fosse la merlatura di un castello, pareva ora a Vitalia la dentatura spaziata e guasta di sua zia. In altre occasioni sarebbe rimasta a fantasticare su questa somiglianza, ma quella sera l’ansia sembrava comandare i suoi piedi, che quasi controvoglia la fecero scattare di nuovo in avanti. Arrivò alle prime case di Trezzano alle nove e trenta. A parte Eligio - uno dei tre avvinazzati celebri del paese - che russava sdraiato a terra con la testa sulla soglia di casa sua come cuscino, nessuno in vista.
L’abitazione di Anita era una delle prime, in una stradina in salita appena prima di prendere la piazza della chiesa, e lei quasi ci andò a sbattere correndoci incontro. Bussò alla porta d’ingresso prima piano, poi medio, poi forte, ma niente. «E mo che faccio?» si domandò in un rigurgito d’ansia. Già si vedeva costretta a fare la schiavetta per le sorelle dello sposo, derisa dai compaesani e motivo di vergogna per la sua famiglia. E tutto per un pezzo di ferro. Era tanto concentrata a immaginarsi nei particolari le pene cui era destinata che non si accorse della ragazzina che le si era avvicinata.
• Vitalia! Che ‘nge fai ‘cca?
• Ahh! Oddio Natalina sei tu, che spavento mi hai fatto prendere! Che combini in giro a quest’ora?
• Mamma mi ha mandato a svegliare zio Eligio. Se dorme tutta la notte all’aperto la mattina dopo sta con tutte le ossa bloccate e bisogna prenderlo a mattarellate per farlo stare in piedi di nuovo
• Eeh, altro che mattarello gli darei io a quello lì… Senti, è mezz’ora che busso alla porta di zia Anita ma lei non risponde, sai mica che è successo?
• Ma come non lo sai? Il giovedì sale alla chiesa di Vendinara e ci sta tutta la notte per l’adorazione del Sacro Cuore di Gesù
• Oddio e adesso? Dove lo vado a prendere questo uncinetto? Maria gloriosa del cielo aiutami tu!
• Ma perché che succede? Che ci devi fare coll’uncinetto? Non hai ancora finito il vestito?
• Ma che vestito e vestito, mi serve l’uncinetto per completare il corredo! Nonna dice che è indispensabile!
• Ma vallo a prendere da donna Rosaria scusa, lei fa la sarta! Figurati se non ha dei ferri da venderti!
• Sì certo, quella mi odia perché mi sono andata a comprare il vestito da sposa a Stizzi invece di farmelo confezionare da lei. Ora va a dire in giro che sono una zotica che si dà arie da signora. Mi chiama Nostra Signora Mezzomo mi chiama, me l’hanno raccontato Luigina e Mariele! Però aspetta, potremmo inventarci una scusa e potresti comprarlo tu per me
• Per me va bene, li hai i soldi?
• Uff… no, mi viene da piangere mi viene…
• Vabbè dai, aspetta. Puoi provare a entrare di nascosto dalla finestra, lo sai che lei si mette a chiacchierare con le amiche di fronte all’ingresso della bottega e lascia tutto aperto fino a sera tardi, forse facciamo ancora in tempo!
• E brava fessa, e se poi per qualche motivo vuole rientrare?
• Ci penso io, la vado a salutare e la tengo impegnata a parlare mentre tu stai dentro e prendi l’uncinetto, che ne dici?
• Dico che se non c’è altra soluzione per non farmi ridere dietro dalle sorelle di Reluccio, stanotte farò pure la ladra… Vergine santa perdonami!
• E su allora, facciamo presto!
• Aspetta, non dovevi svegliare Eligio prima?
• Lasciamo perdere, tanto domani in chiesa don Catarino non lo lascia entrare, domenica scorsa a messa si è svegliato all’improvviso durante la predica e si è messo a urlare cose senza senso, che dovrebbero mandare tutti i preti a lavorare come in Russia, io non ci ho capito niente. E poi ce lo vedi don Catarino in Russia, che quello non gli bastano due cappotti d’inverno quanto è freddoloso! Mo sbrighiamoci!
Natalina prese per mano la futura peccatrice e la strattonò verso il centro del paese, dove donna Rosaria teneva bottega. A Natalina non pareva vero di poter aiutare l’amica a sposarsi. Ma che amica, Vitalia per lei era una sorella maggiore, un angelo custode, una santa del calendario! Era stata lei a spiegarle come guardare i ragazzi per farsi comprare i dolci con il miele il giorno della festa dell’Assunta, lei a mostrarle come tingersi le labbra con il succo dei mirtilli (e poi a consolarla quando il padre di Natalina, vedendola tornare a casa con la bocca rossa da battona l’aveva caricata di mazzate), sempre lei a insegnarle a costruire trappole per uccelli, che venivano poi fatti allo spiedo come minuscoli polli. Essendo ancora piccola per essere adocchiata da qualche ragazzo, Natalina godeva di una certa libertà di movimento e poteva spesso andare a trovare Vitalia, che aveva preso gusto a fare da maestra di vita all’amichetta, nonostante non fossero manco cugine di terzo grado.
Pure Gaspare aveva in simpatia questa ragazzetta che pesava più di ossa che carne, e si era abituato a vedersela intorno. Tanto, in una casa di sole donne, una in più o in meno ormai non faceva differenza. Quasi lo commuoveva che lei per discrezione cercasse sempre di defilarsi all’ora del pasto perché non si pensasse che volesse approfittare della loro tavola. Ogni volta bisognava insistere per farla restare, lei che aveva una famiglia che al confronto i Caccavella parevano dei baroni e che se si trovava un po’ di minestra piena d’acqua la sera era fortunata! E pure quando si metteva a sedere con loro bisognava lottare per farle riempire il piatto. «Mangia che se jetta!» le mentiva ogni volta Gaspare per convincerla.
D’altra parte a Trezzano si era un po’ tutti parenti, e non si faceva troppa discriminazione tra figli, nipoti e commarelle. Le famiglie delle due, a parte qualche recriminazione occasionale dovuta a un regalo non degnamente ricambiato anni prima, non andavano troppo in disaccordo. Natalina era così stata designata damigella per il matrimonio del giorno seguente, e già questo poteva considerarsi un gran privilegio. Ma ora, con questo contrattempo da risolvere, lei sarebbe diventata la salvatrice di Vitalia, la quale si sarebbe per sempre ricordata di lei per via di quell’uncinetto, e le sarebbe stata grata in eterno! Già si immaginava invitata tutte le domeniche a prendere il caffè in casa di Reluccio - quello vero, non il surrogato che le facevano preparare la mattina per i fratelli – e di certo Vitalia non l’avrebbe fatta andar via senza un regalino, magari un pezzo di quella favolosa pastiera che i Mezzomo si strafogavano sempre da soli. Si raccontava che arrivasse ogni settimana dalla pasticceria di Stizzi Scalo, quella frequentata pure da certi signori di Napoli che per comprare lì scendevano apposta col treno. Le fantasticherie dovettero essere interrotte perché ormai si era a due passi dalla casa di Rosaria. La donna in effetti se ne stava accasciata su una sediola di vimini portata sulla soglia, e chiacchierava con tre amiche, tutte sedute a guardia del proprio uscio. La finestra della bottega era dietro di loro, in ombra: non ci sarebbe voluto molto a saltarci dentro e frugare in giro.
• Va bene Natalì, ora vai a salutare e mettiti a chiacchierare, io nel frattempo cerco l’uncinetto e quando sono uscita lancio un sasso contro il muro. È il segnale che puoi andar via, poi ci vediamo di fronte alla chiesa
La ragazzina obbedì diligente come un cagnolino, si avvicinò alle vecchie e non appena Vitalia sentì che quelle la salutavano si issò sulla finestra ed entrò. In bottega regnava un caos che neanche in casa del diavolo. Ovunque per terra c’erano pezzi di stoffa e grovigli di tessuti: una decina di vestiti lavorati a metà erano stesi su una grossa panca, mentre la macchina da cucire occupava il centro della stanza e nella penombra poco ci mancò che Vitalia non ci cadesse sopra rovinando tutto. Aprì i cassetti della credenza mentre da fuori sentiva arrivare parole poco piacevoli «eccola qui la damigella della gran signora… ma a te non ha fatto confezionare il vestito in città… quella pezzente… certo, erano i più poveri… me lo ricordo io, quando il padre veniva a chiedere un pezzo di pane a… mio nonno diceva che… morti di fame». Vitalia con le mani cercava, con le orecchie ascoltava, e con la bocca sibilava insulti che avrebbero fatto impallidire pure Berta, la puttana dalla quale i ragazzi meno poveri andavano a investire i loro soldi. Comunque questi ferri non si trovavano, e non era detto che Natalina sarebbe riuscita a trattenere a lungo l’arpia fuori. Si ritrovò tra le mani un paio di forbici, e già che c’era, giusto per non rendere del tutto inutile l’incursione, tagliuzzò l’orlo di un paio di vestiti che stavano buttati in un angolo.
• E mo risistemali, cafona!
Uscì giusto a tempo, perché Rosaria volle rientrare a prendersi un bicchiere d’acqua, sotto gli occhi terrorizzati di Natalina. Ma appena sentì il rumore del sasso lanciato contro la parete si riebbe, salutò al volo le comari e corse verso la chiesa a incontrare la sua eroina.
Il piazzale della parrocchia era poveramente illuminato da un grosso lampione, e Natalina restò male nel vedere che non c’era un’anima viva in giro.
• Ma come, se n’è andata senza neanche salutarmi?
• Sshh, sono qui, vieni sbrigati!
Vitalia se ne stava nascosta sotto la finestra della canonica, l’unico punto al riparo dalla luce. Si guardava intorno terrorizzata, come se avesse visto una processione di fantasmi.
• Allora, ce l’hai, l’hai preso?
• Macché, e ho pure commesso peccato d’ira! Ho rovinato i vestiti di Rosaria e domani devo andare all’altare! Povera me, che starà pensando la Madonna!
• E ora che facciamo?
• Non lo so, non lo so, voglio solo andarmene a letto e piangere e pregare che il sole non sorga più.
• Però aspetta, pensiamo un attimo; quale casa è ancora aperta a quest’ora della notte? Chi può essere ancora sveglio adesso?
• Natalì non ti mettere a fare i misteri con me eh? Se hai in mente qualcosa sputa il rospo, altrimenti muta!
• Ma la casa dei tuoi suoceri no? Staranno preparando il banchetto nuziale, ci saranno sicuramente un sacco di parenti che danno una mano e sono certa che parecchi saranno pure già ubriachi!
• E con questo? Se non ho trovato un uncinetto nuovo in casa della sarta vuoi che lo trovi dai miei suoceri?
• Lo troverai eccome! Quelli sono ricchi, una delle figlie si è fatta fare una stanza per il cucito dove tiene di tutto! Lo so perché l’ho vista, mia mamma qualche volta fa i servizi a casa loro, e io sono andata con lei
• E come ci entriamo? Credo che in quanto futura sposa neanche il tempo di avvicinarmi e mi riconoscerebbero…
• A come entrare te lo spiego io, ma ti toccherà andare da sola! È tardissimo e domattina quando dovrò alzarmi per farti da damigella non voglio ritrovarmi dolorante per le botte di papà!
La dimora dei Mezzomo non era vicinissima. Come accennato, sorgeva a Trezzano nuova, a valle, proprio ai piedi del monte Giapeto. Nata come podere di poche pretese, era divenuta con gli anni un vero incubo architettonico. Il capofamiglia Arrigo Mezzomo aveva voluto creare una casa dove tutti i suoi cinque figli potessero vivere con le rispettive famiglie, ma non se l’era sentita di abbattere l’edificio originario. L’aveva così man mano ampliato. Le stanze destinate al primogenito Bortolo erano state ricavate dal vecchio porcile, mentre gli appartamentini per le tre figlie femmine avevano preso il posto del fienile. La zona della casa nella quale Reluccio sarebbe andato ad abitare con Vitalia era invece stata eretta sopra la rimessa degli attrezzi da lavoro. Questa accozzaglia architettonica, pur nella sua palese bruttezza, attraeva sguardi invidiosi da parte di tutti i braccianti del circondario, ed era fonte di storie incredibili. Si raccontava che fra le tante stanze disponibili il signor Arrigo ne avesse fatta allestire una appositamente per la sua pennichella, mentre la moglie avesse preteso una cappelletta privata per pregare con l’agio di un inginocchiatoio personale i suoi santi prediletti. Vitalia queste storie le conosceva bene, e ancora non si capacitava della fortuna che le era capitata nel poter entrare da padrona in quella reggia. Ma per essere ben accolta le serviva un corredo completo, compreso quell’odioso, insignificante uncinetto. Quindi sarebbe penetrata da clandestina quella notte per tornarvi il giorno dopo da gran signora. Le toccò farsi due chilometri di corsa al margine della strada, correndo a piedi nudi con le scarpe in mano per far prima, col cuore che quasi impazziva tra lo sforzo fisico e la paura di fallire pure questo estremo tentativo.
Quando raggiunse la tenuta aveva pure un po’ di lacrime agli occhi, non sapeva se per la polvere alzata correndo o per chissà cosa. Si riebbe un po’ notando come lo spettacolo che le si parava dinanzi corrispondeva perfettamente alle aspettative di Natalina. Nel piazzale di fronte all’ingresso donne di tutte le età si affaccendavano decorando e posizionando sedie di ogni genere e dimensione, mentre buona parte degli uomini stavano riversi qua e là dormendo se non tra le braccia di Morfeo certo tra quelle di Bacco. Vitalia ripassò mentalmente quello che Natalina le aveva detto: «La parte della casa dove andrete a vivere tu e Reluccio sarà sicuramente deserta. Devi arrivare alla rimessa degli attrezzi, lì c’è una scala che porta al vostro appartamento, e dalla vostra camera da letto c’è un corridoio, la prima porta a destra è la stanza del cucito». Proprio intelligente magari no, ma svelta quella ragazzina era di sicuro!
Con un largo giro per i campi Vitalia raggiunse la rimessa degli attrezzi, proprio dietro l’entrata principale. Mentre correva tenendo la testa bassa quasi ebbe un mancamento a pensare che si stava introducendo di nascosto nella sua futura casa, a meno di dodici ore dal matrimonio, e tutto per uno stupidissimo pezzetto di ferro! Ce n’era abbastanza per farsi ripudiare. Nel caso le sarebbe convenuto cercare di farsi suora, magari il fratello avrebbe potuto darle una mano… Salì meccanicamente le scale su fino all’appartamento, e stava ancora immaginandosi col velo monacale quando si rese conto che si trovava nella camera dove l’indomani avrebbe perso la verginità.
Verrebbe da dire che ebbe un tuffo al cuore, che si emozionò, che arrossì tutta, ma in realtà quasi rimase delusa. Anche nella penombra riuscì a individuare tutto quel che non andava: la testiera del letto non era in legno di noce, come aveva sperato, e i comodini avevano un solo cassetto. E l’armadio? Appena quattro ante! E lo specchio sulla cassettiera? A misura del marito! Lei avrebbe dovuto chinarsi per guardarsi la faccia la mattina… Che pezzenti!
Se ne uscì sdegnata, tanto stizzita che quasi quasi non le importava più di essere scoperta. Infilò come una furia la porta della camera del cucito, desiderosa di finirla al più presto con questa storia. Era immersa nel buio e non poteva accendere neanche un fiammifero, ma ormai si era abituata a brancolare nell’oscurità; prese a rovistare fra i cassetti di un comò e non le ci volle molto per individuare, protetti da involucri di lana cotta, parecchi esemplari di quell’uncinetto che tanto l’aveva fatta penare. Sarebbe bastato togliere l’astuccio di lana, troppo riconoscibile, e infilare la sua preda nella cassa del corredo. Affari simili se ne vendevano ovunque, e la sorella di Reluccio non si sarebbe neanche accorta della sparizione. Compiuta la missione Vitalia volò di nuovo nel suo futuro appartamento, scese la scala che portava alla rimessa e corse via per la campagna, risalendo poi il monte tenendosi sempre lontana dalla strada. Farsi trovare in giro a quell’ora – era passata l’una – l’avrebbe definitivamente compromessa. Anche per questo cercava di accelerare il passo, ma ormai quasi non si sentiva più i piedi, e ansimava come un’asmatica. Rallentò un attimo approfittandone per ammirare la vista del paese che le compariva davanti infilato in una fessura del monte Giapeto; da quando era arrivata l’illuminazione pubblica delle strade il colpo d’occhio era piuttosto fastoso.
• Mamma mia che bello, sembra il presepe che fa il professor Dante in chiesa!
Il pensiero della parrocchia e la vista del campanile che svettava ben eretto le provocò però un attimo di emozione: si ricordò dei peccati collezionati in quelle ore, e che sarebbe stato il caso di confessarsi prima della cerimonia. Ma proprio non era il caso di tornare a Trezzano e buttare giù dal letto il sacerdote. Ecco cosa avrebbe fatto; avrebbe chiesto perdono direttamente alla Madonna e si sarebbe confessata la settimana seguente. Don Catarino non avrebbe fatto troppi problemi: in fondo era la sola a sapere che lui aveva propiziato la fuga di suo fratello in seminario pagando il passaggio in corriera, e il parroco le era stato sempre grato di aver taciuto la cosa con suo padre. «E poi la Vergine mi ha protetta per tutta la notte, se non avesse approvato il mio comportamento certo mi avrebbe in qualche modo fermata». Era così impegnata a rincuorarsi con argomentazioni più o meno teologiche che per un attimo perse l’orientamento tra i saliscendi che portavano a casa sua, dall’altro lato del monte. Quasi le venne da ridere quando finalmente le apparve la sua casetta, sua per quella notte ancora. Cioè, le apparve è una parola grossa: diciamo che nell’oscurità della notte intravide una sagoma ancor più scura del cielo e capì che doveva essere arrivata.
Notò però un particolare che scacciò subito la serenità appena ritrovata: nonostante l’ora tarda, una luce filtrava dall’unica finestra. Che fossero rimasti in piedi ad aspettarla? Che fossero preoccupati del suo ritardo? Che fossero arrabbiati? Era pronta quasi a tutto, ma non a quel che vide.
Quando aprì la porta tutti si voltarono sgomenti, come se fossero sorpresi nel vederla arrivare. Eppure chi altri dovevano aspettare nel mezzo della notte? Nessuno di loro però restò sbigottito quanto Vitalia, che entrando aveva scorto, ritto come un soldatino ma seminascosto dietro il padre, il suo promesso sposo Reluccio. Più che soldatino sarebbe stato giusto parlare di un balilla, e di quelli paffuti. La Natura non aveva voluto completare la crescita del ragazzo in nessun senso: non solo aveva interrotto lo sviluppo dell’altezza, ma aveva pure impedito l’eliminazione dei tratti fanciulleschi in favore di quelli più spigolosi e netti dell’adulto. Reluccio sembrava un ragazzetto, e se ci si fosse fermati all’aspetto del viso avremmo detto che era anche di quelli carini: con le guance piene, senza un filo di barba, i capelli biondastri pettinati di lato troppo lunghi per mantenere la piega, così che il ciuffo se ne scendeva a mezza fronte dandogli un’aria furbetta che veniva cancellata solo quando apriva bocca, pareva quasi bello. Ma a vanificare e rendere patetica la sua figura stava il corpo di femmina che aveva avvitato sotto il collo: pure se quella sera era fasciato in un completo elegante la giacca non riusciva a eliminare la protuberanza delle mammelle che gli tiravano la camicia, e i pantaloni bastavano appena a contenere quei fianchi morbidi e donneschi che si raccordavano in un grosso sedere sul quale avreste potuto piazzare un intero servizio da tè. Una quarantenne madre di sei figli con la testa di un bambino, ecco quello che pareva Reluccio. Ma tutto questo Vitalia non lo vide; in quel viso familiare eppure così fuori posto nelle mura di casa sua riuscì a vedere solo l’ennesima complicazione che allungava ancora quella nottata che non voleva più passare. La situazione avrebbe consigliato un comportamento prudente e dimesso, ma Vitalia non poté fare a meno di puntare gli occhi al cielo ed emettere un esasperato
• E tu che ci fai qua?
• Nanè porta rispetto a tuo marito eh, Reluccio era venuto a dirti una cosa importante e quando ha saputo che eri andata ad assistere tua cugina Teresa che è malata ha insistito per aspettarti
Vitalia era stanca ma riuscì comunque ad aggrapparsi alla bugia che la madre le aveva prontamente spiattellato per giustificare la sua assenza, e raddrizzò alla meglio il tiro.
• Eeh sì, ma io dicevo per dire Relù, lo sai che non si dovrebbe vedere la sposa la sera prima delle nozze. Ma sono sempre contenta di vederti
• Cara sposa – esordì tutto rigido il giovane - non mi sarei mai permesso di contravvenire alla tradizione, ma purtroppo non potevo esimermi dal presentarmi nella vostra onorata dimora per darvi un annuncio forse spiacevole ma certo necessario in quanto…
Qui Reluccio si interruppe un attimo, ma non per aumentare la suspense; si era semplicemente dimenticato come proseguiva il discorso che si era preparato strada facendo. Aveva studiato fino a conseguire la licenza elementare – cosa rara davvero a quei tempi – e teneva a farlo notare. Gli venne in aiuto il signor Gaspare
• Prego, Raffaele carissimo, siamo tutt’orecchi. Qual è l’importante notizia?
• Sì ecco, dicevo insomma, che domani non ci si sposa
• Oddio!
• Come!?
• Ma che è?
• Che è capitato?
• Ci avete ripensato?
• Che dici per carità!
• No illustrissimi no, vi prego non vi allarmate. Dobbiamo solamente rimandare di qualche giorno. Vedete, purtroppo questa sera è accaduto un fatto increscioso. Un individuo non identificato si è introdotto nel nostro futuro alloggio, approfittando della confusione dovuta ai lavori per la preparazione del pranzo di domani. Per fortuna il ladro non è riuscito a individuare oggetti di valore ed è andato via a mani vuote. Nessuno ha sentito nulla, ma zio Gaetano lo ha visto uscire dalla rimessa e allontanarsi verso i campi. Pensate un po’, secondo lui si era vestito da donna per non dare nell’occhio! Questi mariuoli se le inventano proprio tutte!
• Capisco, un episodio spiacevole, ma tutto questo cosa c’entra con il matrimonio? Domani serrerete per bene le porte e nessun visitatore sgradito potrà entrare!
• Ah ma che dite? Non sapete che non si può dormire la prima notte di nozze in una casa profanata da sconosciuti? È cattiva sorte! Ma cara vi siete fatta tutta pallida, non disperate vi prego, non ho finito di spiegare
In effetti Vitalia sembrava smorta come un mucchietto di cenere, ma non perché si disperasse all’idea di non poter andare all’altare; stava immaginando la sorte che le sarebbe toccata se avessero scoperto la vera identità del ladro. Altro che suora si sarebbe dovuta fare! Era tanto sconvolta che quasi non riusciva a sentire Reluccio che continuava a parlarle.
• Occorre semplicemente disporre affinché tutte le stanze siano nuovamente benedette da don Catarino e attendere almeno trenta giorni per lo sposalizio! Fidatevi, me l’ha detto un fratello di mio cognato che fa il professore a Napoli
I familiari fissarono allora la sposa, che invece di rattristarsi per il rinvio era fuori di sé all’idea di averla fatta franca. Da grigio il suo viso si fece tutto rosso, spalancò gli occhi incredula e, in spregio alle rigidissime convenzioni, gettò le braccia al collo del futuro marito con tanta foga che quasi lo sollevò da terra. E fu allora, premendo il suo seno contro quello, quasi altrettanto pieno anche se certo non ugualmente bello del futuro sposo, che Vitalia si rese conto arrossendo che si era trovata un marito ma non era riuscita a trovarsi un uomo.
• Mia cara, vi prego, è improprio… Aspettate, mia madre vi manda un regalino che pensava di consegnarvi domani una volta accoltavi in casa. Ecco, tenete
Vitalia, ancora mezza scioccata, si vide depositare tra le mani una grossa scatola coperta di carta velina, che scuotendola rimandava un familiare rumore di ferraglia. Quando vide cosa c’era dentro quasi le prese un colpo: per reprimere la voglia di ridere si dovette mordere le labbra tanto forte da piangere un paio di lacrime.
• Che cara, vi emozionate per così poco; io ero convinto che avreste considerato superato un completo da cucito come questo, con i ferri, i ditali, le forbici, gli aghi e l’uncinetto. Mia madre aveva proprio ragione, è così che si fanno felici le donne oneste
• E il matrimonio? Quando si farà esattamente il matrimonio?
• Non vi preoccupate signora, non aspetteremo più dei 30 giorni necessari – replicò Reluccio a petto in fuori -. Il nove giugno ci sono le comunioni e quindi non si può, ma la mattina seguente ci sposeremo, e faremo una festa ancora più grande. Fidatevi, il dieci giugno 1940 a Trezzano si parlerà solo del matrimonio di Raffaele e Vitalia Mezzomo!
• E per avvisare i parenti e tutta le gente in paese, come faremo?
• Domani alla prima messa faremo dare l’annuncio da don Catarino, all’alba uno dei miei andrà ad avvisarlo. Vedrai che per metà mattina tutti saranno al corrente
• E io nel frattempo che faccio?
• Non ti preoccupare – fece Gaspare ringalluzzito da quei trenta giorni in più da capofamiglia che la sorte aveva voluto regalargli -. Che non ho intenzione di lasciarti troppo tempo a rimuginare. In questo mese che ci avanza, visto che tanto per il matrimonio tutto è a posto e il corredo è bell’e pronto, mi darai una mano con qualche lavoretto. Ho già in mente una bella calcara che potremmo preparare insieme, padre e figlia!
CAPITOLO DUE. UNA SCOPERTA GIGANTESCA
Appena il sole fresco dell’alba cominciò a pizzicarle la faccia Vitalia si svegliò col respiro mozzato dall’ansia. Neanche ebbe il tempo di capire dove stava che un’ondata di angoscia anonima la travolse. Si ricordava che si sarebbe dovuta sposare e che per qualche motivo non ci sarebbe stato nessun matrimonio, ma non riusciva a farsi dire dalla testa ancora insonnolita che era successo. Per un attimo temette che Reluccio l’avesse ripudiata per qualche motivo, o fosse scappato con un’altra, o fosse morto. Ci volle che lo sguardo si fermasse sulla scatola del ricamo per rimettere in moto la memoria e rassicurarla. Stava da mamma e papà in un giorno qualsiasi, ma non era successo niente di male. Si intenerì quasi vedendo il tramezzo di paglia intrecciata che in quell’unica stanza da letto serviva a separare lo spazio dei giacigli delle ragazze dal letto matrimoniale dove, in un silenzio spettrale per non farsi sentire dai figli già nati, Gaspare e Giuseppina avevano concepito la loro prole. Tentò di gustarsi la ritrovata serenità per qualche momento, cercando di affondare nel materasso foderato di pannocchie godendosi l’idea di quel mese in più da zitella che la sorte le aveva voluto riservare, quando la testa della madre le apparve con gli occhi spalancati di un gufo, facendole prendere un colpo.
• Beh? Guarda che manca ancora un mese al matrimonio, non penserai di metterti a fare la signora. Il gallo ha cantato due volte e tu non è che non ti alzi per tre volte come San Pietro, dovresti essere al lavoro da un’ora
• A fare che?
• Intanto papà e zio Carmine ti aspettano abbascio che gli porti la colazione
• E io?
• La fai con loro, scendi e prepara il caffè
Non era proprio così che si era immaginata quella mattinata. Doveva essere il suo giorno da regina e invece le toccava vivere l’ennesimo giorno da serva. Ma il profumo dei chicchi bruni le piaceva così tanto che non le era sgradita l’idea di prepararlo. Era l’unico lusso che Gaspare si concedeva, ormai sempre meno spesso: una tazza di vero caffè la mattina, come un signore. In paese tutti si accontentavano di succedanei da intrugliare nel latte, ma in casa Caccavella ci si era sempre incaponiti a tenere in casa dei veri chicchi tostati, che venivano macinati volta per volta. I due fratelli lo pretendevano pure scuro, e lo bevevano dalla tazzina, senza latte e con tanto zucchero. In quei momenti non li si poteva disturbare. Non che avessero qualcosa da dirsi, anzi di solito stavano in perfetto silenzio, ma perché in quei tre sorsi si celebrava l’essenza e l’esclusività del loro legame. Di solito Vitalia doveva prepararlo e poi ritirarsi, e tornare a tavola quando i due uomini erano usciti per rigovernare.
Si tirò su dal letto con le gambe molli, e neanche era arrivata alla bacinella per sciacquarsi la faccia che già rimpiangeva il calore e l’odore di granturco del letto. Si preparava una giornata di lavoro tosto: Gaspare aveva deciso di scavare la calcara in un pezzo di terreno alla fine della sua proprietà che gli sembrava adatto, ma non aveva i soldi per impiegare qualche operaio a giornata. Così l’immane lavoro di braccia e gambe – si doveva togliere tanta terra che sembrava di mettere le fondamenta a una casa – veniva fatto da lui e dalle uniche persone disposte o costrette a faticare gratis, la figlia e il fratello. Il quale tempo libero a disposizione ne aveva, essendo stato costretto dalla mala sorte a rinunciare a farsi una famiglia sua.
Storia di Carmine
Carmine era il minore dei Caccavella, una specie di primo figlio per Gaspare, che aveva protetto il piccolo dalla tristezza per la morte del padre, dalle ansie della madre, dai soprusi dei padroni presso i quali andavano a lavorare a giornata e dagli scherzi degli amici. Ma non aveva potuto proteggerlo dal nemico più potente e crudele, lo Stato italiano. Tra il 1915 e il 1916 i due Caccavella vennero chiamati alla guerra e inviati su fronti diversi, per evitare che il rapporto fraterno potesse in qualche maniera intralciare il dovere d’ubbidienza dei soldati. Senza Gaspare a proteggerlo Carmine se l’era vista brutta, ma l’essere cresciuto povero e orfano di padre gli aveva permesso di sopravvivere in quella famiglia ancora più bislacca e spietata della sua che era l’esercito. Aveva fatto il suo come gli era sempre stato ordinato, col fucile come con la vanga. Ed era arrivato alla fine della guerra incolume e neanche troppo dimagrito rispetto a quando era partito, ma proprio nell’ultimo assalto, quello di Vittorio Veneto, fu colpito in maniera atrocemente beffarda dalla malasorte. Venne centrato da una granata che esplodendogli sotto le gambe gli frantumò i testicoli, facendoglieli sparire dai calzoni. Fu rammendato alla bell’e meglio in un ospedale da campo, e poi mandato a Roma a riprendersi al sanatorio militare. Il caso volle che nello stesso padiglione, a cinque o sei letti di distanza, avessero ricoverato pure Gaspare, impallinato a una gamba che aveva rischiato di perdere. Fu lui a vedere per primo Carmine, steso sul materasso come uno che ha nostalgia della fossa alla quale avrebbe preferito essere stato destinato. Gli passò davanti fissandolo a lungo ma non riuscì a convincersi che quel tizio, smangiato dalle privazioni e dalle sofferenze, fosse proprio il fratello. Allora cominciò a passeggiargli davanti una, due, tre volte, fingendo di fare esercizi per la gamba malandata. Sembrava un pavone che cercasse di attirare l’attenzione della femmina, solo che invece che nei campi si stava in un enorme stanzone pieno di uomini morenti e bestemmianti. Carmine l’allumava, si capiva che l’aveva notato, ma mica gli diceva niente. Non si capiva se fosse rincoglionito o non avesse manco la forza di fargli un cenno a indicare che l’aveva riconosciuto. Alla fine Gaspare, spazientito e disposto a fare una figuraccia si avvicinò.
• Scusate se vi disturbo, ma siete per caso mio fratello?
E allora Carmine, che non aveva versato una sola lacrima dal giorno che gli avevano messo addosso la divisa, si affogò gli occhi di pianto e si buttò tra le braccia del fratello grande, che se ci fosse stato lui le palle gliele avrebbe salvate. Singhiozzarono come due ragazzini per mezz’ora, regalando agli altri infermi almeno un’occasione per farsi due risate. Dalla fine del conflitto in poi quello restò l’unico momento di vera gioia per Carmine. Tornò dal fronte che aveva ventiquattro anni, ma era un uomo finito. Il suo affare era inservibile e pure malridotto, tanto che al vederlo pure le due o tre donne di piacere cui si era rivolto avevano rifiutato di tentare il miracolo della resurrezione. Si macerava d’invidia persino confrontandosi con gli altri invalidi di guerra, perché considerando la sua mutilazione sapeva che non sarebbe mai stato chiamato a Roma da Mussolini per ricevere una medaglia al valore come aveva visto nei cinegiornali in paese. Ve lo immaginate il Duce che stringe la mano a uno che sul campo di battaglia ci ha lasciato i coglioni?
Offeso col mondo, deriso dal paese che aveva saputo la notizia della sua infermità ancor prima del suo ritorno, aveva abbandonato la casa materna e si era rifugiato in una baracca messa su alla meno peggio dentro la poca terra sassosa e scoscesa che il padre gli aveva lasciato in eredità. Andava solo in visita dal fratello, dove si consolava del destino amaro godendosi l’attenzione delle nipoti che ascoltavano rapite i suoi racconti di guerra. Non riuscivano a credere che in trincea si potesse mangiare pure meno di quello che mangiavano loro. A lui era molto legato pure Aniello, che aveva preso ad adorare questo parente del tutto privo di testosterone, persino più di don Catarino. Gaspare all’inizio era contento di questo bel rapporto tra zio e nipote, però dopo la fuga del figlio, ripensando a come l’aveva cresciuto, in una casa che era una specie di gineceo frequentata solo da un uomo in sottana e un altro senza palle, cominciò a pensare che se si era voluto far prete era pure colpa sua.
Quando Carmine non si faceva vedere per più di una settimana Aniello saliva fino alla baracca per andare a trovarlo. Queste assenze capitavano con regolarità da calendario: a ogni cambio di stagione, a ogni anniversario del fatale scoppio dell’ordigno e a ogni giorno della Madonna – ovvero la festa del paese, quando tutti erano più contenti e si concepivano più bambini – la misantropia di Carmine si aggravava fino a non poter sopportare neanche i parenti stretti. L’unica persona che accettasse di vedere in quei frangenti era appunto Aniello, che essendo tutto dedito alle faccende di sacrestia pareva un angelo e quindi senza sesso pure lui, come lo zio. Il ragazzo si faceva la sfacchinata fino alla baracca, a mezzo chilometro dal paese e a due da casa sua, portando per di più sulle spalle una sporta con qualche regalia in cibarie che Gaspare gli aveva fatto preparare. L’ultimo tratto di strada era un cavatappi in terra battuta che avrebbe fatto morire d’infarto un mulo. Giusto le capre riuscivano ad arrampicarcisi, e infatti quelli erano gli unici animali che Carmine si era messo in casa. Le capre e un cane, che a quei tempi era una vera stramberia. Tenere in casa un animale che non solo non ti mangi e non ti dà latte, ma che ti tocca spesso e volentieri nutrire era considerata una roba da ricchi, e visto che Carmine ricco non era lo si poteva considerare solo un pazzo o peggio un presuntuoso. A dire il vero la bestia qualche utilità la presentava, oltre a fornire semplice compagnia. Essendo di razza da caccia, la mattina presto non mancava mai di presentare alla porta del padrone uno o due uccelletti che quello si faceva alla brace in gran segreto, guardandosi bene dal divulgare il prezioso talento del quadrupede in giro. Altrimenti, tempo un paio di notti e glielo avrebbero fatto sparire.
Comunque Aniello saliva la stradina col carico di doni sulle spalle come un re magio senza cammello, e qualche volta poco ci mancava che ci restasse secco sotto il sole. Ma lui era un ragazzo dotato di un’immaginazione capace di distrarlo pure nel più lungo e gravoso dei compiti, e la vista dei fichi d’india che penzolavano ai lati della strada e dei quattro o cinque ulivi che stavano proprio sotto la baracca dello zio bastava a fargli immaginare di star camminando per le campagne intorno a Gerusalemme, e quella bellezza di ispirazione divina gli dava la forza di mettere un passo avanti all’altro, magari nella segreta speranza di vedersi parare davanti all’ultima svolta il Redentore in persona, che l’avrebbe magari dissetato al pozzo dello zio. E invece l’unico essere umano che incontrava era proprio Carmine, in attesa dell’arrivo del nipote da almeno venti minuti, da quando aveva visto la polvere della strada alzarsi dal basso e chi poteva essere se non il nipote?
• Zio
• Eh
• V’ho portato la panella fatta da mamma ieri e mezza ricotta, e la conserva di pomodoro, e c’è un altro po’ di vino
• Quello nero?
• Sì
• Trasi
In quei giorni Carmine era poco loquace, s’è capito, ma al nipote voleva bene sempre e anzi pure un po’ più del solito, perché non era scemo e sapeva che farsi quella maratona per vedere un parente solo e derelitto pure per la già bassa media della zona si doveva essere molto devoti, o molto buoni. O molto scemi. Lo zio provvedeva allora ad alleggerire il nipote del suo fardello, e se si era nella stagione calda evitava di farlo entrare in casa ché si vergognava di quanto fosse zozza – nel suo caso l’espressione “dormire con gli animali” era da intendersi alla lettera, nel senso che con le capre ci si assopiva abbracciandole – e perché starsene sullo spiazzo all’aperto dove teneva una specie di tavolaccio di legno sotto l’ombra di un leccio era un gran piacere. La vista era di quelle che cinquant’anni dopo ci avrebbero potuto costruire un albergo di lusso – e infatti lo fecero -. Si vedeva tutto il paese da lì, nero e appiccicato alla montagna come il pelo pubico sotto il ventre di una donna, e più lontano il mare e quando le giornate erano terse il puntolino di Capri. Aniello era dotato di un senso estetico innato, e pure senza aver letto mezza pagina di lodi alla sua terra da parte dei tanti pederasti letterati impegnati nei loro Grand Tour fino a mezzo secolo prima, anzi senza sapere che esistessero dei pederasti letterati, meglio ancora senza conoscere il significato del termine pederasta, era in grado di capire che quello che aveva davanti era uno scenario di una bellezza commovente. E lui, coerentemente, qualche volta piangeva di gioia. Lo faceva solo lì, davanti a quel panorama ultraterreno, anche perché lo zio non si impressionava e non lo rimproverava come avrebbe fatto il padre. Quello che aveva passato in guerra e la reazione degli altri alla sua invalidità gli avevano insegnato che un uomo può provare molte altre emozioni oltre alla fame e alla lussuria e alla rabbia per la fame e a quella per la lussuria. Così se ne stavano in silenzio di fronte al sole che scendeva sbollentando a mare, uno pensando alla gloria di Dio e l’altro ai suoi compagni più fortunati di lui, quelli che la granata se l’erano beccata in testa e non tra le gambe.
Per accompagnare la scena lo zio metteva in tavola un fiasco e due bicchieri. Era stato lì che Aniello aveva assaggiato del vino per la prima volta. Carmine aveva prevenuto le sue proteste – Gaspare aveva tassativamente vietato gli alcolici fino ai sedici anni - dicendogli che quello che gli stava dando «tene nu grado sotto a l’acqua». E Aniello a intingere la lingua nel rosso schiarito fu tutto contento perché sapeva di aver assaggiato il sangue di Cristo o almeno qualcosa di molto simile. Se era stagione, nel bicchiere ci finivano pure dei pezzi di pesca, una rarità che lo zio conservava sempre per il nipote. Purtroppo il tramonto significava pure che era ora di andare, ma i saluti non erano mai tristi. Anche se non si erano detti che qualche parola banale sapevano di essersi capiti benissimo, e di lì a un paio di giorni, senza bisogno di preghiere, Carmine sarebbe tornato a trovare il fratello e tutta la famiglia, a raccontare alle nipoti come si andava all’assalto senza farsi sparacchiare dagli austriaci e a far vedere loro come si mettono le trappole per gli uccelli. La partenza di Aniello per il seminario colpì duramente l’orgoglio di Gaspare, ma fu qualcosa di peggio, una pugnalata al cuore, per il fratello. Da allora più che taciturno era stato muto, e oltre che misogino e misantropo era diventato pure anticlericale. Solo col fratello accettava di mantenere qualche rapporto, più volentieri quando si trattava di faticare che festeggiare nascite o matrimoni, tutta roba che gli ricordava il suo eterno impedimento. Ecco perché quando si era presentato all’alba in casa del fratello e aveva scoperto che invece di andare a messa con mezzo paese c’era da scavare si era sentito tutto contento, si era tolto la camicia da festa e se ne era fatta prestare una da lavoro da Gaspare.
In effetti si sarebbe dovuto cominciare tra qualche giorno, finito il trambusto della cerimonia, ma a quel punto tanto valeva darsi da fare e anzi approfittare della presenza di Vitalia, che essendo robusta poteva dare una mano con la vanga e a spostare le carriolate di terra. La ragazza scese dalla scaletta di legno che dall’unica stanza da notte portava nell’unica stanza da giorno, dove si cucinava e mangiava. I due uomini stavano seduti uno di fronte all’altro, e non si guardavano.
• Buongiorno zio, buongiorno papà. Vi faccio subito il caffè
• Buongiorno Vitalia
Si mise al suo posto in cucina, che consisteva in un mobiletto con due fuochi e la caldaia per il carbone sotto, dall’unico stipo sopra la tinozza con l’acqua prelevò il sacchetto con i chicchi e prese ad armeggiare col macinino e la caffettiera, producendo stridio di stoviglie e liberando quell’aroma resuscitamorti che mise di buonumore persino quei due infelici.
• Statte qui Vitalia. E prendi una tazzina anche per te, che oggi ce lo dividiamo
• Ma no
• Sono contento che rimani un altro po’, così vedi che bella calcara facciamo tutti insieme, e poi potrai venire a trovarci a prendere un po’ di vino, che quello dei Mezzomo che cresce nella piana sicuro non è buono come il nostro
Portò il caffè in tavola nella caffettiera scurita tenendola come un incensiere in chiesa. Bevvero in silenzio, Vitalia tenendo con le due mani ancora poco rovinate dal lavoro nei campi - giusto qualche callo sulle nocche - mentre i due uomini le avevano così ingrossate e indurite che tra le loro dita la tazzina letteralmente spariva. Sembrava stessero prendendo il caffè direttamente dal palmo chiuso. Dalla finestra aperta entrò sparato un raggio di sole ancora fresco, che spargeva una luce lattiginosa e a malapena tiepida. Se era riuscito a salire fino in casa però era segno che l’alba era passata da più di un’ora, e che era tardi.
- Jammo mo
Scesero tutti insieme fino alla terra, corricchiando sul terreno ripido e pieno di sassi, con gli attrezzi da lavoro in equilibrio nella carriola, fino al punto, una specie di esagono mal ritagliato, che secondo Gaspare doveva bastare per farci la calcara e conservare la calce cotta. Era uno spazio veramente piccolo, ma altro non ce n’era, e quando un padre di famiglia si metteva una cosa nella testa non si poteva che lasciarlo fare, anche perché in quel caso non c’erano altri maschi a tenergli testa. L’idea di guadagnare qualche soldo semplicemente facendo cuocere le pietre calcaree – che certo nel suo terreno disgraziato non mancavano – gli era balenata in mente qualche settimana prima del matrimonio di Vitalia. Quando la figlia se ne fosse andata lui e Giuseppina si sarebbero trovati davanti a una lenta vecchiaia senza il conforto di figli robusti e amorevoli, e l’idea di risparmiare qualcosa per il giorno in cui non sarebbe più stato in grado di prendere la zappa in mano non gli dispiaceva. Mica poteva contare lui sui ricoveri per sacerdoti anziani dove il maledetto don Catarino sarebbe andato a svernare servito e riverito finché il diavolo non se lo fosse preso! Parecchi in paese ci si erano cimentati, usando resti di marmi antichi che affioravano spesso in quella terra abitata da millenni. Lastre funerarie e capitelli venivano ridotti in frammenti e buttati nel fuoco, finché non si venne a sapere che farmacista e podestà amavano quelle pietre piene di scritte incomprensibili e le pagavano molto meglio della calce. Da allora ci si limitava a fare a pezzi la roccia.
• Allora Vita’, noi cominciamo a scavare e tu riempi la carriola della terra che tiriamo su e la vai a buttare là sotto al dirupo. Senza fermarci, che voglio fare una bella buca prima di sera
Vitalia non fece né sì né no, guardava la carriola e intanto pensava che per quell’ora doveva essere entrata nel vestito da sposa. Non sentiva di essere triste, solo le sembrava strano che la giornata fosse così diversa ed era per quella stranezza che ora le veniva una lacrima sulla guancia. Però insomma, considerando che la notte prima era diventata una ladra e che nessuno tranne lei, Natalina e il Signore lo sapevano non c’era da lamentarsi. Meditava sulle avventure della notte prima e intanto spingeva sulla ruota di ferro la carriola piena, e senza rendersene conto si era già avviata al precipizio a scaricare, quando sentì una poderosa bestemmia alzarsi al cielo come la più sincera e devota delle invocazioni.
• Oddio che succede?
• Carminù tutto bene, dove sei? Rispondi!
• Qua sto, viemme piglia!
Vitalia corse indietro fino a dove aveva lasciato padre e zio e da dove aveva sentito lanciarsi il richiamo a nostro Signore, e trovò che Gaspare stava piegato a terra verso la buca e che Carmine era sparito.
• Ti vedo, aggrappati!
Arrivata davanti al fosso Vitalia vide che lo zio non era scomparso, era semplicemente mezzo sprofondato nella voragine che era diventata all’improvviso molto più profonda di poco prima. Carmine stava sepolto nella terra fino ai reni, e aveva uno sguardo terrorizzato come prima aveva visto solo nelle bestiole che riuscivano a catturare con le trappole. Se la terra intorno avesse ceduto sarebbe stato seppellito vivo.
• Oddio me moro, è come la guerra, me moro soffocato come in trincea
E giù un’altra sequela di bestemmie, che era un modo come un altro per invocare l’aiuto di Dio.
• Vitalia tienimi le gambe, reggi forte. E tu Carmine aggrappati a me e tira!
Ci volle un quarto d’ora di sforzi prima che il poveraccio riuscisse a uscire da quella fossa che gli era sembrata la sua tomba. Aveva la faccia rigata di lacrime e sudore, che impastandosi con la terra gli avevano fatto una specie di maschera appiccicosa, e i capelli stavano sparati da tutte le parti. Aveva terra e sassolini fin dentro il culo, e si era perso le scarpe. A vederlo Gaspare quasi ebbe un colpo. Non vedeva un viso così conciato da quando stava in guerra.
• Mamma mia e che è! Ma come è successo…
Fece Vitalia, che a vedere lo zio ridotto a quella maniera quasi si metteva a piangere dallo spavento e dalla pietà.
• È strano assai. A un certo punto la terra era diventata durissima, lo sciamarro saltava ad ogni colpo come se ci stavano delle pietre sotto di me, e all’improvviso è caduto tutto e mi sono trovato al buio, e con le gambe bloccate dalla terra. Era come se qualcuno mi teneva fermo e voleva tirarmi giù
• E ci credo, guardate qui, qua sotto è tutto costruito, è come una casa sottoterra
Fece Gaspare che cautamente, come una volta alzava la testa sopra i fili spinati per controllare il nemico sul fronte opposto, si era affacciato sul piccolo cratere. E in effetti là sotto, pur mezza coperta dalla terra e dalle pietre, si capiva che c’era una cavità costruita dall’uomo.
• Vedete che ci stanno le pareti, sono pure intonacate. Stavamo scavando sul tetto e quello è crollato
• Ma come! Qua ci stanno i miei da cient’anni e nessuno mi ha detto di case ricoperte. E poi questa al massimo poteva essere una stalla, guarda quanto è piccola
• E mo?
• E mo niente, mannaggia alla morte. Come la faccio la calcara sopra una stalla?
• Ci stanno delle cose dentro, lì in fondo, mi pare un vaso coi manici
• Ma che ci hanno lasciato delle cose dentro? Ma erano scemi questi?
• Certo che se costruisci una stalla e poi la sotterri mica sei tanto normale
• Proviamo a scavare e vediamo che c’è
• No per carità stiamo attenti, che se qua crolla il tetto moriamo tutti. Prima da fuori facciamo cadere le pietre che restano e poi con calma scaviamo tutto
• Ma così ci mettiamo una vita
• Ma così la vita non ce la rimettiamo
Ci vollero quattro ore per finire di buttare giù il tetto di pietre e rimuoverle poi da sotto. Un lavoro bestiale, considerando pure che a sobbarcarselo erano due uomini di mezza età e una donna dotati di una sola carriola. I fratelli scavavano e l’altra faceva avanti e indietro dal dirupo più sotto, che presto non fu più un dirupo ma un terrapieno. Alla fine dal terreno sporgeva solo una muratura circolare, al cui interno tra la terra ancora da togliere spuntavano ciotole, crateri come quelli che si usavano in paese per tenere l’olio, pezzi di metallo arrugginito. Era pomeriggio avanzato quando riuscirono a mettere le mani su quei vasi lunghi e stretti. Fu Vitalia a tirarli fuori.
• Mi sa che dentro non ci troviamo niente
• E che vuoi che ci stia. E pure se fosse, dopo tutti questi anni… è roba vecchia assai, un vaso così non l’avevo mai visto. E che ci fai? È così stretto che neanche sta in piedi
• Rompine uno e vediamo che ci sta
Vitalia lanciò il primo che aveva tirato fuori contro una delle pietre

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Performance a cura dell'"Associazione Danze popolari Lithodora"



L'autore risponde alle domande dei ragazzi della IIIE Turistico IIS Della Corte Vanvitelli

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Un tesoro di contadina
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