Una casa in costiera

Giovanni Canestrelli

Una casa in costiera

Premiato con Targa alla XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018

Descrizione

Il dottor Giovanni Cartelli, ex veterinario in pensione, durante una delle frequenti passeggiate in compagnia di David, l'amato Golden Retriever, scorge un cancello arrugginito e coperto da rovi. «Vendesi villino indipendente, metri quadri 95». Questa la scritta che si intravede su un cartello consumato dagli anni, affisso alla bell'e meglio su un palo per l'illuminazione stradale; accanto, un numero telefonico dal prefisso a più cifre. Incuriosito, decide di dare un'occhiata: si apre cosi un varco tra l'intricata vegetazione e scova una deliziosa casetta abbandonata che affaccia sul mare della Costiera amalfitana. Solo e desideroso di dare una svolta alla propria vita, il dottor Canelli deciderà di acquistare la splendida proprietà, rimanendo però ben presto coinvolto in un mistero. L'ex proprietario della casa, Jack Cafiero, un americano di origini napoletane, gli chiederà infatti di far visita alla cappella di famiglia, dove giacciono le spoglie dei nonni e della madre, per controllare che sia tutto in ordine prima del suo arrivo a Napoli per la stipula del contratto. Sorpreso dall'assenza di una foto sulla lapide di Mara, madre di Jack, e dalla data di morte, che indica che è deceduta giovanissima, Canelli si troverà a indagare sulla vicenda della donna, e getterà luce sul suo scabroso passato.

L'autore

Una casa in costieraGiovanni Canestrelli nasce a Milano nel 1947. Dopo la laurea in giurisprudenza, inizia a lavorare per la Pubblica Amministrazione a Ferrara, dove vive per sette anni.
Rientrato a Napoli come Dirigente della Regione Campania, si è occupato dell’organizzazione del 118 sul territorio regionale e della redazione dei Piani regionali di emergenza.
Il suo ultimo incarico, prima del pensionamento, è stato quello di Dirigente della Scuola regionale di Polizia locale. È’ sposato con Gabriella Castellano, professoressa di lettere ed ha due figlie, Benedetta, biologa e Valentina, anestesista, e quattro nipoti.
Nel 2016 è stato pubblicato il suo primo romanzo: Una casa in costiera (Tullio Pironti) vincitore nel 2017 del Premio “Giovanni Bovio”, del Premio “Città di Cava de’ Tirreni” e del “Premio Bonino”.
Con la Casa Editrice Apeiron di Napoli ha pubblicato:
Suave y bajito (2017)
Un gioco pericoloso (2018) targa d’onore al premio “Città di Cava de’ Tirreni”
Pezzi di ricambio (2019) che, per la particolarità del tema trattato, è stato citato nella prefazione della relazione annuale al Consiglio dei Ministri da parte del Commissario straordinario di Governo per le Persone Scomparse
Cattivi e buoni (20209

Leggi il primo capitolo

La casa
«Allora, Giovanni... Sono 1.300,00 euro di spese. Sai, il re- gistro, le tasse... e, come sempre, per te senza onorario».
Ascolto appena le parole che pronunzia Enrico, vecchio ami- co, compagno di studi e notaio di professione.
Mi risuona ancora nella testa l’articolo 1 del contratto di compravendita, da lui letto solo pochi minuti fa:
«Il signor Giacomo Cafiero vende al dottor Giovanni Canelli, che accetta e acquista, la piena proprietà del seguente bene im- mobile...».
È fatta, in un attimo sono diventato proprietario di una scheg- gia di Costiera amalfitana.
Strana, la vita.
Giorno dopo giorno, anno dopo anno, cammini lungo un sen- tiero che hai la sensazione di poter percorrere a occhi chiusi.
Certo, gli imprevisti li metti in programma ma, soprattutto quando non sei più giovane, ti convinci che nulla potrà cambiare l’impostazione di fondo che hai deciso di dare alla tua esistenza.
Anch’io ne ero convinto, fino a qualche settimana fa.
Ho 66 anni, un matrimonio senza figli, autoestintosi diversi anni or sono, la soglia della pensione appena varcata, molto tem- po libero – che impegno con tennis, barca a vela e palestra – po- chi amici, David, una casa al Vomero, una BMW familiare e po- co altro.
Poi...
Qualche settimana fa, durante uno dei miei giri in auto in compagnia di David, mi sono fermato lungo la strada panorami
ca che, partendo da Massa Lubrense, si avvia, a mezza costa, verso Punta Campanella.
È impossibile passare distrattamente di qua, si viene quasi trascinati a forza fuori dalla macchina e costretti a contemplare quello che c’è intorno. L’ultimo lembo di terra che chiude a sud il golfo di Napoli sembra unirsi a Capri, immobile e sinuosa nel- la bruma del tramonto. Porto David a fare i suoi bisogni: è un Golden Retriever, ultima maglia che non ho voluto spezzare con il mio passato lavorativo – sono stato un veterinario.
Lungo il tratto di strada più bello, quello tra Marciano e Ter- mini, mi fermo davanti a un vecchio cancello in ferro, arruggi- nito, quasi totalmente inglobato in un ammasso di rovi, e scorgo, affisso alla bell’e meglio su un palo per l’illuminazione stradale, un cartello quasi totalmente coperto dalla fitta vegetazione.
Incuriosito mi avvicino e, attraverso un foglio di plastica opa- co consumato dagli anni, riesco a leggere:
“Vendesi villino indipendente, metri quadri 95”.
Anche se ormai quasi illeggibile, subito dopo è impresso un numero di telefono dal prefisso strano che, dopo una rapida con- sultazione sull’iPhone, risulta essere di Chicago.
Il cancello è chiuso, bloccato da una catena; c’è un chiavistel- lo arrugginito, che niente potrà mai più aprire.
Più che da un vero e proprio muretto di cinta, in parte crolla- to, e da una rete di recinzione che ormai si è arresa al trascorrere del tempo, la proprietà è difesa da un’intricatissima parete verde, attraverso cui, a malapena, si intravedono bouganville, glicini in fiore, gelsomini e piombaggini, abbarbicati ad alberi di agrumi e ulivi secolari.
Il tutto emerge da un metro di vegetazione non meglio iden- tificabile. C’è un varco, al di là del quale intravedo un sentiero creato dal passaggio, molto sporadico, di qualche intruso.
Nel pomeriggio inoltrato di tarda primavera la strada è quasi priva di traffico, l’aria è tiepida e profumata, David mi guarda scodinzolando e io, senza stare troppo a pensare, stringo il guin- zaglio e m’immergo nel verde, attraverso un varco nella recinzione. Dopo due passi sono totalmente circondato dagli arbusti e posso solo proseguire sul percorso tracciato; David tira con forza, eccitato dall’avventura, e io lo seguo, cercando di non lasciare pezzi di camicia o, peggio, lembi di pelle, su qualche spino.
Di colpo, dietro due alberi di limone ormai uniti da una cor- tina di edera, sono accecato dal sole al tramonto. Mi riparo gli occhi con la mano e vedo prima Capri, poi il mare sottostante e poi... il bianco spento di una casetta.
Se ne sta lì, sola, fiera, sembra consapevole del privilegio che ha nell’essere stata edificata in questo luogo magico, fuori dal caos e immersa in un paradiso terrestre.
Mi avvicino piano, David non tira più il guinzaglio, mi fermo.
Un terrazzino, a picco sul mare sottostante, lastricato con vecchie riggiole policrome, coperto da un pergolato i cui pali di legno hanno ceduto al peso della vegetazione... un portoncino divelto, un tempo azzurro.
Mi accosto ancora e sento la resistenza di David: avventura sì, ma entrare là dentro...
Lego il guinzaglio a un paletto, scosto a fatica i rampicanti e, vincendo il sentimento di timore che mi accomuna a David, var- co il portoncino ed entro.
Il sole filtra attraverso le persiane chiuse di due finestre cre- ando, nella polvere sospesa, strani giochi di luce.
Sento il ronzio forte dei mosconi che banchettano sugli escre- menti che qualche incontinente di passaggio ha ritenuto giusto deporre sul pavimento.
In un angolo c’è un materasso, sporco come solo i materassi sanno essere... eppure qualcuno lo ha usato, ci ha dormito, me- scolando, come solo gli uomini sanno fare, abbrutimento e ma- gia, disperazione e meraviglia.
Vedo due porte aperte: ormai ci sono, traverso la prima stanza e guardo oltre.
Una camera, più ampia, con un balcone dal lato del mare. Poi una cucina con un piccolo camino e un’altra porta: immagino dia accesso ad un bagno che, però, evito di ispezionare.
Torno sui miei passi, piano, molto piano.
Non ho voglia di uscire, non ancora...
Avverto una sensazione strana: mi sembra di non aver visto
abbastanza.
Entro nella stanza più grande e tento di aprire le imposte del
balcone.
Gli anni, l’incuria e le intemperie le hanno quasi saldate insieme. Non desisto e, con un paio di spallate ben assestate, le spalanco.
Esco.
Come tutti, ho avuto anch’io la mia giusta quantità di espe- rienze, belle e brutte.
Mai, però, nella mia vita ho subìto un impatto così profondo, così penetrante, così totalizzante come quello che vivo in que- st’istante.
Il sole sfiora il mare, inondando di rosso la terra e l’acqua. Il profilo di Capri risalta nitido a poche miglia.
Mi sento sospeso, immerso in una dimensione distorta. Sento nascere dentro di me la convinzione che mai, in nessun luo- go e in nessun’altra occasione potrò sentirmi come mi sento adesso... non mi muovo, respiro piano, appoggiato con gli oc- chi chiusi alla ringhiera traballante. Assaporo ogni istante, nel- la piena consapevolezza di esser entrato in contatto con un luo- go magico.
Mi attraversano la mente mille immagini, squarci del mio passato, luoghi e volti della prima infanzia, dimenticati, sepolti sotto i mattoni della vita eppure nitidi, chiari come mai prima. Una stanza con pochi giocattoli, mia nonna, la mia mamma, il terrazzo su cui rincorrevo un vecchio e paziente pastore tedesco, Said si chiamava, un enorme cancello a cui mi aggrappavo men- tre mio padre lo faceva oscillare...
C’è una vibrazione insolita tra queste mura, un sussurro, un richiamo, un invito sommerso che mi sfiora la pelle e la mente.
Non so quanto tempo io sia rimasto immobile su quel balco- ne sporco e cadente, appoggiato alla ringhiera traballante; lentamente avverto un cambiamento, la luce è più soffusa, l’aria è meno tiepida, il sole si è immerso nel mare di Capri.
Sento David che uggiola, chiudo alla meno peggio le imposte ed esco dal villino, senza fretta... Scatto alcune foto con il tele- fonino, pur sapendo che sono inutili – le immagini si sono im- presse dentro di me.
Libero il mio compagno di avventura che, felice per il mio ri- torno, irrora un arbusto e insieme ripercorriamo la galleria ver- de, attraversiamo il varco e torniamo sulla strada.
Il cartello è sempre attaccato al palo.
Copio con cura il numero sul telefono, torno in macchina e mi dirigo verso un pizzico di case un po’ più avanti. Vedo un’in- segna, fermo l’auto e, accompagnato dalle proteste di David per questo nuovo abbandono, attraverso l’ingresso.
È uno di quei locali strani che esistono solo dalle nostre parti, non ha alcuna connotazione precisa, non è bar, non è salumeria. Se ne sta lì, come il suo proprietario che, seduto a un tavolino, mi guarda entrare, quasi contrariato dal dover interrompere il suo far nulla.
Ordino un chinotto ma la mia richiesta troppo sofisticata mi guadagna un’occhiataccia dal proprietario; opto per una Coca che, in maniera del tutto inaspettata, mi viene servita in un bel tumbler, con ghiaccio e una fettina di limone.
Bevendo, butto due parole alla rinfusa su quanto sarebbe bel- lo possedere un appartamento da queste parti. L’uomo non ab- bocca e allora esco allo scoperto e chiedo di quel vendesi posto alcune centinaia di metri più avanti.
L’espressione del mio interlocutore non muta, forse è un se- guace di Clint Eastwood, ma vedo un’ombra passare nel suo sguardo, che adesso non è più rivolto verso di me ma appare ir- resistibilmente attratto da una bottiglia di Punt e Mes anni Set- tanta, riposta in alto su uno scaffale.
È costretto a rispondermi e lo fa con la minor quantità di pa- role possibile, accompagnata dalla maggior incisività che riesce a generare:
«Ah, quella! Quella era... è di Cafiero. Sta là ’a tant’ann’, nun’a tenimm’ ’e bbuonaugurio. Nessuno la vuole... È chièn’ ’e mmerd, e prima o poi se n’care a mar’e non se ne parla più».
Ho voglia di chiedere altro... Chi è Cafiero?, dove sta?, che cosa c’entra il buon augurio?, perché il numero telefonico ha il prefisso di Chicago?, ma mi rendo conto che la comunicazione con il proprietario del locale si è interrotta.
Devo aver toccato un tasto dolente, forse ci aveva messo inu- tilmente gli occhi sopra, oppure questo Cafiero non fa parte della ristretta cerchia dei suoi amici.
Compro una bottiglia di acqua frizzante fredda per David – be- ve solo quella – e torno alla macchina, accolto da un festoso ab- baio di benvenuto. I cani, diversamente dagli umani, non serbano rancore, l’ho verificato quotidianamente con l’esercizio della mia professione.
Percorro le poche centinaia di metri che mi separano dal can- cello di Cafiero e spengo il motore.
Mentre David Gilmour fa parlare la sua chitarra in The Nar- row Way, m’imprimo meglio nella memoria ogni dettaglio del luogo. Dalla strada, la casetta è invisibile, completamente scher- mata dall’impenetrabile muraglia verde. Forse è anche più in basso rispetto al piano stradale, ma non sono in grado di giudi- care con esattezza.
Se non fossi sceso a far sgranchire David non avrei notato nulla.
Forse, penso, è per questo che nessuno l’ha ancora comprata. Poi mi tornano in mente le parole dello pseudo barista: «Sta là ’a tant’ann’... nessuno la vuole...».
Metto in moto e mi avvio sulla strada di casa. Sono profon- damente turbato, eccitato e spaventato per le implicazioni e i ri- svolti pratici che le sensazioni provate potrebbero portare alla mia quotidianità.
Arrivato a casa faccio mangiare David, ordino una margheri- ta al pizzaiolo di fronte, cerco di calmarmi ma non riesco a stare
fermo. Come al solito, cerco di esaminare la situazione discuten- do con me stesso.
L’ho sempre fatto, essendo figlio unico, e ho imparato a dar- mi torto o ragione a seconda dei casi... tanto, alla fine, ho sem- pre ragione io.
Guardo le foto sul telefonino, ma mi dicono poco, come pre- vedevo.
Sono le sensazioni che ho provato nell’essere stato lì di per- sona a farmi vibrare qualcosa dentro, che mi danno un’emozione che non riesco a focalizzare, tra il desiderio di cambiamento e l’angoscia per l’ignoto.
La muta disputa interiore assume toni vivaci:
“Come cazzo ti viene in mente di andarti a ficcare in una si- tuazione del genere... Stai così bene, non ti manca niente; e mo, di punto in bianco, ti interessi a una casa in Costiera, una casa sgarrupata che, come ha detto quello, “è chièn’ ’e mmerd, e pri- ma o poi se n’care a mar’e non se ne parla più”. E poi, le sen- sazioni, il richiamo... Diciamo la verità: ti stai rincoglionendo, aveva ragione tua moglie, hai la capa tra le nuvole”.
A volte la discussione è lunga e molto argomentata ma, que- sta volta, non la alimento.
Arriva la pizza e la mangio dal cartone, guardando distratta- mente «X Factor».
Butto il contenitore ormai vuoto, lavo il bicchiere della birra, passo in salotto, seguito da David, che si chiama così in omaggio al chitarrista dei Pink Floyd.
Accendo lo stereo e parte Ummagumma, che a lui piace mol- to. Seduto qui, in casa mia, sulla mia poltrona, mi rendo conto che sono ancora su quel balcone, sospeso tra cielo e mare. Non so spiegarmi quello che provo e questo mi agita molto. Vorrei tanto fumare, ma ho smesso.
Prendo di nuovo il telefonino e riguardo le foto, poi cerco il numero di Cafiero. Ma che ora è a Chicago? Qui sono le ventuno e trenta e il fedele iPhone mi assicura che in Illinois sono le quat- tordici e trenta.
Parlare con gli estranei non è tra le mie priorità, e farlo al te- lefono, senza poter vedere l’interlocutore, meno che mai; eppu- re, quel 312 236 mi fissa dallo schermo del cellulare, sembra pulsare, animarsi di vita propria, autocomporsi.
Va bene, lo faccio. Premo il tasto per avviare la chiamata, ri- passando mentalmente quello che dovrò dire in inglese, sperando di capire e di farmi capire e, nell’inconscio, che dall’altro lato la chiamata venga ignorata. La risposta è immediata, anche troppo:
«Who’s calling?».
Recito la frase accuratamente predisposta, ma sono interrotto a metà:
«Paisà, ma tu stai chiammanno from Italy?».
Mi sembra impossibile, esiste qualcuno che dice paisà, come nei film.
Al telefono, a Chicago, c’è Giacomo “Jack” Cafiero: si sente benissimo che di americano ha solo il nome proprio e che per il resto non potrebbe essere più terrone. Gli spiego il motivo della mia chiamata e gli chiedo informazioni sulla casa.
Mi dice di essere l’unico proprietario, l’ha ereditata dal padre Giuseppe, emigrato negli USA alla fine degli anni Settanta e de- ceduto da due anni.
Formulo la domanda che fa tremare le vene ai polsi a tutti i probabili acquirenti di un immobile:
«E sa, solo per orientarmi, quale sarebbe la sua richiesta?».
Non esiste formula più vaga e dubitativa di questa, lascia pre- supporre un vago interesse, pronto a volatilizzarsi all’apparire di una cifra troppo pesante.
«Mah...», dice Jack; «babbo», dice proprio babbo, «chiedeva 350.000 fino a due anni fa, but now I think the price... il prezzo, understand?, must be increased... come dite voi, aumentato».
Immediatamente offro al signor Cafiero una dettagliata ed esauriente antologia di tutti i luoghi comuni sulla crisi che sta travolgendo l’Italia, senza tralasciare nulla, dallo spread agli esodati, tenendo per ultimo il crollo del valore del bene rifugio per eccellenza, il mattone.
Jack mi ascolta in silenzio – non so bene quanto riesca a com- prendere delle nozioni trasmesse, delle quali io per primo capi- sco pochissimo – poi dice:
«Ok paisà, ma tu... Do you know how many dollars vuliss’ caccià ?».
Mi rendo conto solo allora che la cifra da lui indicata è in dol- lari; tento una rapida conversione in euro e poi, fingendo sicu- rezza, lancio un:
«300.000...».
Dopo una lunga pausa Jack rilancia:
«Gimme 320.00, e ti prendi il bungalow!».
IPhone alla mano faccio l’operazione, al cambio odierno sono 283.968 euro. Sono buona parte dei miei risparmi, oculata- mente investiti al “Banco di Napoli”, come da tradizione fami- liare.
Non mi rendono quasi nulla perché, seguendo le indicazioni paterne, ho sempre rifiutato di vincolarli; e difatti posso smobi- litare tutto in cinque giorni.
Non riesco a decidere all’istante, dico a Jack che lo richiamo domani e chiudo la telefonata.
Sono sudatissimo: neppure un’ora di tennis con Franco mi ri- duce in questo stato. La casa attuale mi va stretta, mi sembra che le pareti, lentamente, si avvicinino. Metto il guinzaglio a David ed esco quasi di corsa.
Via Morghen, piazza Vanvitelli, via Scarlatti... in giro c’è po- ca gente, non è tardissimo, ma i vomeresi rincasano presto.
Incrocio i soliti gruppi di ragazzini arrivati qui con la metro, intenti a fare niente ma felici di essere saliti ’ncopp’ ’o Vommero. Il loro vocio non mi fa concentrare e allora svolto in via Luca
Giordano, verso le scale di san Francesco.
Qui non c’è veramente nessuno.
Cammino adagio, cercando di mettere ordine nei pensieri.

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