Una ragazza affidabile

Silena Santoni

Una ragazza affidabile

Terzo premio ex aequo "Simonetta Lamberti" (Narrativa ragazzi) XXXV edizione del "Premio Città di Cava de’ Tirreni " anno 2018

Descrizione

Un'eredità inattesa costringe Agnese a tornare a Firenze, la città in cui è nata e cresciuta e da cui è fuggita molti anni prima. Qui l'attende la sorella Micaela, che non vede da anni. La vita di Micaela ha seguito un percorso assai diverso, lontanissimo dalle scelte che Agnese ha fatto per sé: una vita tranquilla e sicura nella provinciale Ancona, un bravo marito benestante, due figlie allevate nell'agio, tutti valori che Micaela, sola, senza un'occupazione fissa, precaria per vocazione e per convinzione, irride.

Attraverso un confronto che assume sempre più il carattere dello scontro, Agnese rivive, sullo sfondo dell'Italia degli anni Sessanta e Settanta, i ricordi dell'infanzia e della giovinezza: l'impegno nello studio, la lotta contro l'obesità, l'attrazione che evolve in amore per il cugino Sergio, il rapporto complesso con la sorella, l'invidia, mai del tutto riconosciuta, per quella propensione di Micaela a cavalcare le tumultuose vicende del suo tempo con naturalezza e incoscienza. Sembra un romanzo classico su uno dei temi narrativi ed esistenziali più archetipici: la conflittualità che spesso caratterizza i legami tra sorelle dal carattere opposto - una tranquilla e disciplinata, l'altra seduttiva e ribelle - e la resa dei conti che finalmente arriva dopo anni di incomprensioni e di silenzi. E invece, poco alla volta, inesorabilmente, il romanzo familiare si trasforma in qualcosa d'altro e di molto più inquietante. Mentre il viaggio nella memoria, negli anni più complicati e bui dell'adolescenza, sollecitato dal confronto con la sorella, riconduce Agnese al momento più doloroso e rimosso, quello che ha segnato per sempre la sua vita, un'altra preoccupazione interviene a caricarla d'ansia: le sue due figlie, in vacanza da sole e non raggiungibili telefonicamente, non danno notizie da giorni... In un susseguirsi di colpi di scena, le tessere del presente e del passato finalmente si ricompongono in un quadro imprevedibile. Tra una Firenze grigia e spenta e un paesaggio dolomitico dal quale salgono fumo e nebbie, la verità si fa largo solo all'ultimo, come un lampo accecante.

L'autrice

Una ragazza affidabile

Silena Santoni è nata e vive a Firenze. Per molti anni ha insegnato Lettere nelle scuole medie e superiori. Ha frequentato una scuola triennale di recitazione e un corso annuale di sceneggiatura teatrale e scrive brani e adattamenti teatrali per la compagnia Katapult nella quale recita. "Una ragazza affidabile" (Giunti 2018), il suo romanzo d’esordio, è stato un successo di critica e pubblico.

La parola alla Giuria

È sicuramente lo stile il punto di forza di questo romanzo. Uno stile lucido e di elegante fascinazione dove si disegna la storia di due sorelle immerse in un spazio/tempo di perfetti flashback tra attualità e passato. Un romanzo d’esordio che ha dentro di sé l’eleganza del dramma familiare e una densità cromatica quasi da thriller. E così tra rimozioni, fughe, negazioni e ansia del ritrovarsi procede la storia di Agnese e Micaela che dopo quasi sessant’anni si ritrovano a Firenze per un’eredità. Una ragazza affidabile, costruita nella eco della voce narrante di Agnese, ci dona due spaccati del femminile di grande rigore e bellezza: la scelta “conformista” e la scelta della “trasgressione”. Un prezioso viaggio nel tempo dove scorrono canzoni, sommovimenti politici, risate tra amici, droga, passioni consumate, lontananze, paure, scelte sbagliate, invidie, illusioni che progressivamente diventano lo sfondo compiuto per raccontare l’universo multiforme di due donna e la totalità del loro mondo complesso e sovente lacerato. Insomma, un vissuto imperioso e totalizzante. Una ragazza affidabile è un romanzo d’improvvisi e densità dove i salti temporali e gli slanci narrativi ci donando un’opera letteraria di vera forza.
Alfonso Amendola

Leggi il primo capitolo

Prologo

È disteso lungo il ciglio della strada, ma non dorme.
Il corpo possente, quasi in bilico sul terrapieno innevato, ha già assunto la rigidità della morte, con le zampe anteriori stecchite a formare un angolo retto con le spalle. La testa, piegata in avanti, è un po’ sollevata da terra per la corona ramificata che si allarga sulla fronte. Ha un mantello folto che cangia come il velluto dal marrone chiaro al beige per condensarsi in tenere macchie bianche in prossimità della coda.
“Un maschio. Un gran bell’esemplare” dice la guardia forestale, abbassandosi e appoggiando le mani al finestrino aperto. “Scendono a valle in cerca di cibo”.
Poco più in là un’automobile con la fiancata distrutta e gli sportelli spalancati. Il proprietario siede al posto di guida, rivolto verso l’esterno e si tiene la testa tra le mani.
Una piccola folla si è riunita intorno all’animale. Chi si inginocchia per esaminarlo meglio, chi allunga una mano a sfiorargli le corna, chi preme la punta dello scarpone contro la schiena.
Lui giace immobile in una pozza di sangue, gli occhi sbarrati, increduli, le ciglia bionde spruzzate di nevischio. Il suo corpo finirà in quarti su un bancone di macelleria, la sua testa appesa a un muro, ma la sua anima balza, zigzagando, sui crinali del Catinaccio.
Al tramonto il Rosengarten, questo il nome tedesco del Catinaccio, sfonda il paravento delle nuvole e si staglia contro il cielo con le sue rocce tinte di rosso e di viola.
La leggenda narra che il re dei nani, adirato col suo giardino di rose, lo abbia condannato a restare invisibile di giorno e di notte. E così è stato.
Ma al calare del sole la montagna si imporpora e come una rosa splende di un’intensa quanto fugace magnificenza. È in quel momento evanescente forse che i morti si riuniscono sulle sue balze e nelle sue foreste per rinnovare, pieni di nostalgia, il rito di commiato alla vita.
È questo che preferisce pensare mentre gira la testa dall’altra parte. L’agente tira su in fretta il vetro del finestrino e riparte. Nell’abitacolo surriscaldato i piumini evaporano umidità e aleggia un odore chiuso di neve e benzina. La strada sfreccia lungo colline imbiancate e villaggi deserti.
Meglio concentrarsi sulla nuca rasata del guidatore, unico punto palpitante di vita, sulla sfumatura alta che gli prolunga il collo fino a metà testa, sulla pelle giovane, arrossata dal freddo e ombreggiata dalla ricrescita dei capelli.
Ciò che sgomenta è il silenzio. Il silenzio delle stalattiti di ghiaccio che colano dalle grondaie, della neve che fiocca in falde larghe e si posa come un sudario sulla natura intirizzita. Il paesaggio raggelato nella rivelazione della catastrofe, cristallizzato nello sbigottimento di un disastro che si è consumato troppo in fretta per essere compreso.
Forse il tempo aggiusterà le tessere degli accadimenti fino a formare un quadro intellegibile, ma nel presente tutto è frammentario, inesplicabile.


Il ritorno
Il telefono ha squillato alle tre meno dieci. Lo so con certezza perché per afferrare la cornetta mi sono girata su un fianco e ho visto l’ora sul display della radio sveglia.
È successa una disgrazia, mi sono detta, invece era Micaela, che, pur non essendo una disgrazia in senso letterale, è qualcosa che le assomiglia molto.
“Bisogna andare dal notaio della zia. ” mi ha comunicato senza troppo preamboli.
Non so da quanto tempo non ci sentiamo e lei, all’improvviso, mi telefona nel cuore della notte per dirmi che siamo convocate dal notaio della zia.
“Lo sai che ore sono?”
“No”
“Sono le tre. Di notte”
“Uh, scusami. Non me ne ero resa conto.”
“Noi la mattina andiamo a lavorare” ho sibilato e le ho riattaccato sul muso.
“Ma chi era?” ha farfugliato Gianfranco aprendo un occhio.
“Niente, dormi. Solo quella pazza di mia sorella.”
Ma Micaela il giorno seguente è tornata all’attacco: “Mi spiace per ieri notte, ma dal notaio dobbiamo proprio andarci. È per l’eredità.”
“Che c’entro io? Non mi interessa.”
“Beata te! A me invece interessa e se non ci sei anche tu resta tutto bloccato. Avanti, Agnese, fammi il piacere.”
“In questo momento non posso lasciare il lavoro.”
“Basta che parti venerdì, il notaio ci riceve anche il sabato mattina. Non dirmi che non puoi prendere un giorno di permesso”.
In effetti la scusa del lavoro non regge e non è giusto lasciare Micaela, bisognosa cronica di denaro, senza l’eredità della zia.
Il giovedì pomeriggio vado dal parrucchiere. Faccio il colore, i riflessi, un taglio moderno da portare rigorosamente liscio. Mi faccio anche le mani. Pago senza battere ciglio una cifra da capogiro. La sera indugio a lungo davanti all’armadio prima di decidere cosa indossare durante il viaggio. Sento mio marito in cucina aprire e chiudere il frigorifero, apparecchiare la tavola per una cena che non ho preparato. Alla fine la scelta ricade sui capi delle grandi occasioni: pantaloni beige, morbidi e cascanti, maglioncino cachemire marrone bruciato. Un’eleganza sobria ma solida. Per sopra estraggo dalla naftalina il tre quarti di camoscio imbottito che tengo come le cose sante.
Gianfranco mi raggiunge porgendomi un bicchiere di vino: “Siamo proprio sicuri che vai da tua sorella?”
Ma io sono troppo tesa per stare al gioco: “A Firenze fa freddo”.
“Dai, Agnese, cos’è quella faccia? Si tratta di due giorni.”
“Lo sai che non mi va.”
“Fai male, in fondo è tua sorella”.
Si aggiusta gli occhiali sul naso. Spalle larghe, torace ampio, tutto in lui sprigiona calma solidità. Non può capire, lui che è figlio unico, quanto possa essere disturbante incontrare una sorella come Micaela.
Alla stazione guarda con aria dubbiosa il mio bagaglio lillipuziano: “Non hai portato nulla. Non ti basterà.”
“Avanza. Domenica al massimo sono a casa”.
Lo scompartimento del treno è stranamente vuoto. Ripiego con cura il giaccone di camoscio e lo ripongo dalla parte della fodera nel bagagliaio sopra di me. Mi siedo accanto al finestrino e apro l’inserto di “Repubblica”. Ma il mare, che scorre proprio lungo i binari, cattura la mia attenzione.
Questo tratto di costa in estate è molto affollato e rumoroso. Una teoria a perdita d’occhio di ombrelloni e lettini, musica sparata a tutto volume, pance e cosce cellulitiche che fanno ginnastica sul bagnasciuga, pianti di bambini, schiamazzi, grida. In questa stagione è tutt’altra cosa. L’Adriatico d’inverno ha un suo fascino particolare, anche da Ancona a Rimini. La spiaggia si distende piatta e deserta fino a lasciar discernere, in fondo, le onde basse, dense, che avanzano e si ritirano dalla battigia. E dietro, la massa immobile del mare sconfina con la linea dell’orizzonte, si annacqua in un grigio perlaceo e sembra che il mondo finisca lì, che non ci siano altri lidi, altri approdi dall’altra parte.
Un brivido mi attraversa la schiena. Distolgo lo sguardo e cerco di concentrarmi su pensieri piacevoli. Laura e Matilde che se la spassano in vacanza, Gianfranco che mi si avvicina da dietro e si modella al mio corpo per dormire abbracciati.
È strano, ho viaggiato per mezzo mondo, ma questo breve viaggio da Ancona a Firenze mi riempie di inquietudine.
“Nostoi”, chiamavano i greci i viaggi di ritorno. Ma il mio non è un viaggio di ritorno, in nessun caso. Il disbrigo di qualche pratica burocratica e di nuovo a casa. Mi conforta l’esiguità del bagaglio, spazzolino da denti e un ricambio di biancheria, giusto il minimo indispensabile per un paio di giorni.
Ho lasciato Firenze 35 anni fa e ci sono tornata fugacemente solo per la morte dei miei genitori. Ad Ancona ho un buon lavoro, un marito che meglio non si potrebbe, due figlie meravigliose, una bella casa. Quello che ho l’ho conquistato palmo a palmo, senza dover ringraziare nessuno. A Firenze mi resta solo Micaela, ma in tutto questo tempo siamo diventate due estranee, ammesso che ci siamo mai conosciute.
Micaela, col dittongo, come teneva a precisare a chi sbrigativamente la chiamava col più comune Michela. Quanto ho odiato questo suo vezzo snobistico! Questo suo porsi fin dal nome come elemento raro e speciale! Io invece sono Agnese, condannata a questo nome da vecchia affibbiatomi in memoria della nonna, che ebbe la brillante idea di morire cinque mesi prima della mia nascita.
Cambio a Bologna, il treno è affollato ma anche questa volta il posto prenotato è vicino al finestrino. Mi guardo intorno: l’esercito compulsivo della solitudine globale ha il volto abbassato su cellulari e tablet. Tentacoli sottili spuntano dalle orecchie e collegano all’appendice elettronica, bocche si aprono e si chiudono in schizofrenici dialoghi solitari.
Davanti a me una ragazza diafana, basco nero di lana, sciarpa nera, unghie laccate di nero. Con le dita lunghe e sottili che spuntano appena dalle maniche del maglione tiene premuto all’orecchio un I phone di ultima generazione. Parla a voce bassissima, quasi ingoiando il telefono, la testa appoggiata al vetro del finestrino, lo sguardo perso nel vuoto di un interlocutore fantasma. Una conversazione lunghissima. Finalmente riattacca e subito digita un altro numero e ricomincia.
Accanto a lei un signore distinto, capello appena spruzzato di bianco sulle tempie, abbigliamento rassicurante del tipo “affidami i tuoi risparmi, sei nelle mani giuste”, tiene aperto davanti a sé un computer portatile. Ha gli auricolari del cellulare alle orecchie e ogni tanto inizia a parlare. Parla continuando a osservare lo schermo o a digitare sulla tastiera senza soluzione di continuità.
Come sarà adesso mia sorella? È così tanto tempo che non ci vediamo che non riesco a immaginarlo. Ci siamo incrociate l’ultima volta in occasione della morte del babbo e della mamma, ma la brevità dell’incontro e la circostanza non mi permettono di inquadrarla. I ricordi veri risalgono all’adolescenza, agli anni del ginnasio, con l’insegnante di lettere che mi sfiniva con le versioni dal greco all’italiano, dall’italiano al greco, con le declinazioni, i paradigmi, i verbi irregolari e via dicendo. Io sempre lì a studiare, china sul Rocci, per trovare un riscatto ai chili di troppo e far finta di non vedere i compagni che tra un’ora e l’altra facevano capannello e organizzavano feste di classe alle quali non ero mai invitata.
Lei intanto in seconda liceo, ai piani alti, svolazzava da un appuntamento all’altro, era la reginetta degli incontri, sempre al centro, passava con disinvoltura dalle feste alle assemblee.
“Deligere oportet quem velis deligere”, citavo con tono sprezzante.
“Eh?”
“Bisogna scegliere chi si vuole amare. Cicerone.”
“Vade retro, Satana!”, mi rispondeva sghignazzando e incrociando le dita a formare una croce.
Naturalmente di studiare non se ne parlava nemmeno. Ha strappato a stento la Maturità con un misero 36. Poi si è iscritta a Architettura, attratta dal clima di contestazione più che per genuino interesse, credo, e infatti dopo un anno non aveva dato neanche un esame. Allora passò all’Accademia di Belle Arti e lì ha vivacchiato per qualche tempo senza concludere. Quando io mi sono trasferita ad Ancona con una laurea in tasca lei era ancora a chiedersi cosa avrebbe fatto da grande.
Micaela volava da una passione all’altra con la leggerezza e l’inconsistenza di una piuma, con l’insolente sicurezza che possiedono le femmine avvezze a ricevere gli sguardi ammirati degli uomini.
Il ricordo è fermo a quella sua bellezza giovanile. Ma so bene quanto la memoria sia ingannevole e ora che questo treno mi riporta da lei temo che la realtà sconfessi certezze consolidate, mostrandomi i solchi che il tempo ha scavato sul suo corpo. E sul mio.
Una sorella fantasma. Per le mie figlie, che non ne hanno altre, una zia fantasma. Unica traccia le cartoline di auguri che ogni anno ci manda per Natale. Cartoline a dir poco singolari: la renna, con le corna conficcate nella neve, che agita le zampe per aria, mentre Babbo Natale giace svenuto tra i rottami della slitta, Babbo Natale legato e imbavagliato mentre i ladri fuggono sulla slitta con i regali mostrandogli il medio alzato. Non so se è un suo modo per mantenere uno scherzoso contatto o se vuole avvertirmi che la sua vena dissacratoria è rimasta immutata nel tempo. Questa volta Babbo Natale, la renna e la slitta erano spiaccicati sul terreno come adesivi al vetro dell’automobile. Su di loro l’impronta dei cingolati del gatto delle nevi.
Intanto fuori scorre l’Appennino con le sue pendici spoglie e sbriciolate che si fanno man mano più impervie.
Accanto a me siede un ragazzone biondo con una camicia a scacchi. Sul sopracciglio sinistro un piercing a pallina va su e giù ogni volta che corruga la fronte. Tiene un I Pad poggiato sul cavallo dei pantaloni altezza ginocchia. È concentrato su un gioco tipo guerre stellari. Ad ogni vibrazione elettrica di alabarda spaziale abbassa di scatto la testa sormontata da un cimiero di capelli sparati di gel.
Lo osservo di sbieco, combattuta tra la commiserazione e la tenerezza, lui si volta verso di me, chiude il tablet e con un sorriso mi chiede se può dare un’occhiata all’inserto di “Repubblica” che ho appoggiato sul tavolino. Glielo cedo volentieri e mi giro a guardare a tratti il paesaggio fuori, a tratti il mio volto riflesso sul vetro contro il buio delle gallerie.
Improvvisamente, all’uscita del tunnel di Pian del Voglio, in un turbinio di pulviscolo bianco, la montagna mi balza addosso come un animale domestico che non riconosca il padrone. Sono abbagliata dal candore compatto della neve che fluttua nella nebbia. A malapena riesco a distinguere il breve terrapieno al lato della rotaia, al di là il treno è sospeso in una materia opaca senza principio e senza fine.
C’è chi non tollera i luoghi chiusi, chi si rifiuta di entrare in ascensore e non visiterebbe mai una miniera. Io invece soffro di agorafobia. Ne ho sofferto soprattutto da ragazza, quando mi sono trasferita ad Ancona. Improvvisamente sentivo una mano che mi stringeva alla gola e mi trovavo distesa per terra. Non sono tanto gli spazi aperti a scatenarmi il panico, quanto gli spazi senza bordo, senza confine. Mi terrorizza l’idea di non vedere cosa c’è oltre.
Sento salire l’angoscia. Comincio a sudare, il respiro si fa concitato, allento la sciarpa che mi avvolge il collo. Vorrei non guardare ma una forza maligna mi attrae , irresistibile, verso lo spazio esterno. Immagino i binari che si perdono nel vuoto, il treno che precipita, silenziosamente. Il senso di vertigine mi assale, mi aggrappo ai bordi del sedile ma tutto ruota intorno vorticosamente e lo stomaco balza in gola mentre vengo risucchiata nella voragine senza fondo…
“Signora, signora!”. Il giovane accanto a me si è alzato, mi sorregge per una spalla e mi dà dei buffetti sulla guancia. Per un attimo distinguo solo la pallina che si agita davanti a me, poi un po’ alla volta riemergo dalla voragine, riconosco lo scompartimento, vedo il volto preoccupato del ragazzo sopra di me, gli altri passeggeri che si sono alzati per prestare aiuto.
“Sto bene, grazie.” Rispondo piena di vergogna.
“Sicura?”
“Solo un calo di pressione. Mi capita qualche volta.”
“Deve mangiare qualcosa.” Insiste lui con tono competente.
Vedo sventolarmi davanti agli occhi una banana. La allontano garbatamente con la mano: “Tra poco sono arrivata. Faccio colazione a Firenze, grazie”.
Micaela
Micaela è ad aspettarmi sulla banchina della stazione. La individuo tra la folla mentre il mio vagone la supera di qualche metro. Scendo i gradini e mi ha quasi raggiunta. Rimaniamo una di fronte all’altra senza sapere cosa dire.
“Signora, la accompagno al bar?” chiede gentilmente il giovane raggiungendomi.
“Non occorre, grazie, c’è mia sorella.”
“Hai rimorchiato? Va bene che sono di larghe vedute, ma mi sembra un po’ troppo giovane per te” esordisce lei col suo solito risolino sarcastico.
Sono le prime parole che mi rivolge, prima di chiedermi come sto, come stanno le mie figlie, come sta Gianfranco. Resto a guardarla, rigida come una grondaia.
Ha i capelli grigi, raccolti in una treccia che le arriva a metà schiena. Detesto questa trasandatezza in una donna di sessanta anni, ma devo riconoscere che a lei stanno bene, le conferiscono un’aria da aristocratica di campagna. Per il resto non è granché cambiata. Stesso fisico snello, stessi occhi immensi e luminosi.
“In questi casi di solito è di prassi un abbraccio” dice sorridendo e cingendomi per le spalle.
Micaela mi sovrasta di mezza testa. Così, intrecciata a lei, sembro una cicala attaccata al ramo. Indossa un cappotto leggero a quadri bianchi e neri che avrebbe fatto la sua figura a Portobello negli anni Settanta. Percepisco sotto il tessuto il cuneo aguzzo delle scapole.
“Hai prenotato l’albergo?” le chiedo sciogliendomi dall’abbraccio.
“Neanche per sogno. Vieni da me”.
Alle mie proteste replica che ha una camera libera, che ci mancherebbe che dopo tutti questi anni non stessimo un po’ insieme, che ha pulito la casa da cima a fondo e che se non accetto sono proprio una stronza. Poi afferra la mia borsa da viaggio a indicare che non ammette repliche: “Tutto qui il tuo bagaglio?” chiede. “Ti senti proprio di passaggio. Oppure è la mia presenza che ti disturba?”
A Firenze non fa freddo, in compenso pioviggina. Piccole gocce sporche che punteggiano il mio camoscio come schizzi di caffè.
“Prendiamo un taxi?” suggerisco.
“Ma che dici! Abito qui a due passi, al mercato centrale”:
Ci facciamo strada a fatica tra le bancarelle e la folla che indugia davanti alla merce esposta. Micaela si muove sicura come un batterio nel suo brodo di cultura, io arranco con i miei tacchetti sul selciato sconnesso, attenta a non perdere la sua schiena a scacchi e i catarifrangenti verdi che, tragicamente, risplendono sul forte delle sue scarpe da ginnastica.
Finalmente giriamo in via de’ Ginori. Mi precede su per quattro rampe di scale strette e ripide fino a un portoncino pitturato di verde. Un ingresso soggiorno minuscolo, pieno zeppo di oggetti, con due finestre che affacciano sulla strada. Mi guardo intorno: un divano sgangherato, coperto con un telo a fiori e ingombro di cuscini, una scaffalatura di metallo adibita a libreria, un tavolino col computer, manifesti e cesti di vimini alle pareti. E giornali, bicchieri sporchi, vestiti sparsi ovunque. È così che fa pulizie, lei, constato tra me.
Forse mi è sfuggita involontariamente una smorfia, perché Micaela precisa con tono di scusa: “Questa stanza devo ancora riordinarla. Mi sono concentrata sulla camera e sul bagno.”
“Da quanto tempo abiti qui?”
“Da otto anni. Mi piace, è pieno di vita. È uno dei pochi quartieri rimasti autentici”.
Penso dubbiosa alle facce olivastre degli ambulanti e alle maglie sventolanti dei calciatori e ai grembiuli da cucina col pisello del David stampato in bella vista che ho notato passando.
“È tuo?”
“No, sono in affitto. Ma con l’eredità della zia spero di poterlo comprare.
“E Merlino?”
Lei ride: “Merlino? Agnese, ma che dici? Merlino è morto sei anni fa. Aveva diciotto anni, era decrepito… Vieni, ti mostro il resto della casa”.
Mi guida in un cucinotto arredato sommariamente, in un bagno minuscolo, piastrelle sbrecciate anni ’50 doccia ricavata tirando una tenda di plastica e in una camera da letto, la stanza più grande e silenziosa perché la finestra affaccia su un pozzo di luce.
“Tu dormi qui” mi informa posando la mia borsa sul letto.
“Avevi detto che c’era una camera libera” protesto io.
“Questa. Non ti va bene?”
“E tu?”
“Tranquilla sorellina, non intendo violare la tua privacy. Io mi arrangio in salotto”.
Sorellina! Non era un diminutivo affettuoso, ma il suo modo di prendermi in giro o di ribadire la mia inadeguatezza.
“Non permetto” ribatto gelida per ristabilire le distanze.
“E falla finita di giocare alle signore!”. Ma vedendo che sono rabbuiata sul serio aggiunge: “Ho voglia di stare un po’ con te. Che c’è di strano?”.
La scruto in preda al sospetto, ma sul suo volto non c’è traccia di ironia.
“Fai come se fossi a casa tua”.
Vorrei fare mille domande a questa estranea, tutte le domande che per anni mi sono rimaste in gola, ma l’unica cosa che riesco a dire, mentre mi tolgo il giaccone e lo depongo sul letto, è: “Hai una spazzola?”
Lei entra in bagno e subito dopo riappare con in mano una spazzola da capelli. Qualche lungo filo grigio è impigliato tra i crini.
“Una spazzola per indumenti. Non vedi come è ridotto il mio soprabito?”
Micaela scuote la testa: “Ho quella con cui spazzolavo Merlino”:
Non c’è nulla da fare. Chi nasce stronzo muore stronzo. Le volto le spalle e passo la mano sul camoscio, come se accarezzassi un figlio malato per il quale non ho medicina.
Micaela mi osserva con una smorfia: “Vieni, ci facciamo un tè, così mi racconti un po’ di te. Quant’è che non ci vediamo? Dieci anni?”
“Quasi quindici” ribatto acida.
“Ma pensa!”
E poi ha fatto quel gesto di prendersi una ciocca di capelli dalla fronte con l’indice e il medio e cominciare a tormentarla col pollice. Era una specie di tic, lo faceva senza rendersene conto ogni volta che era nervosa o assorta. La prendevamo in giro per questo a casa, la chiamavamo “ricciolino”, ma io, che i ricci ce l’ho davvero, mi sono allenata per anni in segreto per imitare quel gesto. Senza successo.
Sedute una di fronte all’altra ci scrutiamo senza parere. La sorella dei miei ricordi è riconoscibilissima in questa signora attempata. Eppure… eppure c’è qualcosa che me la rende estranea. Non sono le guance che hanno perso la pienezza di un tempo e nemmeno la pelle che tende al grigio. Sono gli occhi, i suoi splendidi occhi. Ancora grandi, mobili, chiari da risultare quasi inquietanti, ma privi della scintilla che li animava. Gli occhi di Micaela sono spenti, come se la vita, passandoci sopra, ci avesse steso un velo di disillusione.
Anche lei, immagino, sta registrando i cambiamenti intervenuti sulla mia persona. Si alza di scatto e mette un pentolino d’acqua sul fornello. Dandoci le spalle è più facile avviare una conversazione.
“Lavori sempre?” mi chiede.
“Certo che lavoro!”
“Ma che lavoro fai esattamente? Non l’ho mai capito.”
“Sono consulente legale in un ufficio fidi per la Regione Marche.”
“Sarebbe?”
“Controllo la situazione legale delle aziende che chiedono alla regione di avallare un prestito bancario.”
“Cioè?”
“Lascia perdere, te lo spiego un’altra volta.”
“Però è un lavoro importante. Vero?”
Provo dentro di me un moto di stizza per questa sua finta ingenuità. Micaela sa benissimo che mi sono laureata a 23 anni con la lode, che ho vinto un concorso, che ho fatto carriera.
“Tu cosa fai?” ribatto con una punta di malignità.
“Vado in giro in cerca di cose e poi le rivendo ai mercatini dell’antiquariato.”
In giro, cose, mi pare di vedere Nanni Moretti e i suoi amici che dopo un giorno e una notte inconcludenti aspettano l’alba dalla parte sbagliata.
“Che tipo di cose?” insisto.
“Soprammobili, bicchieri, tovaglie, telefoni, libri, tutto quello che trovo. Passo in rassegna le case in cui è morto un vecchio, qualche chiesetta di campagna sconsacrata, le aste, vado dove capita, dove mi avvertono che posso trovare qualche pezzo interessante. Certe volte compro nei negozi di rigattiere e rivendo al banco di un amico. Domenica siamo a Arezzo. Vieni?”
Faccio finta di non aver sentito.
“Poi faccio un po’ di ceramica” continua lei “quel mio amico mi fa usare il suo magazzino e ci tengo il tornio”.
Dalla mensola sopra il frigorifero prende una tazza e me la mette in mano.
È una tazza grande, di forma irregolare, pende di lato e ha i bordi sbilenchi. Sul fondo celeste smaltato sono incisi, come graffiti, strani uccelli dalle zampe lunghissime che sfumano al blu.
“Originale” è l’unico apprezzamento che riesco a fare.
“Ti piace davvero? Allora prendila, è tua. Tienila per ricordo”. La avvolge rapidamente in un foglio di giornale e me la mette in borsa. “Sono tutti pezzi unici” aggiunge con orgoglio.
Ho una sorella che a sessant’anni fa ancora i balocchi. Mi ero illusa che fosse cresciuta, almeno da vecchia, invece me la ritrovo vestita da clown a rovistare nei cassonetti e a giocare col pongo.
“Che c’è? Non ti piace?”
“No, carina, solo stavo pensando… Micaela, ma ci vivi con questi lavoretti? È tutto così precario, così casuale…”
Un lampo della ben nota ironia le attraversa lo sguardo. Si alza, prende tabacco e cartine dalla stessa mensola e comincia a rollare una sigaretta.
“Le prepari da sola?” Le chiedo.
Lei annuisce mentre passa la lingua sui bordi per farli aderire. Poi me la offre. Scuoto la testa.
“Non fumi più?”
“Dalla prima gravidanza. Sono ventisei anni.”
“Perché?”
“Cerco di preservarmi. Ho due figlie, io. Ti piacciono queste cicche?”
“Un’abitudine che ho preso in collegio”, risponde guardandomi quasi con aria di sfida.
È da allora, da quando ha iniziato a prepararsi le sigarette da sola che le nostre vite sono schizzate in direzioni opposte e divergenti. Fisso, a disagio, il tè grigiastro nella mia tazza.
Traspira una lunga boccata e mi butta il fumo in faccia senza preoccuparsi che mi dia fastidio: “Ci vivo, ci vivo. A me basta poco”.
Solo ora faccio caso alla modestia del suo abbigliamento. Un paio di jeans logori e un maglione sformato, per non parlare delle scarpe sicuramente made in China. Una necessità o la sua solita ostentazione di eccentricità?
Dovrei dirle qualcosa di carino, che so, invitarla da me per un fine settimana, tanto è certo che non verrà. Ma Micaela non è più interessata alla conversazione. Si è alzata, gira inquieta per la casa, apre sportelli e cassetti. Poi dà un’occhiata fuori dalla finestra: “Ha smesso di piovere. Ti va di fare un giro in centro?”
La proposta toglie entrambe dall’imbarazzo, in un attimo siamo al portone.
“Hai preso l’ombrello?” chiedo.
“No, tanto ormai non piove più”.
Guardo scettica la coltre di piombo compatto sul mio capo. Chiedo perdono al camoscio e arranco dietro a mia sorella tra la folla che si è fatta ancora più numerosa. Procediamo lentamente, intralciate dal pigia pigia di Borgo san Lorenzo. Davanti alla chiesa resistono le “buche”, metà negozio metà bancarella, con le scale strette e ripide che scendono nel sottosuolo e le file di scarpe allineate sugli scaffali lungo il marciapiede. A parte queste, tutto è cambiato. Ad ogni passo un ristorante coi tavolini sulla strada malgrado la brutta stagione. A metà una gru con un operaio in bilico che rimuove gli ultimi festoni natalizi intasa ulteriormente la via. Siamo costrette a fermarci per dare la precedenza alla folla che procede in senso contrario. Non so quale forza maligna mi spinga a girarmi alla mia destra in cerca dell’Antica pizzeria Nuti.
La riconosco solo dall’insegna. Porta di legno scuro, dehor minimalista davanti, menù chilometrico in una teca a lato. Niente a che vedere col locale spartano che per decenni ha cocciutamente conservato l’aspetto delle origini. Ci venivo con Sergio. Il più delle volte compravamo una pizza al taglio e la mangiavamo camminando, con la mozzarella bollente che filava agli angoli della bocca e colava sulla carta unta. Ora non c’è Sergio, ma un ragazzo dinoccolato di colore che cerca di attirarmi dentro e mi ficca in mano un volantino pubblicitario del locale.
“Per favore, sono di Firenze” dichiaro per levarmelo di torno, ma in realtà mi sento più straniera di lui, più straniera della cinese seduta sul marciapiede a vendere cavallette di carta, più straniera perfino di questa coppia di tedeschi in sandali e calzini di lana che studia il menù davanti a un ristorante e contro la quale sono andata a sbattere.
Di nuovo la sudorazione, la gola che si chiude. Mi aggrappo al pensiero del ritorno, delle semplici azioni quotidiane -portare il giaccone in tintoria, annaffiare le piante del salotto- che mi ricollochino in una dimensione di normalità, ma la folla avanza come una falange in marcia, mi circonda, sempre più pressante, volti accigliati, mani invadenti, odore di corpi eccitati e il tonfo cadenzato di una cavalleria al galoppo. Riconosco gli antichi segnali, è l’attacco di panico, tale e quale a quando mi assaliva da ragazza. Testa bassa, labbra serrate, tendo le braccia in avanti per aprirmi un varco, ma è come trovarsi nell’epicentro di un gorgo, più mi agito più la massa mi stringe. Non vedo più niente, solo materia solida che invade il mio spazio vitale…
“Agnese! Agnese!”
“Non la sente.”
“Certo che la sente, ha gli occhi aperti.”
“Sollevatele le gambe.”
“Agnese, rispondi per carità!”
In questo mio lento riemergere da un mondo di silenzio le parole suonano estranee e lontane. Percepisco agitazione intorno a me, ma la cosa non mi riguarda.
Dalla posizione in cui mi trovo, invece, posso osservare comodamente la cupola di Santa Maria del Fiore gonfiarsi sui tetti come una mongolfiera e il Campanile di Giotto che le fa da sentinella. Si può prendere le distanze da tutto, penso, ma non dalla bellezza.
“Fate largo, arriva il dottore”.
Mani che toccano il polso, che tastano la fronte.
“Il battito è regolare. Signora, come si sente?”
“Agnese, hai capito? Come ti senti?”
“Proviamo a metterla seduta”.
Altre mani proteggono la nuca, sollevano la schiena.
Ecco, da questa posizione un po’ più elevata riesco a vedere anche il Battistero, seguo con lo sguardo le linee geometriche perfette, scendo alle porte del Paradiso.
Sono stata battezzata in Battistero, come Cacciaguida. Sarà per questo, forse, che, seduta sull’asfalto bagnato, osservo con superbo distacco il gruppo di giapponesi con gli impermeabili trasparenti e la macchina fotografica a tracolla che ascoltano lì davanti la spiegazione della guida.
“Agnese, ti prego, di’ qualcosa.”
“Bello!”
“Cosa?”
“Qui… non ricordavo più quanto fosse bello.”
“È stata colpita da sindrome di Stendhal” suggerisce qualcuno in vena di interpretazioni suggestive.
“Macché sindrome di Stendhal” replica il dottore. “È stato un collasso. Venga in farmacia, le misuro la pressione”.
È stato un collasso. L’ago della macchinetta segna inequivocabilmente ottanta di massima. Il medico mi porge un bicchiere d’acqua dal sapore amaro.
“Ha fatto colazione?”
Penso all’insipido tè verde lasciato raffreddare nella tazza da mia sorella e scuoto la testa.
“La porti subito a mangiare qualcosa” dice a Micaela.
Pochi minuti, il tempo di percorrere via Calzaioli, e mi trovo seduta a un tavolo minuscolo. Davanti a me un panino grasso, la crosta dorata e croccante del filone toscano, una striscia di formaggio che fa capolino, il profumo inconfondibile della finocchiona. Troneggia nel piatto, accordo cromatico perfetto, simmetria delle proporzioni straordinaria. Ancora una volta concordo coi Pitagorici circa il valore etico della bellezza.
Micaela mi dà un pizzico sul braccio. “Mangia, non vorrei che fossi di nuovo colpita dalla sindrome di Stendhal”.
La pioggia ci sorprende all’improvviso. Uno scroscio violento, obliquo, che mi raggiunge anche al riparo dei tetti.
Quando arriviamo a casa il tre quarti è definitivamente compromesso. La messa in piega è partita e i capelli hanno assunto un andamento ondulato senza capo né coda. Sulla fronte svetta l’orrenda banana che mi fa somigliare a Tintin.
“Sei proprio sicura di voler rinunciare alla tua parte di eredità?” mi chiede Micaela a bruciapelo, mentre cerco invano di dare un senso alla mia acconciatura.
“Sicurissima, te l’ho già detto. È tutto pronto, no? Domani andiamo dal notaio, metto una firma e riparto.”
Così presto?” Però sembra sollevata di aver avuto conferma. “E Gianfranco come sta? Le ragazze?”.
Si ricorda solo ora che ho un marito, una famiglia. Capisco anche che non rammenta il nome delle mie figlie.
“Perché non sono venute anche loro?”
“Si sono prese qualche giorno di vacanza insieme. Non si vedevano da quattro mesi.”
“Quattro mesi?”
“Laura in questo momento vive a Parigi.”
“E l’università?”
“Terminata. Si è presa pure un master. Solo che in Italia non trova lavoro”.
Micaela scuote la testa: “Che Paese di merda!” Accavalla le gambe con un sospiro. “Almeno ha trovato un buon impiego?”
Non vorrei continuare questa conversazione, è un argomento scottante, ma mia sorella, che quasi si era scordata dell’esistenza delle sue nipoti, ora mi incalza con le sue domande.
“Che lavoro ha trovato a Parigi?”
Esito, poi sono costretta a rispondere: “Lavora in una brasserie, sai, baguette farcite.”
“Fa i panini? E non poteva farlo in Italia?”
È esattamente quello che le ho detto quando ha annunciato di voler partire, ma mai e poi mai lo ammetterei con Micaela.
“Anche tu sei andata a Londra”.
Mi pento immediatamente di averlo detto. L’avevo giurato a me stessa: niente scorrerie nel passato.
Resta assorta per qualche secondo, poi replica: “Io non avevo mica la laurea. E poi volevo mettere un po’ di distanza tra me e i brutti ricordi”.
Non raccolgo l’allusione, non voglio raccoglierla in nessun modo.
“Guadagna bene almeno?”
“Insomma…benino. Per ora le diamo una mano noi. Ma torna presto” mi affretto ad aggiungere “intanto fa un’esperienza, impara bene il francese.”
“Già, forse ha ragione lei”.
Capisco che lo dice poco convinta. Neanche io del resto lo sono. Un anno sprecato, a quasi ventisei anni, senza prospettive, senza una strada chiara. Non immaginavo che la mobilità consistesse nello scorrazzare da una parte all’altra del mondo.
“Noi siamo stati privilegiati, abbiamo potuto aspirare al posto fisso. Loro no”.
Ma Micaela non mi ha sentito, insegue il filo di un suo ragionamento interiore.
“Sono strani i giovani oggi. Sono diversi. Non capisci dove vogliono andare…bivaccano…”
Proprio lei! Non riesco a trattenermi: “Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt”.
Mi guarda sconcertata: “Non ti è ancora passata la fissa delle citazioni?”
“Questo è Seneca. Te lo traduco, perché immagino non abbia capito: abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri mentre i nostri ci stanno dietro. E comunque loro non sono così”.
In un rigurgito di orgoglio materno le parlo di me e di Gianfranco, di quanta cura abbiamo messo nell’educare le nostre figlie, ma soprattutto le parlo di Laura e Matilde, di quanto siano brave, assennate, affettuose, dell’armonia che regna nella nostra casa. Non le dico che Laura in passato ha avuto qualche problema di droga, peraltro completamente risolto. Non le dico nemmeno che viviamo nel quartiere più esclusivo di Ancona, che dal salone della nostra villetta borghese vediamo il golfo e sentiamo l’odore del mare.
Da un po’ di tempo mi chiedo cosa lasceremo davvero alle nostre brave figliole. La villetta sul Conero, se non ce la mangiano prima le badanti. La speranza no, quella non l’hanno mai avuta. Nemmeno la rabbia. Sembra che tutto gli scivoli addosso. Noi siamo cresciute in un’Italia povera, ancora lontana dal consumismo. Avevamo fame. Fame di riscatto, di cambiamento. Loro hanno fame solo di cellulari e computer.
Ma di che mi lamento? Di uno scivolone, in un breve periodo di crisi, della maggiore? Per il resto nulla da eccepire. È vero, non leggono un libro neanche se le inchiodo al letto, ma a scuola sono sempre state brave, diligenti. Eppure certe volte le sento così lontane che mi chiedo se per caso a ostetricia non le abbiano scambiate nella culla con le figlie di un’aliena.
“Per noi è difficile capire” aggiungo.
“Non riesco a immaginarle adulte. Per me sono ferme all’infanzia. Come tu con Merlino”.
Il paragone suona un po’ irrispettoso ma è calzante. Anche per me spesso il ricordo è più forte del presente, cristallizza le immagini in un tempo prestabilito e non ne vuole sapere di accettare i mutamenti.
“Sono delle belle ragazze? Hai una fotografia?”
Le mostro sul telefonino un paio di foto scattate a Natale. Io in poltrona e loro due ai lati, sedute sui braccioli. Matilde ha preso dalla famiglia di Gianfranco, ha un viso dolce, tratti morbidi. Laura non assomiglia né a me né a mio marito: capelli scuri, lineamenti marcati. Solo ora realizzo con disappunto che assomiglia a Micaela. Anche di carattere è più spigolosa della sorella, più volitiva. Sono entrambe protese verso di me, i volti vicini, e ridiamo. Dietro di noi il luccichio delle luci dell’albero.
“Ecco i miei gioielli” dico per stemperare nell’ironia l’orgoglio materno.
Micaela le osserva a lungo, con un’espressione indecifrabile. Le tolgo di mano il cellulare e lo ripongo celermente in borsa nel timore che le esca di bocca qualcuna delle sue battute infelici.
“E tu?” le domando.
“Io cosa?”
“Hai qualcuno? Un compagno, un amore…”
Scuote la testa: “Sola come un palo della luce. Magari tra un po’…”
“Tra un po’ quando? Hai sessanta anni, sessanta! Dove vivi, Michela (la chiamo così di proposito per provocarla), tra poco cominceranno gli acciacchi, le malattie e tu sei sola, senza un lavoro, senza una pensione! Che farai quando non potrai più salire le scale di questa casa di studenti?”
“Potrei trasferirmi da te. Hai sempre avuto l’anima del boy scout.” Replica con quel ghigno allusivo che mi ha sempre fatto imbestialire. Le lancio un’occhiata al vetriolo e torno in camera a spazzolarmi i capelli.
Dopo un attimo mi raggiunge: “Scusa, hai ragione”.
Le volto le spalle ma dallo specchio la vedo sedersi sul letto. Lo fa con un movimento stanco che a dispetto del corpo flessuoso tradisce l’età.
“In realtà c’è stata una storia importante, è durata fino a due anni fa”. Si accende una sigaretta, incurante di trovarsi nella camera in cui io dormirò. “È andata avanti più di dieci anni: lui era sposato e con figli, io ero l’amante… Mi ci vedi a fare l’amante?” Sorride beffarda. “Poi è morto. Un infarto. Non sono nemmeno potuta andare al funerale”.
Non credo alle mie orecchie. Mia sorella che per un tempo infinito si adatta al ruolo di comprimaria!
“Mi spiace. Davvero” le dico “ma perché ti cacci sempre in situazioni assurde? Che pensavi di ricavarci da una storia come questa? Non dirmi che credevi che avrebbe lasciato la moglie.”
“No, lo sapevo benissimo. Non l’avrei nemmeno voluto.”
“E così ti sei accontentata delle briciole.”
“Delle briciole? Io da quest’uomo ho preso il meglio, l’allegria, l’entusiasmo, la passione. Ho lasciato alla moglie le serate davanti alla televisione in pantofole, i calzini da lavare, gli acciacchi, le flatulenze.”
“Il matrimonio non è fatto solo di queste cose.”
“No?”
“No. È fatto anche di condivisione, complicità…”
Micaela mi osserva, gli occhi ridotti a due fessure, mentre mi agito nella ricerca delle parole adatte a definire il mio matrimonio. Poi mi balza agli occhi l’immagine di Gianfranco che mi bacia a labbra chiuse quando torna dal lavoro: “Tenerezza.”
“Buon per te, allora”.
Con la mano libera riprende ad arricciarsi il ciuffo ribelle. “Sai, non era bello, più basso di me, con un gran naso. Ma era divertente, riusciva a stupirmi”.
Mio marito in questi ultimi anni si è appesantito parecchio, ma quando l’ho conosciuto era un gran bel ragazzo. Imprevedibile no, non lo è mai stato. Nemmeno particolarmente divertente. Ma profondamente buono, una persona seria. Ma cosa importa tutto questo a Micaela? Micaela vive a Disneyland, dove i matrimoni, le relazioni, le responsabilità sono scherzi del castello incantato.
“Solo divertente?” ribatto gelida. “Ti bastava questo? Hai sempre vissuto all’insegna della dispersività, dell’improvvisazione. Potevi avere tutto dalla vita e invece? Ti trovi sola e senza un soldo.”
“Tranquilla, sorellina, me la caverò in qualche modo. A dire il vero non mi importa cosa sarà. Quando sei fuori di testa e te la fai addosso fa differenza se hai un marito e il conto in banca o no? Ho vissuto come volevo. Male, secondo il tuo punto di vista e probabilmente hai ragione, ma non avrei potuto vivere in nessun altro modo. Le famiglie del Mulino bianco non fanno per me. E comunque stai tranquilla, non verrò a Ancona a scombinare l’ordine costituito”.
“E adesso? Non hai nessuno? Che so, degli amici”.
Ha appoggiato una mano sul letto, dalla bocca espira anelli di fumo e fissa con aria trasognata un punto invisibile dietro di me: “Amici? No. Non c’è nessuno al momento che mi interessi frequentare. Sai, il collegio è stato… formativo. Ho imparato molte cose in quei due anni. Non solo a prepararmi le sigarette. Ho imparato per esempio che sono l’unica persona con cui vado veramente d’accordo.
“Avevi ancora tutta la vita davanti!”
Micaela solleva le spalle, fa un mezzo sorriso e spenge la cicca in un bicchierino di plastica colmo d’acqua che si trovava sul comodino.
“È così. Ma che bell’anello!”
La sua attenzione è saltata come un grillo da problemi esistenziali al brillante infilato al mio anulare, regalo di Gianfranco per i trenta anni di matrimonio.
“Stavamo affrontando argomenti un po’ più seri, mi pare.”
“Agnese, tu prendi tutto alla lettera. Non vale la pena di prendere la vita sul serio. Passa così in fretta”.
Ma sì, meglio parlare d’altro. “Ti piace?” chiedo porgendole l’anello.
Lo contempla a lungo, tenendolo nel palmo della mano come se scottasse a toccarlo con le dita.
“È vero?”
“Certo che è vero. È un regalo di mio marito” preciso con orgoglio.
Me lo restituisce. “E brava Agnese! Era proprio quello che volevi. Non è così?”
Non ho capito se si riferisce all’anello oppure al marito premuroso, alle figlie assennate e in generale ai binari sicuri su cui scorre la mia vita. Sto per replicare, ma lei ha di nuovo cambiato argomento: “Ma che eleganza! Sei diventata proprio una bella signora, di classe”.
Ancora una volta riesce a spiazzarmi. Verifico se si sta prendendo gioco di me, con lei è una specie di reazione automatica, ma il suo tono ha la neutralità di una constatazione oggettiva.
“Ti sei conservata proprio bene, neanche un filo di grasso. Chi l’avrebbe mai detto quando eri una ragazzina!”
Scoppia in una risata. “Dio, ti ricordi com’eri grassa? Si faceva prima a saltarti che a girarti intorno. Perfino il viso era più largo che lungo, sì, era ovale nel senso sbagliato”.
Continua a ridere, gli occhi le si riempiono di lacrime.
Anche io vorrei ridere, ma non ci riesco: “Ho sofferto molto” le grido “Hai capito? Ho sofferto.”
Micaela si blocca di colpo, si asciuga gli occhi col dorso della mano. “Hai sofferto?” chiede con genuino stupore.
“Non occorre essere un luminare della psicanalisi per intuire che un’adolescente obesa è infelice.”
“Macché infelice! A me parevi parecchio allegra. Di sicuro il dispiacere non ti aveva tolto l’appetito”.
Detesto il modo di Micaela di sottovalutare le emozioni, di ricondurre tutto al suo punto di vista. Un tempo subivo la sua personalità debordante, ora la guardo severa e sibilo: “Tu che ne sai?”
“Le persone grasse sono sempre allegre”. Avevo fatto mio questo luogo comune e mi ero cucita addosso un personaggio di spensierata ilarità, ma quando arrivai in prima liceo non riuscii più a far finta di essere allegra. Decisi che una taglia 42 valeva più di un quintale di spaghetti e di mille gelati tutti insieme e iniziai una dieta dissennata, consistente principalmente nel saltare i pasti. La disciplina acquisita sui banchi di scuola mi fu d’aiuto nel sopportare i morsi della fame e le tentazioni di gola. In compenso in meno di un anno raggiunsi la meta agognata e cominciai anch’io a indossare i pantaloni a campana a vita bassa. Ora mi invitavano alle feste di classe, ma a me non importava più. Anni di emarginazione avevano fatto dei miei compagni di scuola degli estranei.
Intanto Micaela si è alzata e sta frugando nella prima cassetta del comò. “Dove l’ho messa… ah, eccola!” esclama trionfante, mostrandomi una foto in bianco e nero. È di formato piccolo, con i bordi zigrinati, come erano le fotografie tanti anni fa. Noi due sul bagnasciuga, sullo sfondo un mare basso e piatto. Sul retro è scritto di pugno di mia madre: Rimini, agosto 1962. Dunque lei ha nove anni, io sei. Ci teniamo per mano. Micaela ha la frangetta, le trecce che le ricadono dietro le spalle e un’espressione da gatta infuriata, indossa una sorta di bikini con una fascia plissettata sul seno completamente piatto. Lo sterno esile, le ossa prominenti del bacino mettono in evidenza la sua magrezza. Io non le arrivo nemmeno alle spalle. Ho la testa reclinata di lato in una posa che da bambina mi era abituale, i capelli corti, arruffati, pieni di ricci e solo un paio di mutandine che mi arrivano in vita. Sono già paffuta, come dimostrano le pieghe sul petto e sulle cosce. Non ci assomigliamo per niente.
La pensione Stella, dove ogni anno andavamo in villeggiatura, avrà avuto non più di otto camere. La nostra, un letto matrimoniale e due brande, era al primo piano, proprio davanti all’insegna al neon. Di notte la luce filtrando tra le stecche del rotolante abbassato proiettava sull’armadio una grata luminosa. Intorno all’edificio correva un giardino ombreggiato da un enorme pino marittimo e delimitato dalle macchie bianche e rosa dei fiori d’oleandro, con un dondolo sul quale ondeggiavamo furiosamente.
Sono flash quelli che mi tornano in mente, immagini rubate a un’infanzia remota: una spiaggia infinita e le corse sulla sabbia rovente per guadagnare il bagnasciuga, l’uomo che alle 11 in punto passava con la sua cassetta di legno gridando “bomboloni caldi” e il sapore ineffabile della pasta fritta che si scioglieva in bocca e dei granelli di sabbia che scricchiolavano sotto i denti.
Nelle prime ore del pomeriggio, quando gli adulti riposavano in camera, all’imperversare di “Guarda come dondolo” Micaela e io ci esercitavamo in giardino nei passi del twist. Mi sembra di sentirle le parole di quella canzone, con la dizione marcata di uno scoppiettante Edoardo Vianello.
“Guarda come dondolo, guarda come dondolo con il twist”, divaricavamo le gambe e cominciavamo a ondulare sul busto. “Con le gambe ad angolo, con le gambe ad angolo ballo il twist”, alzavamo una gamba e la appoggiavamo a terra flettendoci sulle ginocchia. “Sarà perché io dondolo, saranno gli occhi tuoi che brillano…”, ci piegavamo in su e in giù, guardandoci negli occhi e ridendo.
“Dove l’hai trovata?”
“In casa del babbo e della mamma quando l’ho vuotata”.
I nostri genitori sono morti nel ’99, a distanza di 15 giorni l’uno dall’altra, come se il tumore fosse contagioso. Avevo le bambine piccole, presi un’aspettativa dal lavoro e mi trasferii a Firenze lasciando a Gianfranco e ai miei suoceri il fardello della casa e delle figlie. Micaela era a Londra e arrivò in pratica per ricevere le condoglianze ai funerali. Poi io sono ripartita e lei è rimasta.
“Peccato che te ne sia andata subito” continua lei “è stato importante ritrovare le loro cose, un po’ come averli ancora vicini”.
“Io gli sono stata vicina quando erano vivi! Non sono scappata in Inghilterra”.
Venivano spesso a trovarmi, sempre più grigi, sempre più tristi. “Micaela l’hai sentita?” buttava là la mamma. “No”. “Lavora in una galleria d’arte, sai?” “Mi fa piacere per lei”. “Insomma, Agnese, perché sei così severa con lei?” “Non sono severa, mamma”. “Siete solo voi due. Quando non ci saremo più…” “Per favore, non preoccuparti. Non è successo nulla, davvero, solo che abbiamo preso strade diverse”.
“È stato meglio così. Per tutti”. Replica Micaela amara.
“Perché non ci sei tornata a Londra?”
“Prima ho dovuto vuotare la casa, poi ho conosciuto Stefano e sono rimasta.”
“Si chiamava Stefano?”
Annuisce. “Tanto non lasciavo nulla di importante a Londra.”
“Dio santo, Micaela, passi a Londra venti anni della tua vita, quelli che contano, e non lasci nulla? Si può sapere che ci hai fatto?”
“Un po’ di tutto, l’animatrice, la commessa, ho lavorato in una galleria d’arte, in un pub. In un pub soprattutto, gli ultimi anni ho fatto quello.”
“Servivi le birre.”
“Servivo le birre, sì, come la tua figliola serve i panini. Agnese, ti prego, proviamo a inventarci una comunione di idee e di intenti, almeno questi due giorni?”
Ha ragione. Basta. Per farmi perdonare e anche per garantirmi un pasto decente le propongo di andare a cena al ristorante, offro io, lei deve solo scegliere il posto. Si rianima, fruga nell’armadio e intanto passa in rassegna a voce alta le trattorie del centro che possono fare al caso nostro, anzi, al caso mio. Alla fine si presenta con una gonna troppo corta e con un paio di stivali lucidi, elasticizzati, che le fasciano il polpaccio.
Malgrado i buoni propositi non resisto: “Che ti sei messa?” sbotto indicandole le gambe.
“Ti piacciono? Sono vintage.”
“Ma usavano quarant’anni fa!”
“Meglio, così non ce l’ha nessuno”.

Intervista all'autrice



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